Conflittualità genitoriale e violenza familiare: dialogo tra diritto e clinica

Monica Bonessa
15 Dicembre 2021

È indubbio che via sia nella pratica quotidiana una difficoltà a comprendere i confini tra violenza familiare e conflittualità considerato che con le stesse locuzioni siamo abituati ad indicare in via astratta tutte le più diverse forme di disfunzione familiare con la tendenza a ricondurre nell'alea della prima quelle a rilevanza penale e nella seconda tutte le altre. Per questo, ci si propone qui di offrire alcuni spunti di riflessione utili sia a comprendere le zone di apparente ombra rilevate nelle prassi, sia a sostanziare il proprio intervento modulando strategie in modo forse più efficace.
Introduzione

È indubbio che via sia nella pratica quotidiana una difficoltà a comprendere i confini tra violenza familiare e conflittualità considerato che con le stesse locuzioni siamo abituati ad indicare in via astratta tutte le più diverse forme di disfunzione familiare con la tendenza a ricondurre nell'alea della prima quelle a rilevanza penale e nella seconda tutte le altre.

Tuttavia, una distinzione tanto netta quanto approssimativa rischia di indurre in errore l'interprete: invero, ci sono situazioni familiari critiche in cui le condotte agite in seno al nucleo possono avere rilevanza in un senso e nell'altro, in entrambi o in nessuno.

Riprova ne sono tutti quei casi in cui, sebbene ci sembri che i fatti in valutazione siano riconducibili a una o all'altra categoria, in sede giudiziaria gli stessi trovano diversa collocazione e trattamento attraverso soluzioni che appaiono, talvolta, in contrasto con il quadro di riferimento.

Questo divario tra teoria e pratica trae origine, a parere di chi scrive, da almeno tre condizioni: la mancanza di definizioni unitarie di conflittualità genitoriale e di abuso; la ancora attuale fatica, soprattutto in termini difensivi, di porre come prioritario il superiore interesse dei minori invece di quello delle Parti e la trasversalità delle competenze e delle discipline cui necessariamente dobbiamo attingere per la valutazione (davvero) complessiva del caso specifico.

Per questo, ci si propone qui di offrire alcuni spunti di riflessione utili sia a comprendere le zone di apparente ombra rilevate nelle prassi, sia a sostanziare il proprio intervento modulando strategie in modo forse più efficace.

Le possibili definizioni di violenza familiare e conflittualità genitoriale nel quadro normativo vigente

A fronte della mancanza di una definizione preordinata e codicistica delle condizioni in esame, appare utile fare riferimento al nostro quadro normativo. Partendo dal Codice penale è possibile verificare come lo stesso offra all'interprete un articolato sistema di tutela tipizzando, soprattutto ai Titoli XI “Delitti contro la famiglia” e al Titolo XII “Delitti contro la persona”numerose forme di violenza: dalla mancata somministrazione dei

mezzi di sussistenza (art. 570 c.p.), ai maltrattamenti (art. 572 c.p.), dalla violenza sessuale (artt. 609-bis e ss.) alla violenza privata (art. 610 c.p.).

A detto impianto sostanziale si affianca poi, rinforzandolo, quello procedurale che, anche all'esito delle innovazioni di cui al c.d. Codice Rosso - l. 69/2019 - definisce le specifiche modalità di intervento a favore delle vittime di violenza familiare e/o di genere.

Un sistema integrato che, secondo autorevole Dottrina ( M. C. Amoroso – L. Giordano – G. Sessa- G. Andreazza in Corte suprema di cassazione ufficio del massimario e del ruolo Servizio Penale Relazione su novità normativa Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere Rel.: 62/19 Roma, 27 ottobre 2019), rappresenta, in presenza di determinati requisiti, un vero e proprio catalogo di reati che costituiscono manifestazione di violenza domestica e di genere.

Ma quali sono questi requisiti ossia quando è possibile accomunare, nella prospettiva che qui interessa, il mancato versamento del contributo al mantenimento dei figli alla violenza sessuale, o i maltrattamenti alla sottrazione di minore?

Quando è integrato il carattere familiare ai sensi e per gli effetti della Legge penale?

