La Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 177, comma 1, c.c.p.

25 Novembre 2021

La Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 e dell'art. 177, comma 1, del Codice dei contratti pubblici.
La q.l.c. e l'ordinanza di rimessione

L'art. 177, comma 1, c.c.p. obbliga i titolari delle concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, a esternalizzare, mediante affidamenti a terzi con procedura di evidenza pubblica, l'80% dei contratti di lavori, servizi e forniture, relativi alle concessioni di importo pari o superiore a 150.000 euro, nonché di realizzare la restante parte di tali attività tramite società in house o società controllate o collegate ovvero operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato.

Il Consiglio di Stato con sentenza non definitiva (n. 166 del 19 agosto 2020) ha sollevato q.l.c. dell'art. 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), e dell'art. 177, comma 1, del Codice dei contratti pubblici, per violazione degli artt. 3, 41, primo comma, e 97, secondo comma, della Costituzione.

Secondo il giudice rimettente, l'obbligo di dismissione totalitaria previsto dalle disposizioni di legge censurate, anche se finalizzato a sanare l'originario contrasto con i principi comunitari di libera concorrenza determinatosi in occasione dell'affidamento senza gara della concessione, si traduce in un impedimento assoluto e definitivo a proseguire l'attività economica privata (intrapresa ed esercitata in base ad un titolo amministrativo legittimo), secondo le disposizioni di legge all'epoca vigenti, con conseguente violazione dell'art. 41 Cost.

Sempre in contrasto con tale ultima disposizione, le norme censurate determinerebbero anche uno snaturamento del ruolo del privato concessionario, ridotto, secondo il rimettente, a mera stazione appaltante.

La scelta legislativa in questione, inoltre, non sarebbe equilibrata e violerebbe l'art. 3 Cost., dal momento che non ha tenuto conto (in alcun modo)delle legittime aspettative dei concessionari – contrapposte a quelle di tutela della concorrenza e del mercato – di proseguire l'attività economica in corso di svolgimento.

Le disposizioni censurate violerebbero l'art. 3 Cost. anche attraverso la previsione di un indistinto e generalizzato obbligo di dismissione «indipendentemente dalla effettiva dimensione della struttura imprenditoriale che gestisce la concessione, dall'oggetto e dall'importanza del settore strategico cui si riferisce la concessione, oltre che dal suo valore economico e dal fatto che il contratto di concessione fosse ancora in vigore al momento dell'entrata in vigore dell'art. 177 D.Lgs. n. 50 del 2016, ovvero se la concessione fosse scaduta e che versasse in una situazione di proroga, di fatto o meno».

La decisione della Corte

Dopo aver ricostruito il quadro giuridico di riferimento, la Corte premette che seppur il legislatore – in base a quanto previsto dall'art. 41 Cost. - può intervenire a limitare e conformare la libertà d'impresa in funzione di tutela della concorrenza, il perseguimento di tale finalità incontra pur sempre il limite della ragionevolezza e della necessaria considerazione di tutti gli interessi coinvolti. La libertà d'impresa, infatti, non può subire “nemmeno in ragione del doveroso obiettivo di piena realizzazione dei principi della concorrenza, interventi che ne determinino un radicale svuotamento, come avverrebbe nel caso di un completo sacrificio della facoltà dell'imprenditore di compiere le scelte organizzative che costituiscono tipico oggetto della stessa attività d'impresa”.

Secondo la Corte, la previsione dell'obbligo a carico dei titolari di concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, di affidare completamente all'esterno l'attività oggetto di concessione – mediante appalto a terzi dell'80 per cento dei contratti inerenti alla concessione stessa e mediante assegnazione a società in house o comunque controllate o collegate del restante 20 per cento – costituirebbe “una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine perseguito, in quanto tale lesiva della libertà di iniziativa economica, con la conseguenza dell'illegittimità costituzionale dell'art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 e dell'art. 1, comma 1, lettera iii), della legge n. 11 del 2016, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 41, primo comma, Cost.

L'irragionevolezza di tale obbligo risiederebbe:

a) nelle dimensioni del suo oggetto in quanto “la parte più grande delle attività concesse deve essere appaltata a terzi e la modesta percentuale restante non può comunque essere compiuta direttamente. L'impossibilità per l'imprenditore concessionario di conservare finanche un minimo di residua attività operativa trasforma la natura stessa della sua attività imprenditoriale, e lo tramuta da soggetto (più o meno direttamente) operativo in soggetto preposto ad attività esclusivamente burocratica di affidamento di commesse, cioè, nella sostanza, in una stazione appaltante”;

b) nella “sua mancata differenziazione o graduazione in ragione di elementi rilevanti, nel ricordato bilanciamento, per l'apprezzamento dello stesso interesse della concorrenza, quali fra gli altri le dimensioni della concessione – apparendo a tale fine di scarso rilievo la prevista soglia di applicazione alle concessioni di importo superiore a 150.000 euro, normalmente superata dalla quasi totalità delle concessioni –, le dimensioni e i caratteri del soggetto concessionario, l'epoca di assegnazione della concessione, la sua durata, il suo oggetto e il suo valore economico”;

c) nella mancata considerazione degli interessi dei concessionari, che “per quanto possano godere tuttora di una posizione di favore derivante dalla concessione ottenuta in passato, esercitano nondimeno un'attività di impresa per la quale hanno sostenuto investimenti e fatto programmi, riponendo un relativo affidamento nella stabilità del rapporto instaurato con il concedente. Affidamento che riguarda, inoltre, anche al di là dell'impresa e delle sue sorti, la prestazione oggetto della concessione, e quindi l'interesse del concedente, degli eventuali utenti del servizio, nonché del personale occupato nell'impresa. Interessi tutti che, per quanto comprimibili nel bilanciamento con altri ritenuti meritevoli di protezione da parte del legislatore, non possono essere tuttavia completamente pretermessi, come risulta essere accaduto invece nella scelta legislativa in esame”.

Per tali ragioni la Corte ha ritenuto che le disposizioni censurate non potessero superare il vaglio di proporzionalità, specificando che “per quanto la misura prevista possa in astratto apparire idonea rispetto al fine di ripristinare condizioni di piena concorrenza, non si può certo dire che con essa il legislatore abbia dato la preferenza al “mezzo più mite” fra quelli idonei a raggiungere lo scopo, scegliendo, fra i vari strumenti a disposizione, quello che determina il sacrificio minore”.

Secondo la Corte il legislatore sarebbe stato tenuto a perseguire l'obiettivo di tutela della concorrenza, “non attraverso una misura radicale e ad applicazione indistinta, ma calibrando l'obbligo di affidamento all'esterno sulle varie e alquanto differenziate situazioni concrete, attenuandone la radicalità, se del caso attraverso una modulazione dei tempi, ovvero limitandolo ed escludendolo, ad esempio, laddove la posizione del destinatario apparisse particolarmente meritevole di protezione, e comunque in definitiva dando evidenza alle circostanze rilevanti in funzione di un adeguato bilanciamento dei due diversi aspetti della libertà di impresa, costituiti, come visto, dalla aspirazione a proseguire un'attività in atto, da un lato, e dall'esigenza di assicurare la piena concorrenza, dall'altro”.

In conclusione, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale - per violazione degli artt. 3 e 41 Cost. (considerando assorbita la violazione dell'art. 97 Cost.) – dell'art. 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 e dell'art. 177, comma 1, c.c.p. (e, consequenzialmente anche dei commi 2 e 3).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario