Sharing economy: un nodo ancora irrisolto

16 Dicembre 2021

I servizi resi tramite l'utilizzo di piattaforme digitali escono dagli schemi delle tradizionali categorie reddituali che devono essere assolutamente ripensate. Ed in attesa di una codificazione che sembra sempre più lontana (seppur non sia oramai più procrastinabile), si cercherà di mettere in luce gli aspetti fondamentali di tale forma di “economia digitale”, prendendo le mosse proprio dalla proposta di legge A.C. 3564, presentata il 27 gennaio 2016.
Lineamenti generali della disciplina

L'economia collaborativa, cosiddetta sharing economy, si propone come un nuovo modello economico e culturale, capace di promuovere forme di consumo consapevole che prediligono la razionalizzazione delle risorse basandosi sull'utilizzo e sullo scambio di beni e servizi piuttosto che sul loro acquisto, dunque sull'accesso piuttosto che sul possesso.

Essa è chiamata anche economia della condivisione ed è fondata dunque su un valore radicato nelle nostre comunità sin dai tempi precedenti l'avvento delle nuove tecnologie: il digitale ha abilitato e diffuso questo fenomeno, ampliandone le potenzialità e l'accessibilità.

L'impasse dei modelli economici tradizionali e la crisi occupazionale hanno creato condizioni ancora più favorevoli per la diffusione di questo nuovo modello di consumo, che apre nuove opportunità di crescita, occupazione e imprenditorialità fondate su uno sviluppo sostenibile economicamente, socialmente ed ambientalmente e che ha in sé un approccio volto alla partecipazione attiva dei cittadini e alla costruzione di comunità resilienti, ovvero in grado di rafforzare la propria capacità di influenzare il corso di un cambiamento facendovi fronte in maniera positiva. Una delle forze trainanti per l'ascesa dell'economia collaborativa è senza dubbio l'information technology e l'utilizzo dei social media, che hanno ridotto drasticamente gli ostacoli cui erano sottoposti i modelli organizzativi e di business basati sulla condivisione.

Da quando una serie di tecnologie abilitanti, tra cui gli open data e l'uso diffuso degli smartphone, sono diventate di uso comune, è più facile per le persone avere un rapporto diretto, anche nell'effettuare transazioni. Nonostante ciò l'innovazione non rappresenta solo una questione che ha a che fare con la tecnologia, ma rappresenta qualcosa di più profondo che coinvolge mutamenti sociali e culturali, nuovi stili di vita e nuovi modelli di sviluppo, mettendo a sistema l'intelligenza diffusa dei cittadini per creare cultura, lavoro, diritti e qualità sociale.

Per questo si è di fronte anche a un nuovo modello culturale, che ricostruisce l'idea di comunità, promuove la razionalizzazione dei consumi ed il contrasto dello spreco di risorse e che proprio in virtù di queste caratteristiche si dimostra ricco di opportunità anche utilizzato all'interno della pubblica amministrazione. Tra i tratti distintivi dell'economia collaborativa è possibile individuare alcuni elementi comuni a tutte le diverse esperienze oggi presenti nel panorama mondiale: la condivisione, ossia l'utilizzo comune di una risorsa in modo differente dalle forme tradizionali di scambio; la relazione peer-to-peer, ossia il rapporto orizzontale tra i soggetti coinvolti che si distingue dalle forme tradizionali di rapporto tra produttore e consumatore rispondendo a nuovi bisogni, tra cui ad esempio la crescente necessità di interagire con le aziende in una modalità più partecipativa; la presenza di una piattaforma digitale che supporta tale relazione e in cui in genere è presente un meccanismo di reputazione digitale e le transazioni avvengono tramite pagamento elettronico.

