Continuità diretta ed indiretta nella vigente legge fallimentare e nel Codice della crisi d'impresa

Daniele Fico
18 Novembre 2021

Gli interventi del legislatore degli ultimi anni hanno evidenziato l'accentuarsi di un chiaro atteggiamento di favore verso il concordato in continuità, volto ad assicurare all'azienda in crisi il reinserimento sul mercato, dopo il processo di ristrutturazione, rispetto a quello liquidatorio. La preferenza del legislatore per il concordato preventivo in continuità è altresì ribadita nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza dove viene espressamente chiarito che la continuità può essere diretta ed indiretta
Premessa

Come noto, il concordato in continuità è stato regolamentato nel nostro ordinamento con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 183, attraverso gli artt. 186-bis e 182-quinquies, comma 4(ora comma 5), della vigente legge fallimentare, anche se, già antecedentemente alla novella del 2012, era ritenuto ammissibile il concordato fondato sulla prosecuzione dell'attività dell'impresa.

In particolare, ai sensi dell'art. 186-bis, comma 1, l. fall., il medesimo opera quando il piano concordatario prevede:

a) la prosecuzione dell'attività d'impresa da parte del debitore;

b) la cessione dell'azienda in esercizio;

c) il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione.

Il concordato in continuità (detto anche di risanamento) si fonda, quindi, su un piano aziendale che prevede la prosecuzione dell'attività d'impresa al fine del superamento della crisi e del recupero della solvenza del debitore e rappresenta un'alternativa al concordato con cessione dei beni (definito anche liquidatorio), di cui all'art. 182 l. fall., nel quale il debitore mette a disposizione dei creditori tutto il suo patrimonio proponendo il pagamento dei crediti chirografari in una percentuale comunque tale da realizzare il soddisfacimento dei medesimi, in tempi relativamente ragionevoli.

A queste due tipologie di concordato preventivo nella prassi se ne è aggiunta una terza, nota come concordato misto, caratterizzato dalla coesistenza di una componente di continuità aziendale ed una componente liquidatoria.

Sulla definizione di questa forma di procedura concordataria non vi è unanimità di vedute. Secondo alcuni, infatti, il concordato si definisce misto quando alla prosecuzione dell'attività si affianca la cessione a terzi dell'azienda in esercizio o il suo conferimento in una o più società (per un approfondimento v. F. Lamanna, Che cos'è e quando è configurabile il cd. concordato “misto”?, in questo portale, 16 settembre 2015); per altri, invece, quando alla prosecuzione dell'attività aziendale si affianca la liquidazione dei beni estranei al perimetro aziendale e non funzionali alla prosecuzione dell'attività medesima (S. Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in Crisi d'impresa e fallimento, Ilcaso.it, 4 agosto 2013).

Tale opinione, tuttavia, a parere di chi scrive non è scevra da critiche dal momento che, trovando la sua ratio nello stesso art. 186-bis l. fall. - che consente al proponente di prevedere la liquidazione di beni non funzionali - sembrerebbe più propriamente potersi considerare come una delle modalità di esecuzione della proposta di concordato in continuità.

La differenza, a ben vedere, non è di poco conto in quanto la non corretta configurazione della procedura concordataria origina dubbi in relazione alla disciplina da applicare - quella speciale ex art. 186-bis e 182-quinquies, comma 5, l. fall. o quella prevista dall'art. 182; all'eventuale applicazione della percentuale minima di soddisfacimento dei creditori chirografari ai sensi dell'art. 160, comma 4, l. fall.; a quella inerente alle proposte concorrenti; nonché alla necessità della nomina del liquidatore giudiziale.

Nel concordato con continuità aziendale, infatti, il piano può prevedere anche la liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, ma è il debitore a dover procedere alla loro liquidazione ed al pagamento dei creditori in misura in ogni caso superiore a quella che potrebbe loro derivare dalla liquidazione dell'intero patrimonio della società (in questo senso Trib. Milano 1 marzo 2014). Nel concordato liquidatorio, invece, in virtù della cessione dei beni ai creditori le operazioni anzidette sono svolte dal liquidatore giudiziale nominato ai sensi dell'art. 182 l. fall.

