Giudizio disciplinare e processo penale per i medesimi fatti: si può configurare una violazione della Cedu?
18 Novembre 2021
La vicenda. A seguito di condanna a tre anni di reclusione e di multa da € 1.500,00 per tentata estorsione, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, cui con sentenza di appello passata in cosa giudicata -per l'inammissibilità del ricorso in cassazione- aveva fatto seguito dichiarazione di estinzione per prescrizione con conferma delle statuizioni civili, il Consiglio distrettuale di disciplina di interesse disponeva la citazione in giudizio disciplinare di un avvocato. Il legale veniva perseguito per aver tentato di costringere -nell'esplicazione, per lo meno nella fase iniziale, di un asserito incarico professionale- una cliente-donna a versare in suo favore una somma pari ad € 200.000,00, con la minaccia di diffondere fotografie che la ritraevano nuda. Il procedimento disciplinare si concludeva con l'irrogazione della sanzione della radiazione a carico del professionista. Avverso tale decisione il legale proponeva ricorso il quale, tuttavia, veniva rigettato dal Consiglio nazionale forense. Più nello specifico, il Consiglio nazionale forense osservava che non vi era prescrizione dell'azione disciplinare perché, non trovando applicazione alla prescrizione l'art. 65, comma 5, della L. n. 247/2012 sull'applicazione delle norme del nuovo codice deontologico se più favorevole ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore per la natura amministrativa del potere disciplinare e sanzionatorio; in verità, nel caso di specie -continuava il CNF- si applicava l'art. 51 R.D.L. n. 1578/1933, con decorrenza della prescrizione dal giorno dell'irrevocabilità della sentenza penale, trattandosi di procedimento disciplinare per fatti per i quali era stata iniziata l'azione penale. Inoltre, risultava che vi era stata interruzione della prescrizione, essendo stata intrapresa l'azione disciplinare prima del giudicato penale e poi grazie agli altri atti propulsivi del procedimento. Il CNF aggiungeva: (1) che non vi era violazione dell'art. 6 della Cedu per la diversità di sanzione disciplinare e sanzione penale; (2) e che la decisione disciplinare non era fondata solo sulla sentenza penale -dotata di efficacia di giudicato quanto all'accertamento del fatto, della sua illiceità penale e sulle prove raccolte in quella sede- ma anche sulle risultanze probatorie del procedimento disciplinare che deponevano per la conferma, con autonoma valutazione, del giudizio di colpevolezza dell'incolpato. Infatti, risultava che tutti i testi avevano confermato il comportamento negativo dell'avvocato, specificamente diretto al tentativo di estorsione ai danni della cliente-donna mediante la diffusione di foto intime in possesso dell'incolpato stesso. Sulla scorta dell'eclatante fallimento delle proprie tesi difensive, il legale proponeva ricorso in cassazione sulla base di diversi motivi. La decisione della Suprema Corte. Si può sin da subito precisare che il ricorso è stato dichiarato inammissibile, nei confronti della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di appello competente e nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale competente, e rigettato. Tra i vari motivi di ricorso, degno di analisi risulta l'asserito mancato rispetto del divieto del bis in idem, per come inteso dalla Corte EDU, che, secondo la tesi del legale, impedisce che possa essere celebrato il procedimento disciplinare se per il medesimo fatto sia stato instaurato antecedentemente un giudizio penale definito in modo irrevocabile. Tuttavia, la Suprema Corte ha dichiarato il motivo inammissibile per avere il provvedimento impugnato deciso la questione di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e non avendo, l'esame del motivo, offerto elementi per mutare orientamento. I Supremi Giudici sul punto rammentano che è costante nella giurisprudenza della Suprema Corte l'affermazione secondo cui in tema di giudizio disciplinare nei confronti dei professionisti, in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo in relazione al principio del ne bis in idem, in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all'effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale. In particolare, le stesse Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare che la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicché non è coerente con il sistema pervenire ad una loro identificazione. L'azione disciplinare, infatti, è promossa indipendentemente dall'azione penale relativa allo stesso fatto, e ben può il procedimento disciplinare proseguire anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria. Tra l'altro -continua la Suprema Corte- la diversità di natura delle sanzioni è confermata anche dalla circostanza che la pena accessoria può, come le altre sanzioni penali, estinguersi nel corso del tempo per amnistia oppure per effetto della riabilitazione, laddove la permanenza degli effetti della sanzione disciplinare ne evidenzia -con particolare rilievo in relazione alla più severa di esse- la specifica afflittività.
Fonte: Diritto e Giustizia |