Le forme e gli oggetti della condivisione possono essere i più svariati, dai beni fisici come i mezzi di trasporto fino ad arrivare ad accessori, prodotti digitali, spazi, tempo, competenze e servizi, il cui valore non necessariamente può essere determinato in denaro e può tenere in considerazione elementi generalmente esclusi dalle tradizionali logiche di scambio, come l'impatto ambientale o sociale. È, dunque, possibile aspettarsi che la sharing economy nei prossimi anni possa rispondere a bisogni finora rimasti insoddisfatti: esperienze già in atto in Italia e all'estero dimostrano che queste piattaforme innovative, se gestite in una logica di integrazione con il mercato tradizionale ed inquadrate in una cornice di norme chiare e trasparenti, possono incrementare l'offerta ed ampliare le possibilità per i consumatori, coprendo quote di mercato che altrimenti resterebbero scoperte o non utilizzate e stimolando l'innovazione dei modelli esistenti. È ragionevole pensare che vi sia un'economia potenziale dietro la sharing economy e, dunque, che ci troviamo di fronte alla grande opportunità di cogliere la capacità produttiva oggi non ancora sfruttata e favorire la nascita di nuove forme di occupazione e imprenditorialità.

Sul tema della sharing economy è intervenuta la Commissione UE che, con la Comunicazione (COM 2016, n. 356) pubblicata il 2 giugno 2016, ha predisposto “un'agenda europea per l'economia collaborativa” ed ha fornito agli Stati membri gli orientamenti e le linee guida finalizzati a garantire uno sviluppo equilibrato e sostenibile di questa forma di scambio.

Ai fini della citata Comunicazione, per “economia collaborativa” deve intendersi il modello imprenditoriale “in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l'uso temporaneo di beni e servizi spesso forniti da privati. L'economia collaborativa coinvolge tre categorie di soggetti:

i) i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze e possono essere privati che offrono servizi su base occasionale (“pari”) sia prestatori di servizi nell'ambito della loro capacità professionale (“prestatori di servizi professionali”);

ii) gli utenti di tali servizi;

iii) gli intermediari che mettono in comunicazione – attraverso una piattaforma online – i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi (“piattaforme di collaborazione”). Le transazioni dell'economia collaborativa generalmente non comportano un trasferimento di proprietà e possono essere effettuate a scopo di lucro o senza scopo di lucro”.

La Commissione UE assume come presupposto l'esigenza di sfruttare le nuove opportunità per il mercato create dall'economia collaborativa e di incentivare la piena fruizione dei molteplici vantaggi da essa derivanti. Al contempo, però, la Commissione è consapevole del rischio di un'economia parallela informale, priva di regole, caratterizzata da incertezza sui diritti e sugli obblighi degli operatori e degli utenti, che consenta di approfittare di “zone grigie” dell'ordinamento giuridico, ad esempio per sfruttare i lavoratori o per di sottrarsi al pagamento delle imposte.

La comunicazione della Commissione UE, pertanto, pone l'accento sulla necessità di un intervento degli Stati membri diretto a chiarire il quadro normativo a livello nazionale e, a tal fine, contiene alcune indicazioni fondamentali.

In particolare, le linee guida individuate dalla Commissione UE riguardano:

  1. i requisiti di accesso al mercato. Una questione fondamentale per le autorità e gli operatori di mercato è se, e che in misura, le piattaforme di collaborazione e i prestatori di servizi possono essere soggetti a requisiti di accesso al mercato (quali, ad esempio, autorizzazioni per l'esercizio di impresa, obblighi di licenza o requisiti minimi di legalità). La Commissione ricorda che, a norma del diritto dell'UE, tali requisiti devono essere giustificati e proporzionati, tenendo conto delle specificità del modello imprenditoriale e dei servizi innovativi interessati, senza privilegiare un modello d'impresa a scapito di altri. In particolare, nel contesto dell'economia collaborativa, un elemento importante per valutare se un requisito di accesso al mercato è necessario, giustificato e proporzionato, può essere quello di stabilire se i servizi sono offerti da professionisti o da privati a titolo occasionale. Ai fini della regolamentazione delle attività in questione, i privati che offrono beni o servizi su base occasionale e “tra pari” (peer–to–peer), attraverso l'utilizzo di piattaforme di collaborazione, non dovrebbero essere automaticamente considerati come prestatori di servizi professionali. In tal senso, potrebbe risultare utile la definizione di soglie, anche settoriali, al di sotto delle quali un'attività economica è qualificata come non professionale. Inoltre, la Commissione invita gli Stati Membri a cogliere l'opportunità di riesaminare, semplificare e modernizzare i requisiti di accesso al mercato che sono generalmente applicabili agli operatori economici, mirando ad eliminare oneri normativi superflui, indipendentemente dal modello imprenditoriale adottato, e ad evitare la frammentazione del mercato unico;
  2. i regimi di responsabilità. Le piattaforme di collaborazione sono incoraggiate all'adozione di azioni volontarie dirette a contrastare i contenuti online illeciti o ingannevoli e ad accrescere, conseguentemente, la fiducia degli utenti;
  3. la tutela degli utenti. Sotto questo profilo, gli Stati membri dovrebbero garantire, con un approccio equilibrato, un elevato livello di protezione dei consumatori dalle pratiche commerciali sleali senza, tuttavia, imporre obblighi di informazione sproporzionati e altri oneri amministrativi a carico dei privati che occasionalmente forniscono dei servizi;
  4. la tutela dei lavoratori autonomi e subordinati impiegati nell'ambito dell'economia collaborativa. In particolare, la Commissione individua due elementi fondamentali per agevolare i cittadini a sfruttare pienamente il loro potenziale, aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e stimolare la competitività, garantendo al contempo condizioni di lavoro eque e una protezione sociale adeguata e sostenibile: a) l'adeguatezza delle norme nazionali in tema di lavoro rispetto alle diverse esigenze dei lavoratori subordinati e autonomi nel mondo digitale e del carattere innovativo dei modelli imprenditoriali collaborativi; b) chiarimenti dei singoli Stati Membri sull'applicabilità delle norme nazionali sul lavoro alla luce dei modelli di lavoro nell'economia collaborativa;
  5. la fiscalità. Con specifico riferimento agli aspetti fiscali, le linee guida delineate dalla Commissione UE evidenziano come i soggetti che operano nell'ambito dell'economia collaborativa devono essere sottoposti alla normativa fiscale al pari degli operatori professionali. Tuttavia, sussistono delle obiettive condizioni di incertezza sull'individuazione degli obblighi fiscali applicabili e sull'adempimento degli stessi, a causa delle difficoltà di identificazione dei contribuenti interessati, di determinazione del reddito imponibile e, più in generale, sulla mancanza di adeguate informazioni.

Anche rispetto al tema della fiscalità dell'economia collaborativa appare, quindi, prioritario l'obiettivo di conferire certezza al quadro normativo di riferimento, predisponendo, inoltre, degli obblighi proporzionati e funzionali a garantire condizioni di parità con gli altri soggetti operanti sul mercato.

La proposta di Legge Italiana

La proposta di legge A.C. 3564, presentata il 27 gennaio 2016, è finalizzata a disciplinare le piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e a promuovere l'economia della condivisione.

L'obiettivo della proposta di legge in materia di sharing economy, come dichiarato espressamente all'articolo 1, consiste nel garantire equità e trasparenza, soprattutto in termini di regole e di fiscalità, tra i soggetti che operano in tale ambito e gli operatori economici tradizionali ed, al contempo, nel tutelare i consumatori soprattutto per gli aspetti connessi alla sicurezza, alla salute, alla privacy ed alla trasparenza delle condizioni contrattuali.

Uno degli elementi fondamentali della proposta è la definizione di economia della condivisione, recata all'articolo 2. In particolare, si stabilisce che, ai fini della norma in esame, l'espressione “economia della condivisione” deve intendersi riferita all' “economia generata dall'allocazione ottimizzata e condivisa delle risorse di spazio, tempo, beni e servizi tramite piattaforme digitali” i cui gestori “agiscono da abilitatori mettendo in contatto gli utenti e possono offrire servizi di valore aggiunto”.