Sul punto è ripetutamente intervenuta la Corte di Cassazione che ha continuato a confermare, nel corso del tempo, come il nucleo caratterizzante il rapporto tecnicamente rilevante risiedanella natura e nell'intensità del vincolo, che – secondo il costante e condiviso indirizzo di legittimità – ben può essere desunto, anche in assenza di una stabile convivenza fisica, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca assistenza morale e materiale (Cass. pen., sez. III, sent. 7 gennaio 2019, n. 345).

Si tratta dunque di una valutazione di merito, sostanziale, che attiene alla portata effettiva del legame sentimentale inteso come reciproco affidamento e concordata progettualità.

Un criterio a sé stante ma tanto forte da superare anche eventuali dati temporali: come confermato dagli Ermellini in una recente sentenza con la quale, riprendendo i precedenti giurisprudenziali, hanno confermato la sussistenza del legame familiare in un caso in cui la coppia aveva avviato la convivenza da appena un mese (Cass. pen., Sez. III, 17 dicembre 2018 n. 56673).

Possiamo quindi concludere che un primo criterio utile ai fini della qualificazione delle dinamiche disfunzionali è quello relativo alla qualità della relazione tra le Parti: è cioè necessario verificare se sussista tra le Parti un accordo, anche tacito ma che abbia riscontri esterni (ad es. un preliminare di affitto, un pregresso di anni di fidanzamento, esperienze insieme significative), in ordine alla reciproca volontà di prendersi cura l'una dell'altra, alla comune progettualità futura da cui discenda, in conclusione, un rapporto di affidamento reciproco.

Un requisito che assume valenza anche in termini esegetici in relazione a un ulteriore requisito determinativo: quello che attiene alla disfunzione coartata della natura delle relazioni interne al nucleo che pone la vittima in una posizione di debolezza anche e soprattutto in ragione del legame che la univa all'agente.

In altri termini, ai fini dell'integrazione della violenza familiare penalmente rilevante è necessario verificare se il soggetto passivo sia stato posto in una condizione di minorata difesa determinata proprio dal fatto di aver subito aggressioni (fisiche, verbali, economiche, …) nell'ambito di un contesto affettivo che dovrebbe essere tutelante e si mostra invece fonte di pericolo. La logica è chiara: subire violenza dalle persone cui si è riposta la propria fiducia, significa subire violenza da chi conosce le proprie debolezze, le proprie fragilità. La relazione qualificata dunque rileva anche perché pone autore e vittima in una posizione di diametrale asimmetria in cui uno, in posizione dominante, può colpire scientemente l'altro nella consapevolezza di quali punti attaccare, con maggior danno in minor tempo; mentre l'altro si trova a patire aggressioni mirate e per questo estremamente dolorose e destabilizzanti, rimanendo in una evidente condizione di incredulità, incomprensione e, dunque, di minorata reattività.

In termini eziologici, significa verificare che la sopraffazione esercitata dall'agente sia stata posta in essere approfittando o usando l'affidamento della vittima al progetto di vita condiviso, obbligandola in una posizione di difficoltà a reagire, e incidendo sulla sua sfera di libertà e diritti ottenendo una forzata e diametrale asimmetria - personale, monetaria, decisionale, psicologica o fisica - nella coppia(Cfr per tutti Cass. pen., VI, sent., 9 febbraio 2016, n. 5158).

La violenza familiare è invero tanto odiosa proprio per questo: non solo perché, come rilevato dal Consiglio d'Europa e dall'Organizzazione mondiale della sanità ( World Health Organization 2012, WHO/RHR/12.36), si sostanzia in una gravissima violazione dei diritti umani (uguaglianza, dignità, libertà, salute), ma anche perché, ancora, si pone in contrasto con le norme che disciplinano il vincolo familiare come sopra definito.

Alla luce di queste deduzioni, possiamo concludere che ogni forma di violenza che venga consumata in ragione o nell'ambito di un contesto relazionale connotato da reciproco affidamento e progettualità condivisa, e che provochi eziologicamente una condizione di asimmetria relazionale coatta, è violenza familiare.

Ma considerata l'analisi che si sta svolgendo appare necessario chiedersi se tutte le forme di violenza familiare siano penalmente rilevanti: questo per modulare gli interventi processuali delle Parti e valutare le migliori misure a tutela delle stesse.