Sulla questione, la prevalente giurisprudenza di merito, al fine di individuare le norme da applicare in presenza di concordato misto, ritiene necessario verificare se le operazioni di dismissioni previste, ulteriori rispetto all'eventuale cessione dell'azienda in esercizio, siano o meno prevalenti in termini quantitativi, rispetto al valore dell'azienda che permane in esercizio, anche se per mezzo di cessione a terzi (così App. Firenze 23 dicembre 2019, n. 3101, in Fall., 2020, 572; Trib. Milano 28 novembre 2019; Trib. Arezzo, 13 luglio 2018, in Fall., 2018, 1358; Trib. Monza 26 luglio 2016, ivi, 2017, 434. Per Trib. Bergamo 14 luglio 2021, in tema di concordato misto, per trovare applicazione la disciplina della continuità aziendale è necessario che la componente della prosecuzione dell'attività d'impresa sia minimamente significativa in termini qualitativi e quantitativi nel contesto del piano; in senso conforme, Trib. Bologna 5 luglio 2021, ivi).

Secondo i giudici di legittimità (Cass. 15 gennaio 2020, n. 734, in Fall., 2020, 477, con nota di R. Brogi, Concordato con continuità e liquidazione dei beni: prevalenza qualitativa, prevalenza quantitativa o combinazione), al contrario, il concordato preventivo nel quale alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si affianchi la prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale di cui all'art. 186-bis l. fall. che, al primo comma, contempla tale fattispecie. Questa norma, infatti, non prevede alcun giudizio di prevalenza quantitativa tra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità, sotto il profilo qualitativo, dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.

Per la S.C., quindi, non c'è spazio ad equivoci di sorta in merito al fatto che il concordato tradizionalmente definito come misto sia, secondo le intenzioni del legislatore, un concordato in continuità che prevede la dismissione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa. La regola prevista dalla norma, pertanto, non riguarda la quantità delle porzioni a cui sia affidato un diverso destino (e la conseguente prevalenza dell'una rispetto all'altra in funzione delle risorse da devolvere alla soddisfazione dei creditori), ma la funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell'impresa in uno scenario concordatario.

La disciplina speciale del concordato in continuità nella vigente legge fallimentare

La disciplina del concordato in continuità si applica indistintamente a tutte le ipotesi nelle quali l'imprenditore in crisi prosegua nella sua attività d'impresa, sia nei casi in cui la gestione sia diretta a tempo indeterminato, sia nei casi in cui la gestione, comunque diretta, sia funzionale al mantenimento dei valori in funzione di una cessione dell'azienda, realizzabile anche attraverso il conferimento in una o più società (sulla possibilità di continuità aziendale in presenza di affitto di azienda, v. infra).

Il concordato in continuità presuppone, pertanto, la prosecuzione dell'attività imprenditoriale da parte del debitore nel corso della procedura, con la conseguente imputazione del rischio di impresa al debitore stesso - attraverso una gestione diretta a tempo indeterminato o attraverso una gestione funzionale alla futura cessione o conferimento della medesima, volta comunque alla massimizzazione del valore di realizzo o del risanamento dell'azienda con maggiori prospettive di soddisfacimento dei creditori. Per questa ragione, il legislatore richiede che il piano debba contenere anche un'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi alla prosecuzione dell'attività d'impresa, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura (art. 186-bis, comma 2, lett. a, l. fall.), nonché l'attestazione del professionista che la prosecuzione dell'attività d'impresa prevista nel piano concordatario sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (art. 186 bis, comma 2, lett. b, l. fall.).

La ratio del citato comma 2, lett. a), dell'art. 186 bis, è quella di fornire ai creditori adeguata evidenza, anche da un punto di vista economico e patrimoniale, delle conseguenze della continuità aziendale, al fine di consentire loro di valutare l'ammontare delle risorse destinate a tale scopo e, pertanto, sottratte, almeno in una prima fase, all'immediato soddisfacimento dei creditori.

Relativamente al disposto di cui al comma 2, lett. b), invece, l'attestatore dovrà acclarare che i proventi inerenti all'attività caratteristica o, in alternativa, all'incasso derivante dalla collocazione dell'azienda in funzionamento sul mercato, sono tali da consentire di corrispondere ai creditori un importo maggiore rispetto a quello che, verosimilmente, riceverebbero in presenza di un concordato liquidatorio. In questa ottica, il predetto art. 186-bis, comma 7, stabilisce che, qualora nel corso di una procedura concordataria con continuità aziendale l'esercizio dell'attività imprenditoriale cessa o risulta dannosa per i creditori, senza che si proceda a variare il piano e la proposta in senso liquidatorio, il tribunale provvede alla revoca della procedura ex art. 173 l.fall.