La definizione precisa, inoltre, che “i beni che generano valore per la piattaforma appartengono agli utenti” e che tra questi ultimi ed il gestore “non sussiste alcun rapporto di lavoro subordinato”. La norma si preoccupa, altresì, di escludere dalla definizione le piattaforme che operano intermediazione in favore di operatori professionali iscritti al registro delle imprese. La definizione assume un ruolo centrale perché individua gli elementi costitutivi della fattispecie, consentendo di stabilire l'ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni destinate a regolare la materia.

In particolare, gli attori dell'economia della condivisione sono:

  • il gestore, vale a dire il soggetto (privato o pubblico) che gestisce la piattaforma digitale;
  • l'utente operatore, inteso come il soggetto (privato o pubblico) che attraverso la piattaforma digitale opera erogando un servizio o condividendo un proprio bene;
  • l'utente fruitore, cioè il soggetto (privato o pubblico) che attraverso la piattaforma digitale utilizza il servizio erogato o il bene condiviso dall'utente operatore.

Per gli aspetti puntuali della disciplina delle piattaforme e delle attività delle medesime, la proposta di legge in commento attribuisce ampi poteri regolamentari all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), alla quale spetta anche la relativa vigilanza (cfr. articolo 3). A tutela degli utenti, all'articolo 4 è previsto che i gestori delle piattaforme siano dotati di un documento di politica aziendale che include le condizioni contrattuali tra piattaforma digitale e gli utenti, da sottoporre al parere vincolante dell'AGCM.

Inoltre, le eventuali transazioni in denaro operate tramite le piattaforme digitali dovranno avvenire esclusivamente attraverso sistemi di pagamento elettronico e con modalità di registrazione univoche per tutti gli utenti, in modo da evitare che si creino profili falsi o non riconducibili all'effettivo titolare. A tal fine, è stabilito l'obbligo di indicare le generalità degli utenti ed, in particolare, i dati anagrafici, la residenza e il codice fiscale.

L'articolo 6 disciplina l'adozione di misure annuali per la diffusione dell'economia della condivisione, volte a rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, alla diffusione dell'economia della condivisione garantendo la leale concorrenza e la tutela dei consumatori. A tal fine viene, tra l'altro, conferita delega al Governo per l'emanazione di appositi decreti legislativi.

Disposizioni in materia di tutela della riservatezza sono, invece, contenute nell'articolo 7 della proposta di legge in cui viene indicata la definizione di “dato utente” e previste prescrizioni in merito alla cessione ed alla cancellazione dei dati.

L'articolo 8 prevede che il Ministro dello Sviluppo economico, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, sentite l'AGCM e l'Associazione nazionale dei comuni italiani, emani delle linee guida destinate agli enti locali per valorizzare e diffondere le buone pratiche nell'ambito dell'economia della condivisione al fine di abilitare processi sperimentali di condivisione di beni e servizi nella pubblica amministrazione.

Per monitorare lo sviluppo dell'economia della condivisione e valutare l'efficacia delle azioni di regolamentazione del settore, nell'articolo 9 viene stabilito l'obbligo per i gestori di piattaforme (iscritti nell'apposito registro istituito presso l'AGCM) di comunicare all'ISTAT i dati relativi al numero di utenti, alle attività svolte, ai relativi importi nonché alla tipologia di beni e servizi utilizzati, aggregati su base comunale. Infine, nell'articolo 10 sono stabiliti i controlli e le sanzioni a carico dei gestori mentre l'articolo 11 detta il termine di 120 giorni dalla data di entrata in vigore del provvedimento per l'adeguamento alle disposizioni ivi contenute da parte dei gestori già operanti sul mercato.

I profili fiscali della Proposta di Legge Italiana

L'articolo 5 della proposta di legge in esame è dedicato agli aspetti fiscali della sharing economy.

Come evidenziato dalla stessa Commissione UE nella citata comunicazione del 2 giugno, uno dei principali problemi derivanti dall'economia collaborativa riguarda l'adempimento degli obblighi fiscali e la loro applicazione: esistono, infatti, obiettive difficoltà nell'identificare i contribuenti, difficoltà nell'intercettare i loro redditi e mancanza di informazioni sui prestatori di servizi.