E la risposta, lo si anticipa, è no.

La conclusione negativa deriva da un esame comparato di sistemi a confronto che permette di stabilire come, anche se non penalmente sanzionabile, nel nostro impianto è punita ogni forma di violenza.

Prendiamo in esame la disciplina degli ordini di protezione di cui al nostro Codice Civile.

L'art. 342-bis c.c., lo sappiamo, prevede l'intervento del Giudice quando qualsiasi condotta del coniuge o di altro convivente sia causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente.

Una formulazione ampia, priva di riferimento all'integrazione di un reato e che permette dunque di sanzionare ogni azione del partner o del genitore che incida, a qualsiasi titolo, sulla libertà, sulla dignità nonché sulla salute dell'altro.

Un'ampiezza discrezionale riconosciuta al Magistrato che sembra voler offrire soluzione a tutte quelle situazioni che, si è anticipato, possono rimanere escluse dal sistema sanzionatorio penale.

Deduzione che sembra confermata dalla formulazione del successivo art. 342-ter c.c. che prevede, nell'ambito di un complesso sistema di prescrizioni graduate, anche il ricorso all'intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati. Ciò perché detto rimedio, nei casi di violenza domestica e di genere, è impraticabile ai sensi e per gli effetti dell'art. 48 della Convenzione di Istanbul secondo cui le parti adottanole misure legislative o di altro tipo destinate a vietare il ricorso obbligatorio ai metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione(il testo dell'art. 48 della Convenzione era stato erroneamente tradotto nella legge di ratifica n. 77/2013, come divieto di ricorrere a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, mentre, successivamente, nella G. U. del 28.11.2017, pag. 34, è stata fornita una rettifica riguardante la traduzione del predetto articolo, precisando che il divieto sussista nei casi di ricorso obbligatorio a questi strumenti. Reperibile al link https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2017/11/28/278/sg/pdf).

Questo significa che se al Giudice della famiglia, pur in presenza di condotte lesive della integrità personale del partner - rectius che creano asimmetria temporanea nella relazione - è permesso il ricorso a misure che sono escluse dalla normativa sovranazionale che tutela le vittime di violenza domestica, si ammette che esistano diversi gradi di aggressività e brutalità familiare e che sono tutti giuridicamente apprezzabili. Ma su piani diversificati.

E questo significa due cose: la prima che, in questo quadro, la conflittualità genitoriale non è il contenitore in cui accomunare le condotte penalmente irrilevanti bensì la descrizione di una situazione in cui i soggetti agiscono su piani parificabili cercando di far valere i propri individuali diritti esercitando, entrambi, forza sul sistema quale che sia.

La seconda, è che esistono gli strumenti utili ai fini dell'intervento in favore delle diverse disfunzioni familiari e che, dunque, non si tratta più della valutazione del se e del come ma in quale sede sia corretto cercare di dare tutela ai soggetti più deboli atteso che il nostro impianto legislativo punisce correttamente ogni forma di aggressione personale agita nel contesto domestico.

Dunque, all'esito del confronto tra discipline è possibile concludere che è violenza familiare - sanzionabile in sede civile e/o penale - qualsiasi azione sia posta in essere con l'esercizio di una forza (fisica, verbale, economica) tale da incidere sulla autodeterminazione del soggetto che la subisce causando una situazione stabile di squilibrio interno nel contesto che dovrebbe essere caratterizzato da reciproco affidamento, progettualità e rispetto egualitario.

È invece conflittualità genitoriale ogni azione reciproca o meno, inquadrabile in un contesto in cui i due soggetti agiscano sullo stesso piano - relazionale, economico, culturale, psicologico e personale - al fine del soddisfacimento di una propria personale pretesa.

Eventuali singoli agiti esercitati nell'ambito del tentativo di cui sopra possono avere valenza penale autonoma (si pensi alla minaccia) ossia senza essere riferibili al più grave e ampio ambito della violenza familiare.