Ulteriore peculiarietà del concordato in continuità è rappresentata dalla possibilità di prevedere nel piano - fermo quanto disposto dal'art. 160, comma 2, legge fall. - una moratoria fino ad un anno dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione (art. 186-bis, comma 2, lett. c). In questa circostanza, il legislatore chiarisce che i creditori muniti di cause di prelazione non hanno diritto di voto evidenziando, implicitamente, secondo una tesi, che tale diritto spetta comunque in presenza di moratoria superiore all'anno (sul punto cfr. Cass. 18 giugno 2020, n. 11882).

Tale disposizione, come osservato dalla giurisprudenza di merito, ha natura eccezionale e si giustifica con la peculiarità, tipica del concordato in continuità, della prosecuzione dell'attività commerciale, la quale giustifica il sacrificio degli interessi dei creditori prelazionari. Per questa ragione, la moratoria non è applicabile al concordato liquidatorio nel quale vige, al contrario, il principio generale che impone al debitore di prevedere l'immediata cessione dei propri beni con effetto dalla data di omologazione del concordato.

Altro elemento caratterizzante il concordato in continuità è la prosecuzione dei contratti con la pubblica amministrazione. Ai sensi del terzo comma dell'art. 186 bis, infatti, fermo restando quando disposto nell'art. 169-bis l. fall., i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche se stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell'apertura della procedura; sono inefficaci eventuali patti contrari. In particolare, l'ammissione alla procedura di concordato preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici qualora l'esperto attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento.

Il quinto comma dell'art. 186 bis precisa, inoltre, che l'ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando l'impresa presenta in gara: a) la relazione di un professionista in possesso dei requisiti previsti dal comma 3, lett. d), dell'art. 67 l. fall., che attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto; b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei requisiti di carattere generale, di capacità finanziaria, tecnica, economica, nonché di certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto, il quale si è impegnato nei confronti del concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto ed a subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia per qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all'appalto. In ogni caso, successivamente al deposito del ricorso, la partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici deve essere autorizzata dal tribunale, previo parere del commissario giudiziale, ove nominato; in mancanza di tale nomina, provvede il tribunale (art. 186-bis, comma 4).

In presenza di concordato in continuità, infine, è consentito il pagamento dei debiti pregressi, a condizione che siano strategici per l'attività d'impresa, cioè necessari per la prosecuzione della medesima; nonché, alla luce delle modifiche urgenti alla legge fallimentare di cui all'art. 20 D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (pubblicato sulla G.U. 24 agosto 2021, n. 2020), il pagamento delle retribuzioni insolute antecedenti al deposito del ricorso ai lavoratori addetti all'attività di cui è prevista la continuazione ed il rimborso, alla scadenza convenuta, dei ratei di mutuo ipotecario gravante su beni strumentali all'esercizio dell'impresa.

L'art. 182 quinquies, comma 5, l. fall. (nel testo come sopra integrato), infatti, consente al debitore che presenta domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, anche con riserva, di chiedere al tribunale l'autorizzazione, assunte se del caso sommarie informazioni, a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi - se un professionista in possesso degli anzidetti requisiti attesta che queste prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell'attività d'impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori; nonché l'autorizzazione al pagamento delle retribuzioni inerenti alle mensilità antecedenti al deposito del ricorso ai lavoratori dipendenti addetti all'attività della quale è prevista la continuazione. L'attestazione del professionista non è comunque necessaria per pagamenti effettuati fino a concorrenza dell'ammontare di nuove risorse finanziarie che vengano apportate al debitore senza obbligo di restituzione o con obbligo di restituzione postergato alla soddisfazione dei creditori.