Con la norma in esame, il legislatore domestico intende risolvere tali criticità, fornendo una specifica disciplina fiscale, rafforzando la tracciabilità dei redditi, introducendo degli appositi ed efficaci strumenti di contrasto al rischio di evasione che può caratterizzare l'ambito della economia della collaborazione.

Occorre premettere che, nel vigente quadro normativo, i redditi ottenuti da forme di economia collaborativa e, quindi, dallo svolgimento non professionale di un'attività economica di scambio di beni o di prestazione di servizi risulterebbero inquadrabili, in base alle disposizioni contenute nell'articolo 67, comma 1, lettere i) e l), del TUIR, nella categoria dei redditi diversi, quali redditi derivanti da attività commerciali o di lavoro autonomo non esercitate abitualmente, ovvero tra i redditi dei fabbricati di cui all'articolo 36 del TUIR in caso di locazioni di immobili.

La proposta di legge in commento interviene, preliminarmente, fornendo una qualificazione al reddito percepito dagli utenti operatori mediante la piattaforma digitale, definendolo “Reddito da attività di economia della condivisione non professionale” cui viene destinata un'apposita sezione della dichiarazione dei redditi (cfr. comma 1).

L'obiettivo dichiarato della proposta, consistente nell'incentivare lo scambio e la condivisione di risorse tra soggetti privati, finalizzati a sfruttare i beni personali e ad integrare il proprio reddito, viene attuato attraverso la previsione di una modalità di tassazione sostanzialmente agevolata per i redditi derivanti da forme di economia collaborativa a carattere “non professionale”.

Su quest'ultimo specifico aspetto, l'articolo 5 della proposta diversifica il regime fiscale riservato ai soggetti che svolgono tali attività a seconda della soglia di reddito prodotto ed individuato nell'ammontare pari a 10.000 Euro (cfr. comma 2).

In particolare, l'utente operatore che non supera la suddetta franchigia di 10.000 euro sarà soggetto ad un'imposta con aliquota fissa del 10 per cento. Per i redditi superiori a tale importo è previsto, invece, il cumulo con quelli derivanti da lavoro dipendente o autonomo e l'applicazione dell'aliquota corrispondente.

Il potenziamento della tracciabilità dell'economia della condivisione e dei redditi che ne derivano è realizzato attraverso la previsione dell'obbligo per i gestori delle piattaforme di agire come sostituti d'imposta per i redditi conseguiti dagli utenti operatori. Al fine dell'adempimento delle funzioni di sostituto d'imposta, l'articolo 5 impone ai gestori aventi sede o residenza all'estero di dotarsi di una stabile organizzazione in Italia (cfr. comma 3). Infine, la proposta stabilisce che i gestori debbano comunicare all'Agenzia delle Entrate i dati relativi alle eventuali transazioni economiche che avvengono attraverso le piattaforme digitali e si precisa che tale obbligo di comunicazione sussiste anche qualora gli utenti operatori non percepiscano alcun reddito dall'attività svolta per il tramite delle piattaforme medesime.

Numerosi sono gli aspetti ancora da definire:

  • la norma introduce una nuova categoria reddituale ma risulta carente nel fornire una disciplina di dettaglio in merito alle modalità di determinazione del reddito da assoggettare a tassazione con aliquota fissa o con aliquota progressiva (nel caso in cui il reddito da economia collaborativa venga cumulato con i redditi da lavoro autonomo o con i redditi di lavoro dipendente). La proposta stabilisce, infatti, una soglia di reddito e non di ricavi. Al riguardo, si evidenzia che, sul piano sistematico, sarebbe più coerente un intervento normativo che intervenisse direttamente nel TUIR;
  • rimane incerto se la soglia dei 10.000 euro, oltre a determinare un diverso trattamento fiscale, costituisca anche il discrimine tra attività professionale da economia condivisa ed attività occasionale;
  • sarebbe opportuno declinare il criterio di cumulo da adottare per i redditi superiori a 10.000 euro (se fino a 10.000 euro si applichi, comunque, l'aliquota fissa e per la parte eccedente l'aliquota marginale o se, al contrario, il reddito superiore a 10.000 euro sia soggetto integralmente al cumulo). Inoltre, sarebbe auspicabile precisare meglio come il reddito superiore alla predetta soglia si cumuli con le altre tipologie di reddito (se concorra alla determinazione del reddito complessivo ovvero se rilevi il cumulo solo in presenza di lavoro dipendente o autonomo);
  • la norma fiscale potrebbe avere impatto sul regime forfettario delle persone fisiche che esercitano un'attività di impresa, arte o professione in forma individuale;
  • la lettera della norma sembrerebbe escludere da tassazione le forme di condivisione dei costi o le forme di baratto che non danno luogo a versamenti in denaro da parte del gestore della piattaforma;
  • la previsione dell'obbligo del gestore residente di attivare una branch in Italia al fine di adempiere alla funzione di sostituto d'imposta suscita delle perplessità. L'apertura di una stabile organizzazione, infatti, non dovrebbe essere imposta ex lege, ma richiede il verificarsi di condizioni e di presupposti sostanziali relativi all'impiego di mezzi umani e/o personali, coerentemente con quanto disposto dalle singole Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni stipulate dal nostro Paese. Inoltre, tale obbligo potrebbe sollevare dei problemi di compatibilità con il principio della libertà di stabilimento nell'ambito della UE. Al riguardo, si ricorda che, in base agli articoli 49 e 54 del TFUE, come interpretati dalla Corte di Giustizia UE, la libertà di stabilimento include la libertà di scelta della forma legale appropriata in cui un operatore economico stabilito in uno Stato Membro intende svolgere determinate attività in un altro Stato Membro. Al riguardo, nelle sentenze Centros Ltd (Sentenza della Corte europea di Giustizia del 9 marzo 1999, procedimento C- 212/97, paragrafo 26 ss..) e Inspire Art Ltd (Sentenza della Corte europea di Giustizia del 30 settembre 2003, procedimento C- 167/01, paragrafi 138 ss..) la Corte ha statuito che i cittadini di uno Stato Membro sono liberi di localizzare la loro attività ovunque ritengano opportuno all'interno del territorio dell'Unione, per il tramite di un'agenzia, di una succursale o di una filiale senza dover sopportare limitazioni all'esercizio della loro libertà fondamentale.

In tale ottica, l'obbligo di stabilire una sede fissa sul nostro territorio prevista nella proposta di legge italiana potrebbe presentare dei profili di criticità rispetto alla predetta libertà tutelata dal Trattato. Sul punto, si rappresenta che, per orientamento uniforme della Corte Unionale, eventuali limitazioni possono essere ammesse solo se proporzionali rispetto ad un interesse nazionale meritevole di tutela.

Giova, peraltro, ricordare come la Corte abbia sempre sostenuto che la riduzione delle entrate fiscali “non può essere considerata come un motivo imperativo di interesse generale che possa essere fatto valere per giustificare un provvedimento in linea di principio in contrasto con una libertà fondamentale” (Sentenza della Corte europea di Giustizia del 6 giugno 2000, procedimento C- 35/98, Verkooijen, punto 59.).

Infatti, l'esigenza di impedire la riduzione del gettito tributario non rientra né tra gli obiettivi enunciati all'art. 52, n. 1, TFUE, né tra le ragioni imperative di interesse generale suscettibili di giustificare una restrizione ad una libertà fondamentale (Sentenza della Corte europea di Giustizia del 3 ottobre 2002, procedimento C- 136/00, Danner, punto 56).

  • La funzione di sostituto d'imposta attribuito al gestore dovrebbe essere disciplinata attraverso un'apposita disposizione da introdurre nell'ambito del DPR 600/1973. In particolare, dovrebbe essere precisato se una eventuale ritenuta sia operata dal gestore a titolo di acconto o a titolo d'imposta, tenendo conto del fatto che il gestore non conosce a priori né l'ammontare dei redditi in esame complessivamente prodotti nel periodo d'imposta dall'utente operatore dell'economia collaborativa né, tanto meno, l'entità dei costi da questo sostenuti a fronte dei ricavi percepiti.