Per questo, volendo fare riferimento al caso concreto è sconsigliato, in caso di azioni ripetute di rappresaglia di un coniuge verso l'altro, fossero anche frequenti ed effettivamente disturbanti, in prossimità della decisione separativa - adire immediatamente il Tribunale penale con una denuncia per atti persecutori: sarà più opportuno richiedere un intervento urgente del Tribunale civile rappresentando la sussistenza di condotte che minano l'integrità fisica o morale del proprio assistito. Senza strumentalizzazioni che rischiano di avere un effetto deflagrante in caso di smentita.

Le differenze tra violenza familiare e conflittualità genitoriale nella valutazione giudiziaria delle capacità genitoriali

La natura fluida, nel senso mutuato da Bauman, delle locuzioni in esame è rinvenibile anche nell'analisi dei criteri interpretativi giurisprudenziali.

Ci si riferisce al fatto che entrambe le accezioni possono essere oggetto di valutazione scientificamente diversa: sia la violenza che la conflittualità non esauriscono il loro significato in senso prettamente tecnico giuridico ma dispiegano effetti, e vengono così considerate, anche in senso clinico sostanziale.

Ebbene, con riferimento al processo separativo con figli siamo chiamati ad affrontare il tema della genitorialità.

Sul punto, partendo dalla descrizione di ciò che la caratterizza, si registra un notevole consenso scientifico nel ritenere che essa siala risultante delle funzioni di cura che un adulto, sia esso genitore biologico o meno, rivolga a colui di cui si occupa.

Parliamo quindi della capacità dell'individuo di provvedere all'altro, di conoscerne il funzionamento corporeo e mentale in cambiamento, di esplorarne via via le emozioni, di garantire protezione attraverso la costruzione di modalità relazionali legate all'adeguatezza dell'accudimento.

Questa capacità appare quindi centrata sulla risposta al bisogno di protezione fisica e sicurezza, di entrare in risonanza affettiva con l'altro senza esserne inglobato, di utilizzare i tempi della comunicazione, gli spazi e i contenuti della relazione, di dare dei limiti, una struttura di riferimento, di prevedere il raggiungimento di tappe evolutive dell'altro e di garantire una funzione transgenerazionale (Bastianoni, Taurino, 2007).

Tali diverse funzioni di cura si traducono in comportamenti verbali e non che rappresentano le modalità di attuazione dell'accudimento: modalità che variano da persona a persona, da figlio a figlio o a seconda della fase di vita e di crescita delle persone coinvolte.

Un costrutto che necessita di un collegamento con la dimensione culturale della genitorialità e pertanto definibile come un processo relazionale co-determinato dal bambino e dall'adulto: adulto che è identificato come la figura di riferimento che incide sullo sviluppo fisico e psico-socioculturale ed educativo del bambino, in una dimensione spazio-temporale e socioculturale.

La necessità di definire e declinare il tema della genitorialità ha poi portato alla formulazione del concetto di competenze genitoriali: concetto che descrive una realtà articolata ma riassunta in termini di funzione, competenze e stili genitoriali interrelate con la rappresentazione sociale del ruolo genitoriale, ma anche dell'immagine di famiglia e di bambino.

In altre parole, un insieme di qualità, attitudini, atteggiamenti individuali che trovano declinazioni teoriche diverse, alcune più centrate sulle “abilità”, altre su elementi intrapersonali, altre ancora su aspetti relazionali (Bornstein, 1991).

Un insieme che diviene oggetto di valutazione in sede giudiziale quando è necessario assumere decisioni nel superiore interesse del minore determinandone l'affidamento, il collocamento e i tempi di frequentazione con i genitori.

È allora chiaro come, in detto contesto, l'analisi si sposti su un livello più complesso in termini di relazioni: a differenza di ciò che avviene in ambito penale - ossia la verificazione della possibilità di ricondurre specifici fatti a specifici elementi tipici di reati tipizzati - è necessario comprendere la qualità relazione tra ciascun genitore e ciascun bambino.

Non in via astratta ma nella più assoluta concretezza della specificità individuale.

In altre parole: ai fini dell'esame in ordine alla sussistenza o meno di un'ipotesi di violenza familiare si procederà esaminando condotte e la loro riconducibilità a eventuali fattispecie di reato. I soggetti in questo coinvolti saranno ogni volta due: possibile autore e vittima. E come tale verrà considerata la relazione tra adulto e adulto in quella sede senza alcuna considerazione ultronea.