Ai sensi dell'art. 186 bis comma 6 (introdotto dal suddetto art. 20 D.L. 118/2021), la disciplina prevista dal sopra citato quinto comma è altresì applicabile al rimborso, alla scadenza convenuta, delle rate a scadere inerenti al contratto di mutuo assistito da garanzia reale gravante su beni strumentali all'esercizio dell'impresa, nel caso in cui il debitore, alla data di presentazione della domanda di ammissione alla procedura concordataria, ha adempiuto alle proprie obbligazioni o se il tribunale autorizza lo stesso al pagamento del debito per capitale ed interessi, scaduto a tale data.In questa circostanza, è comunque richiesto che un professionista in possesso dei già citati requisiti attesta anche che il credito garantito potrebbe essere soddisfatto integralmente con il ricavato della liquidazione del bene effettuata a valore di mercato e che il rimborso delle rate dovute non lede i diritti degli altri creditori.

Queste disposizioni - che rappresentano un'importante deroga al principio della par condicio creditorum nell'ambito del concordato, poiché consentono di pagare alcuni creditori concorsuali prima del tempo previsto ed al di fuori dei riparti – rendono quindi possibili tali pagamenti nel periodo intercorrente tra la presentazione della domanda ed il decreto di ammissione.

Continuità e affitto d'azienda

Tra le questioni maggiormente dibattute, anche in considerazione delle implicazioni di ordine pratico, va senza dubbio menzionata quella riguardante la riconducibilità dell'affitto d'azienda all'ambito applicativo dell'art. 186-bis l. fall., atteso che questa disposizione, accanto alla fattispecie della c.d. continuità diretta (cioè la prosecuzione dell'attività ad opera del medesimo imprenditore in crisi), non fa alcuna menzione di questa ipotesi (c.d. continuità indiretta), citando soltanto la cessione di azienda in esercizio e il suo conferimento.

Sul tema risulta necessario distinguere, preliminarmente, l'affitto “fine a se stesso”, cioè la fattispecie di prosecuzione dell'attività aziendale per mezzo dell'affittuario senza tuttavia prevedere contestualmente un obbligo di acquisto a suo carico entro un dato termine, da quello propedeutico al trasferimento dell'azienda o di un ramo della stessa.

Il primo, infatti, non rientra nel perimetro del caso in esame, come si evince, peraltro, dallo stesso tenore letterale dell'art. 186-bis (così Trib. Avezzano 22 ottobre 2014 e Trib. Patti 12 novembre 2013, entrambe in Ilcaso.it). Diversa, invece, è l'ipotesi di affitto prodromico alla cessione del complesso aziendale, nella duplice forma sia di contratto la cui stipulazione rappresenti un elemento del piano concordatario (in quanto tale di futura realizzazione), sia di contratto pendente all'epoca del deposito del ricorso ai sensi dell'art. 161 l. fall.

Sulla riconducibilità dell'affitto di azienda nel perimetro applicativo del concordato in continuità non vi è unanimità di vedute.

Secondo un orientamento, che si è progressivamente affermato in giurisprudenza, il concetto di continuità aziendale va inteso in senso oggettivo e, dunque, ben può sussistere anche in presenza di procedure concordatarie che conducono alla dissoluzione dell'imprenditore e comportano il travaso dell'azienda a terzi, purché l'azienda in sé e per sé non venga meno. La nozione di continuità aziendale ricomprenderebbe, pertanto, sia la fattispecie della continuità diretta dell'attività in capo all'imprenditore, sia quella della continuità indiretta. In questa ottica, l'affitto di azienda stipulato antecedentemente alla presentazione della domanda di concordato, come quello da stipularsi in corso di procedura concordataria non sarebbe, nel caso in cui vi sia la previsione di successiva cessione dell'azienda in esercizio, di ostacolo all'applicabilità della disciplina tipica del concordato in continuità, essendo l'affitto un mero strumento giuridico ed economico finalizzato proprio ad evitare una perdita di funzionalità ed efficienza dell'intero complesso aziendale in vista di un suo successivo passaggio a terzi (Trib. Alessandria 22 marzo 2016, Trib. Bolzano 10 marzo 2015, Trib. Roma 24 marzo 2015; Trib. Monza 11 giugno 2013).

Per i sostenitori di questa teoria, la riconducibilità dell'affitto di azienda al concordato in continuità troverebbe peraltro conferma nello stesso art. 186-bis, comma 1,che fa espresso riferimento ad un piano che preveda la “cessione dell'azienda in esercizio, sempre che il debitore sottoscriva un contratto di affitto di azienda, con impegno irrevocabile di acquisto, prima della presentazione della domanda di concordato, ovvero in pendenza di procedura (previa autorizzazione del giudice delegato ex art. 167 l.fall.), prevedendo, nella proposta, che il pagamento dei creditori avvenga con le risorse derivanti dai canoni corrisposti dall'affittuario in pendenza di procedura e dalla vendita dell'azienda a seguito dell'omologa.