Tanto che, ad esempio, la violenza assistita, ossia l'eventuale esposizione dei figli alla violenza agita da un genitore nei confronti dell'altro, è oggetto di accertamento al solo fine della contestazione dell'aggravante o, nei casi più gravi, della contestazione all'imputato di specifica fattispecie in danno degli stessi figli con formulazionedi capo d'accusa autonomo (Cass. pen. sez. I, 24 gennaio 2019, n.12653).

Invece, nel caso di valutazione delle capacità genitoriali la relazione tra adulti viene considerata in funzione di capacità di cura dei figli: ossia al fine di controllare se il rapporto sia disfunzionale in termini di accudimento ed educazione.

Non uno a uno, bensì uno a uno per il soggetto tre.

E non si tratta di genitori e bambini astrattamente considerati ma di quegli specifici soggetti, nel senso più concreto che si riesca a immaginare: per questo, la relazione genitoriale è posta al vaglio degli operatori non in quanto tale ma in quanto relazione funzionale alla tutela della loro prole come definita sopra.

Questa deduzione è tanto più vera se si considera quale accoglimento trovano i sentimenti delle Parti nei due procedimenti: in sede penale gli aspetti emotivi e personologici hanno un senso utilitaristico in termini di verificazione della sussistenza degli elementi tipici del reato o delle diverse circostanze dello stesso (capacità di intendere e volere, aggravanti, attenuanti, etc); in sede civilistica gli stessi assurgono a criterio decisionale: è in base alla complessa rete delineata dalle consulenze tecniche e dalla valutazioni psicosociali, nonché sulle abitudini di vita acquisite che si fondano le determinazioni in ordine alla disciplina delle medesime relazioni soggettive. E ciò anche perché obiettivo del procedimento civile, a differenza di quello penale, è disciplinare i rapporti futuri tra tutti i soggetti del nucleo.

Adottando questa prospettiva è chiaro perché il principio di fondo sia quello della tutela del superiore interesse del minore che è indubitabilmente il soggetto biologicamente ed anagraficamente, più debole del nucleo.

Ponendosi in quest'ottica, ossia dal punto di vista di una determinazione interna funzionale è chiara l'utilità valutativa delle circostanze genericamente riferibili alle due categorie in esame (violenza e conflittualità), che assumano in fase di assunzione di decisioni per i bambini significato di strumento interpretativo di un globale sistema famiglia.

E ciò perché obiettivo di detta fase è la tutela degli specifici diritti di ciascun minore.

In punto di valutazione di affidamento e collocamento della prole, attore e convenuto sono lo strumento di conoscenza dell'assente che è, però, il vero protagonista di quel tratto della storia. Ossia non si ricostruisce il passato per qualificarlo: lo si usa per comprendere l'oggi e costruire il nuovo domani.

Non si tratta di dimenticare, ignorare o calpestare i diritti degli adulti: ma di rimodulare le strategie, dividere le questioni e organizzare gli interventi nel rispetto di coloro che sono indubitabilmente le vittime di una condizione patologica che non hanno in alcun modo causato.

Se si sposa questa angolazione, quella dei minori, appare allora chiaro perché la valutazione delle capacità genitoriali non sia un giudizio sulle singole persone e sulle singole esperienze degli adulti: perché si tratta di capire, al netto delle reciproche doglianze e sofferenze, chi sappia garantire ai più piccoli cura, accudimento, tenendo conto del loro funzionamento corporeo e mentale in cambiamento, delle loro emozioni, della loro necessità normativa e di regolazione, sicurezza nonché di raggiungimento degli obiettivi.

E in questo senso sarà nodale, in casi di violenza familiare conclamati, capire se e quale genitore sappia tenere le distanze dal proprio vissuto lasciando spazio a quello dei figli senza far diventare la sua storia, la loro storia, senza far diventare il suo vissuto il loro.

Rimanendo impregiudicata la possibilità che le condotte aggressive e violente trovino, ove provate e confermate, sanzione specifica nella più opportuna sede (addebito della separazione, risarcimento del danno, condanna penale, etc).

Violenza e conflittualità nella clinica

Alla luce di quanto sin qui esposto possiamo affermare che la curaè l'oggetto specifico della relazione primaria tra genitore e figlio e, in questo senso, la genitorialità va intesa come una dimensione interna simbolica che si origina all'esordio della vita relazionale a partire dalla propria esperienza di figli e che si riattiva ripetutamente nell'arco della vita ogni qualvolta l'individuo è coinvolto in specifiche e rilevanti interazioni.

Come dire che ciò che impariamo influenzerà il nostro modo di essere adulti e possibilmente genitori.

L'insieme delle dimensioni delineate necessita di un collegamento con la declinazione culturale della genitorialità, definibile come un processo relazionale co-determinato dal bambino e dal caregiver che determina lo sviluppo fisico, psico-socioculturale ed educativo del bambino stesso in una dimensione spazio-temporale, socioculturale e transgenerazionale.

Ma è possibile definire compiutamente questo concetto?

Il tema della genitorialità ha portato alla formulazione del concetto di competenze genitorialiche descrive una realtà multisfaccettata, in molti casi riassunta in termini di funzioni, competenze e stili genitoriali interrelate con la rappresentazione sociale di quello che il genitore dovrebbe essere, ma anche la famiglia e il bambino.

Nonostante i diversi sforzi in tal senso, l'ottica definitoria anche iper-inclusiva sembra non riuscire a definire la complessità del costrutto in modo soddisfacente.

Nell'ambito delle separazioni spesso si concretizzano e si perpetuano dinamiche relazionali disfunzionali tra gli ex coniugi caratterizzate da forte ostilità, rivendicazioni e accuse reciproche che possono generare l'impossibilità di trovare accordi inerenti alla gestione dei figli.

Questa struttura può essere peritura ma caratteristica del processo di separazione stessa, andando a risolversi in tempi fisiologici. Tuttavia, incontriamo sempre più di frequente, casi in cui perdura a lungo, definendo una specifica modalità familiare di entrare in relazione.

La presenza di conflittualità espone maggiormente i figli al rischio di crescere in un contesto relazionale disfunzionale, cui non solo assistono ma partecipano, essendo esposti a modelli interattivi disfunzionali che affaticano la possibilità di raggiungere un'autentica intersoggettività.

Il principale compito che la famiglia separata si trova ad affrontare è rappresentato dalla riorganizzazione delle relazioni sia a livello di coppia che di genitori. In una famiglia separata, al fine di poter gestire il conflitto emergente dalla separazione in maniera cooperativa è necessario che la coppia elabori il divorzio psichico(Bohannan, 1973) e dunque accetti e metabolizzi la fine della relazione romantica con il partner. Al contempo, a livello genitoriale, gli adulti devono continuare a svolgere i ruoli di padre e madre, riconoscendosi reciprocamente come tali ed instaurando un rapporto cooperativo su tutti gli aspetti che riguardano l'esercizio della genitorialità. Di fatti, la coppia ha in sé due nature profondamente interconnesse seppur controintuitivamente indipendenti: quella amorosa e quella genitoriale. Il difficile sforzo che viene richiesto dopo la separazione è quello di superare la conclusione della prima pur proseguendo nell'impegno della seconda.

In molti casi ciò non accade: troppo spesso il dolore per la perdita si trasforma in rabbia e conflittualità giudiziaria, impedendo di fatto l'elaborazione ed il superamento della sofferenza. Divorziare psicologicamente ed essere genitori adeguati, quando prevalgono la rabbia e gli agiti, diventa così impossibile (Salluzzo, 2004).

Sul piano della salute psichica, in letteratura è stata sottolineata la natura della separazione quale evento stressante che può determinare l'insorgere, in tutti i componenti della famiglia, di disagi psichici, classificati nel novero dei disturbi psichiatrici come Disturbi dell'Adattamento (A.P.A., 2001), che possono essere acuti o cronici e caratterizzati da alterazioni della condotta, umore depresso, ansia o alterazione mista. L'entità di tali disturbi è direttamente legata all'intensità e alla durata dello stress percepito e alle difficoltà di riadattamento dopo la separazione (Salluzzo, 2004).

La violenza familiare può assumere, durante o dopo la separazione, forme subdole e si riversa nei disagi dei figli, che possono esplodere a breve termine ma spesso emergere anche in età posteriori.