Del resto, lo spartiacque cui ricorrere è di tipo oggettivo, non soggettivo: quello che conta è che l'azienda sia in esercizio (non rileva se ad opera dell'imprenditore medesimo o di un terzo), tanto al momento dell'ammissione alla procedura concordataria, quanto all'atto del suo successivo trasferimento, apparendo in tale circostanza incontestabile che il rischio d'impresa continui a gravare, seppure indirettamente, sul soggetto in concordato e che l'andamento dell'attività incida, in ultima analisi, sulla fattibilità del piano .

All'interno di tale orientamento si contraddistingue una corrente dottrinaria che, tuttavia, reputa in continuità esclusivamente l'affitto di azienda successivo alla domanda di concordato (o, benché anteriore, con effetto successivamente alla domanda, in conformità alle regole della procedura) e non anche l'ipotesi di affitto antecedente alla domanda, poiché “non sembra questa, obiettivamente, la fattispecie considerata dal legislatore nel dettare la norma, specie là dove essa postula la necessità di indicare i costi e i ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività, nonché le risorse finanziarie necessarie e le relative modalità di copertura” (così S. Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, cit.).

Secondo un orientamento giurisprudenziale e dottrinale più rigoroso, invece, tale fattispecie integra, di fatto, un concordato liquidatorio e non rientra nella figura del concordato con continuità neppure come ipotesi di “cessione dell'azienda in esercizio”, dal momento che l'espressione “in esercizio” va interpretata nel senso che l'azienda debba rimanere nella gestione del debitore sino alla fase esecutiva del piano di concordato (cioè quella successiva all'omologa) in cui verrà ceduta per l'appunto “l'azienda in esercizio” (Trib. Firenze 1 febbraio 2016; Trib. Arezzo 27 febbraio 2015; Trib. Busto Arsizio 1 ottobre 2014). La continuità aziendale, pertanto, andrebbe intesa come continuità diretta, con conseguente esclusione nel perimetro applicativo della norma dettata dall'art. 186-bis l. fall. dell'affitto d'azienda oggetto del patto di concordato. A tale conclusione si giungerebbe sia per l'argomento testuale di cui al primo comma dell'articolo citato; sia perché in tale ipotesi non si ha trasferimento di proprietà; sia, infine, per la mancanza di riferimento all'affittuaria al terzo comma dello stesso art. 186 bis, laddove sono menzionate come beneficiarie della continuazione dei contratti con la pubblica amministrazione soltanto le società cessionarie o conferitarie dell'azienda (Trib. Pordenone 4 agosto 2015).

Le suddette considerazioni, unitamente al fatto che la principale conseguenza dell'attività in svolgimento, e quindi della continuità aziendale, è rappresentata dal rischio d'impresa che continua a gravare sul debitore, ossia prestatore di equity e sui creditori, ossia prestatori di capitale di credito, mentre in presenza di affitto d'azienda tale rischio ricade esclusivamente sull'affittuario, hanno indotto alcuni studiosi a considerare incompatibile il concordato in continuità con l'affitto d'azienda.

Per i giudici di legittimità (Cass. 19 novembre 2018, n. 29742), il concordato in continuità è configurabile anche quando l'azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rilevandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell'ammissione alla predetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l'azienda sia esercitata dal debitore o, come nel caso dell'affitto della stessa da un terzo, in quanto il contratto d'affitto – recante, o meno, l'obbligo dell'affittuario di procedere, poi, all'acquisto dell'azienda – può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell'azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l'avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in maniera irreversibile.

Secondo Trib. Milano 22 dicembre 2020 (con commento di F. Rasile, G. Zanotti, Flussi finanziari derivanti dalla continuità indiretta, ragionevole durata delle procedure concorsuali e misura minima di soddisfacimento dei creditori, in questo portale, 28 aprile 2021), infine, i canoni incassati dalla società in concordato a titolo di corrispettivo per l'affitto del ramo d'azienda non costituiscono flussi finanziari derivanti dalla continuità indiretta, ma sono meri frutti o accessori del capitale e dello stesso patrimonio aziendale, resi possibili e generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore. Da ciò consegue che le somme così incassate devono essere distribuite secondo le regole dell'art. 2741 c.c., nel rispetto delle cause legittime di prelazione, e non possono essere qualificate come finanza esterna liberamente utilizzabile.