La letteratura scientifica internazionale sulla Intimate Partner Violence (IPV) evidenzia che la presenza di comportamenti fisicamente e/o psicologicamente violenti manifestati da entrambi i partner nelle coppie è un fenomeno diffuso nelle varie culture e trasversale ai contesti sociali, etnici o familiari (Krahè e Bieneck, 2005; Salerno 2010). Spostando il focus sul tema delle conseguenze dell'IPV sullo sviluppo psico-affettivo dei figli, a partire dal dato ormai condiviso che queste “vittime invisibili” (Summers, 2006), indipendentemente dalla tipologia della violenza presente nella coppia, ne sono sempre e comunque coinvolte, è noto che i bambini cresciuti in famiglie ove è presente violenza domestica corrono un rischio maggiore di maltrattamento sia diretto (Baldry, 2003; Romito, 2005; Salerno, 2012) che indiretto, subendo gravi violenze psicologiche, strumentalizzazioni e vere e proprie operazioni di plagio da parte del maltrattante, volte a colpire indirettamente il partner.

Quale che sia la forma di violenza esperita dal bambino, una componente sempre presente è quella definita terrorismo emotivo: il bambino vive una condizione di costante terrore dovuta all'essere in presenza di comportamenti minaccianti e intimidatori che determinano sentimenti di inadeguatezza e impotenza nonché la sensazione di essere totalmente indifesi senza possibilità di chiedere o ricevere aiuto (Holden, 2003).

Le indagini sulle conseguenze dal punto di vista psicopatologico riferiscono che il 40% dei casi presenterebbe problemi di tipo clinico, individuano una significativa correlazione tra IPV e sintomi del Disturbo Post-Traumatico da stress (DPTS), problemi nell'alimentazione e nel sonno, disturbi dell'umore, problemi nell'interazione con pari e adulti, alta irritabilità e facilità al pianto o alla rabbia (Luberti e Pedrocco Biancardi, 2005; Margolin e Vickerman, 2007; Carpenter e Staks, 2009).

Questo contesto genera la trasmissione di valori profondamente distorti nel momento in cui il bambino interiorizza messaggi sbagliati sulla legittimità della violenza; è soggetto a manifestazioni di disprezzo; si trova in una condizione di isolamento; e come dichiarato spontaneamente da molte donne, subisce gli effetti di una carente responsività materna.

Non possiamo infatti non considerare come situazioni di violenza familiare influenzino la genitorialità sia dell'attore di violenza che della vittima.

Le ricerche condotte nell'ambito della trasmissione intergenerazionale della violenza domestica sostengono che gli atti di violenza fisica, sessuale e psicologica rappresenterebbero comportamenti “appresi” nel contesto di apprendimento primario, ovvero la famiglia (Kernsmith, 2006). È teoria acquisita da tempo (Bandura, 1977; Corvo, Dutton e Chen, 2008; Whiting et al., 2009) come l'individuo sia portato a modellare il suo comportamento sulla base di ciò che osserva nelle sue figure di riferimento durante l'infanzia, orientandosi preferibilmente verso quei comportamenti che conducono ad un effetto desiderato.

In contesti maltrattanti e/o abusanti, i bambini apprendono che la violenza è un modo appropriato per risolvere i conflitti e gestire le emozioni negative; che essa è parte delle relazioni familiari; che chi mette in atto comportamenti violenti non sempre viene punito e che la violenza consente di esercitare il controllo sugli altri (Osofsky, 2003).

Il legame di attaccamento si sviluppa sia nei confronti della vittima sia del carnefice, in un circuito in cui un caregiver è potente e prevaricante sull'altro che subisce e impossibilitato a reagire.

La definizione di vittima e carnefice sono categorizzazioni che hanno senso in ambito giuridico ma che nel lavoro clinico con il minore rischiano di iper-semplificare una dinamica relazionale ben più complessa.

L'impatto di dinamiche disfunzionali che interferiscono con la cura porterà inevitabilmente all'interiorizzazione di “strappi” che evolveranno nell'arco del ciclo di vita. Questo perché le manifestazioni delle relazioni di cura traggono fondamento e origine dalle rappresentazioni interne (mentali) delle relazioni primarie che ogni individuo sviluppa precocemente a partire dalla sua esperienza di figlio/a e che gli consentono, già alla fine del primo anno di vita, di possedere una rappresentazione interna di sé, dell'altro significativo e della relazione con l'altro circa il contenuto e la qualità delle cure (Bastianoni, 2009).