Il concordato in continuità nel codice della crisi d'impresa

Il favor per la continuità aziendale rispetto al concordato liquidatorio, in linea con il recente orientamento legislativo, è stato ribadito dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, pubblicato sulla G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019, integrato e corretto dal D. Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, pubblicato su G.U. n. 276 del 5 novembre 2020), la cui entrata in vigore è stata differita dall'art. 1 D.L. 118/2021 al 16 maggio 2022 (ad eccezione delle disposizioni riguardanti l'istituto dell'allerta per le quali l'entrata in vigore è prevista per il 31 dicembre 2023).

L'art. 84 del codice della crisi (di seguito CCI) – rubricato Finalità del concordato preventivo – dopo aver evidenziato al primo comma che con tale procedura il debitore realizza il soddisfacimento del ceto creditorio attraverso la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio, al secondo comma precisa, a differenza della normativa vigente, che la continuità può essere diretta o indiretta.

Ai sensi del secondo comma di tale articolo, infatti, la continuità può essere diretta, in capo all'imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta, se è prevista dal piano la gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, conferimento dell'azienda in uno o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque titolo, ovvero in forza di affitto, anche stipulato anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, ed e' previsto dal contratto o dal titolo il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione. In caso di continuità diretta il piano prevede che l'attività d'impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci. In caso di continuità indiretta la disposizione di cui al periodo che precede, in quanto compatibile, si applica anche con riferimento all'attività aziendale proseguita dal soggetto diverso dal debitore”.

Il terzo comma dell'art. 84 CCI, a sua volta, stabilisce che nel concordato in continuità “i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso. A ciascun creditore deve essere assicurata un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile”; utilità che, conclude tale comma, “può anche essere rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”.

Dalla lettura dell'art. 84, commi 2 e 3, CCI, emergono, pertanto, quali elementi di novità rispetto alla normativa vigente che:

- tra le fattispecie di continuità indiretta (cioè la gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività aziendale da parte di soggetto terzo diverso dal debitore) è espressamente previsto l'affitto d'azienda, perfezionato anche antecedentemente la presentazione della proposta di concordato;

- a differenza del contratto di affitto d'azienda, che nell'ambito di un concordato con continuità indiretta può essere sottoscritto anche prima del deposito del ricorso, la cessione, l'usufrutto ed il conferimento possono essere posti in essere esclusivamente in un momento successivo, in esecuzione del piano;

- affinché possa parlarsi di continuità indiretta è altresì necessario che il contratto o il titolo in forza del quale il soggetto diverso gestisce l'azienda in esercizio o riprende l'attività contengano la previsione del mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi anteriori al deposito del ricorso, fino ad un anno dall'omologazione (per un approfondimento, si rinvia a R. Brogi, Il concordato con continuità aziendale nel codice della crisi, in Fall., 219, 845 ss., la quale evidenzia come tale disposizione oltre a non trovare adeguato riferimento nella legge delega n. 155/2017, incide anche sulla tutela della stabilità dei rapporti di lavoro garantita dalla normativa europea in presenza di trasferimento d'azienda; M. Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, ivi, 855 ss.).

In tal modo, si è voluto garantire l'effettività della “dimensione oggettiva” della continuità, che è stata individuata dal codice della crisi facendo riferimento a specifici requisiti dimensionali, rappresentati dal mantenimento di un determinato numero di lavoratori rapportati alla media di quelli alle dipendenze dell'impresa negli ultimi due anni e temporali, costituiti dalla permanenza dei citati requisiti dimensionali per almeno un anno dopo l'omologa del piano, con il fine di evitare abusi dello strumento concordatario (così D. Burroni, Concordato preventivo, a cura di S. Sanzo, D. Burroni, Il nuovo codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, Bologna, 2019, 128);

- nel concordato in continuità il soddisfacimento dei creditori deve avvenire in misura prevalente dal ricavato ottenuto dalla continuità aziendale stessa diretta o indiretta;

- la prevalenza della continuità sull'attività liquidatoria sussiste sempre nel caso in cui i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso.