Questa rappresentazione può essere distorta dalle perturbazioni che attraversano l'assetto familiare, dalla conflittualità genitoriale a vari livelli di gravità sino agli scenari della violenza domestica intraseparativa o presente di per sé stessa. Poiché è a partire da tali rappresentazioni interne che il bambino sviluppa e costruisce la propria identità e senso di sé, simili perturbazioni possono influire sul processo di costruzione identitaria ed inficiare le competenze genitoriali delle figure adulte coinvolte, siano esse attive nella conflittualità, attori di violenza o vittime della stessa.

In conclusione

All'esito di questa disamina è possibile concludere che due sono le prospettive valutative di cui bisogna tenere conto nell'analisi dei fatti: quella normativa interpretativa che pone al centro la relazione tra adulti in quanto tale e quella applicativa in sede di giudizio di assunzioni decisionali in punto di affidamento e collocamento dei figli, in cui la stessa è considerata in termini funzionali alla tutela del superiore interesse dei minori.

Nel primo caso, facendo riferimento al sistema codicistico, alla giurisprudenza e alla dottrina, è possibile sostenere che vi sia violenza familiare ogni volta in cui, nell'ambito di una relazione caratterizzata da reciproco affidamento e progettualità condivisa, si possa attribuire a una Parte un ruolo egemonico e dominante attraverso il quale la stessa condiziona la libertà del partner. Partner qualificabile come vittima che si trova in una condizione di debolezza e di difficoltà reattiva.

Si tratta in sostanza di verificare se vi sia o meno una coartata e inficiante asimmetria relazionale causata dalle azioni aggressive di una delle due Parti cui corrisponde una posizione di dipendenza o comunque di inferiorità psicologica, economica, decisionale dell'altra.

Vi è conflittualità, invece, quando nella prospettiva di una valutazione funzionale all'assunzione di determinazioni in ordine alla disciplina dei futuri rapporti interni familiari per i bambini, i due soggetti adulti si ingaggiano reciprocamente in uno scontro per la soddisfazione di proprie istanze e/o diritti assumendo posizioni paritetiche e parificabili (senza che questo escluda la sussumibilità di singole e specifiche condotte nell'alea del penalmente rilevante).

Nella prospettiva, invero, della valutazione delle capacità genitoriali - e tenuto conto del fatto che sia violenza che conflittualità hanno carattere dannoso sullo sviluppo psicofisico dei minori - l'esame delle dinamiche genitoriali è finalizzato a comprendere se e quale adulto sappia garantire ai figli accudimento, distanziamento, sostegno e supporto senza escludere che la violenza incida sul vissuto dei bambini provocando loro gravi traumi che saranno indubitabilmente considerati in termini di capacità genitoriali insieme a tutte le ulteriori valutazioni tecniche di cui sopra.

È quindi chiara la necessità, in un sistema tanto complesso, di un sistema interrelazionale tra discipline e piani di realtà: una situazione che discende dalla moderna articolazione sociale e relazionale.

Condizione da cui, causalmente, discende anche che oggi la violenza e la conflittualità possano assumere sempre forme diverse che a volte rendono difficile distinguere una dall'altra.

Per questo, riteniamo necessario e possibile diversificare i piani di lavoro.

Il diritto di famiglia è, per fortuna o purtroppo, un diritto in vivo e il processo di famiglia è senza vincitori atteso che tutti gli operatori sono chiamati a difendere i diritti dei più deboli parallelamente a quelli degli adulti e tenendo a mente che tutelare l'interesse del minore vuol dire, idealmente, spezzare la catena delle relazioni familiari disfunzionali che impattano su quel sistema complesso che comprende la famiglia, la famiglia allargata, la società e la linea culturale che unisce e determina i sistemi appena citati.

Ragione per la quale dovremmo tendere ad un modello multidisciplinare che costruisca una alleanza tra tutti i soggetti che ve ne vengono coinvolti.

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