Nel codice della crisi viene quindi introdotto il principio generale che considera “in continuità” le procedure di concordato nelle quali i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. In ogni caso, la prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso (al riguardo, Trib. Milano 28 novembre 2019, parla di “prevalenza quantitativa attenuata”).

Ulteriori novità sono contenute nell'art. 86 CCI, che consente la moratoria non superiore a due anni (rispetto al termine annuale previsto dalla normativa vigente) dall'omologazione, per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca (salvo il caso di liquidazione dei beni interessati dalla causa di prelazione) e prevede il diritto di voto ai creditori privilegiati per la differenza tra il credito aumentato degli interessi legali ed il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano calcolato alla data di presentazione della domanda in base alla metà del tasso stabilito dall'art. 5 D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 in tema di ritardi nei pagamenti dei crediti commerciali.

Risultano invece confermate, in presenza di continuità aziendale – al pari dell'attuale art. 186-bis, comma 2, l. fall. - la clausola del miglior soddisfacimento dei creditori (art. 87, comma 1, lett. f, CCI) e la necessità della relazione di un professionista indipendente avente ad oggetto l'attestazione che la prosecuzione dell'attività d'impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (art. 87, comma 3).

Il ricorso al concordato in continuità consente al debitore l'esonero dal rispetto delle soglie previste dal quarto comma dell'art. 84 CCI in presenza di concordato liquidatorio, quali l'apporto di risorse esterne che incrementino di almeno il dieci per cento, rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari ed il soddisfacimento di questi ultimi in misura pari ad almeno il 20% dell'ammontare complessivo dei chirografi.

L'anzidetta disposizione pone quindi una nuova condizione di ammissibilità per qualunque domanda di concordato che abbia natura e contenuto esclusivamente liquidatorio: nel codice della crisi d'impresa, infatti, tale istituto risulta ammissibile soltanto qualora vengano messe a disposizione dei creditori risorse ulteriori rispetto a quelle rappresentate dal patrimonio del debitore.

Conclusioni

Le innovazioni legislative degli ultimi anni hanno quindi evidenziato l'accentuarsi di un chiaro atteggiamento di favore verso il concordato preventivo in continuità, volto a consentire all'azienda in crisi il reinserimento sul mercato, dopo il processo di ristrutturazione, con conseguente indebolimento di quello liquidatorio.

La preferenza del legislatore per il concordato in continuità è altresì ribadita nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza che, in un certo qual modo, ha sancito il declino del concordato liquidatorio favorendo, nei limiti del possibile, la conservazione della continuità aziendale, anche in maniera indiretta ed a preservare i livelli occupazionali, nel rispetto del soddisfacimento dei creditori.

Il sopra citato codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza risolve, altresì, alcune delle annose questioni sorte con la normativa vigente, quali quella concernente la continuità aziendale in presenza di affitto di azienda – attraverso il riconoscimento della c.d. continuità oggettiva che si verifica in tutti i casi di prosecuzione dell'attività aziendale, anche se condotta da soggetto diverso dal debitore - e quella inerente alla definizione di prevalenza, necessaria al fine di qualificare una procedura concordataria in continuità e, come tale, soggetta alla disciplina speciale o liquidatoria e, quindi, sottoposta alle anzidette soglie previste dall'art. 84, comma 4, CCI.

Il Codice della crisi, tuttavia, non disciplina le conseguenze del mancato mantenimento dei livelli occupazionali previsti dal piano, ovvero la violazione da parte del terzo avente causa del debitore concordatario degli obblighi di cui al secondo comma dell'art. 84 CCI lasciando, pertanto, aperte diverse questioni interpretative.

Secondo alcuni, infatti, il mancato rispetto di tale disposizione non potrebbe condurre in modo automatico alla risoluzione del concordato (M. Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, cit., 857). Per altri, al contrario, la suddetta violazione darebbe origine alla risoluzione del concordato preventivo per inadempimento, pur essendo l'inadempimento medesimo addebitabile al terzo (S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo: “finalità”, “presupposti” e controllo sulla fattibilità del piano (con qualche considerazione di carattere generale), in Ilcaso.it, 25 gennaio 2019, 3; Concordato preventivo fra vecchio e nuovo: continuità normativa, interessi protetti e soddisfacimento dei creditori, in Ristrutturazioni aziendali, in Ilcaso.it, 5 agosto 2021).

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