L'imposizione indiretta: l'IVA

A livello UE, l'applicazione dell'IVA alla sharing economy è oggetto di studio da parte del Comitato IVA, organo consultivo del Consiglio previsto dalla Direttiva 112/2006/CE (Direttiva IVA).

Il Comitato IVA, in particolare, ha adottato, con il consenso anche dell'Italia, delle Linee Guida che forniscono indicazioni di massima ai fini dell'eventuale applicazione dell'IVA ai beni e servizi forniti attraverso le piattaforme della sharing economy.

È stato, in primo luogo, precisato che, ai fini IVA, per “piattaforme di sharing economy s'intendono soggetti passivi IVA che mediante l'uso di siti di e-commerce mettono in contatto singoli utenti che intendono fornire e acquistare beni e servizi”.

Inoltre, è stato chiarito che la fornitura di beni e servizi dietro corrispettivo in moneta, effettuata attraverso le piattaforme di sharing economy vada assoggettata all'IVA ai sensi dell'art. 2 della Direttiva IVA, a condizione che il fornitore di detti beni o servizi svolga un'attività economica la quale lo qualifichi come soggetto passivo ai sensi dell'art. 9 della Direttiva medesima. L'IVA può applicarsi anche alle forniture di beni e servizi scambiati con altri beni e servizi se è possibile individuare, in base ad una valutazione caso per caso, un collegamento diretto tra l'operazione resa dal fornitore e la controprestazione in natura da lui ricevuta.

In ultimo, è stato precisato che i servizi a titolo oneroso resi dalle piattaforme di sharing economy ai suoi utenti sono imponibili ai fini IVA, oppure, beneficiano di un'esenzione se si qualificano come servizi finanziari ai sensi dell'art. 135(1) della Direttiva.

Con riferimento alla natura dei servizi resi dalle piattaforme di sharing economy occorre svolgere una riflessione. La qualificazione di detti servizi impatta significativamente sulla regola di territorialità applicabile: se si tratta di servizi di intermediazione, infatti, essi sono territorialmente rilevanti nel Paese in cui si trova il bene o è reso il servizio sottostante. Quindi, per esempio, l'intermediazione relativa ad un servizio di alloggio è tassata in Italia se l'immobile è situato in Italia. In generale, per la Commissione si può ritenere che la piattaforma svolga un servizio d'intermediazione, se non agisce in nome proprio e se svolge un ruolo attivo ai fini della conclusione dello scambio o vendita.

Tuttavia, i servizi resi dalle piattaforme di sharing economy, ove svolti in modo automatizzato e con un limitato intervento umano, potrebbero essere considerati anche servizi elettronici. Come tali, essi dovrebbero essere tassati nel luogo del consumatore finale, se soggetto privato, oppure nel luogo del prestatore, se il destinatario del servizio è un soggetto passivo IVA (artt. 44 e 58 della Direttiva IVA).

Ciò posto, fermo restando che, come già evidenziato, le forniture di beni e servizi effettuate dagli utenti privati attraverso le piattaforme della sharing economy sono in linea di principio transazioni soggette all'IVA, le problematiche relative ai presupposti di applicazione dell'imposta possono riguardare:

1) la qualifica di soggetto passivo o non passivo degli utenti operatori;

2) il carattere commerciale o meno dell'attività esercitata attraverso le piattaforme digitali;

3) l'esistenza di un sinallagma tra le prestazioni e le controprestazioni in natura (es. nel caso di una condivisione di un bene o di uno scambio di servizi contro servizi).

Per meglio comprendere tali criticità, ricordo che, ai fini dell'IVA, un «soggetto passivo» è chiunque eserciti, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un'attività economica, a prescindere dallo scopo lucrativo o dai risultati di detta attività (art. 9, par.1, della Direttiva IVA). Il concetto di attività economica include anche lo sfruttamento di un bene materiale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità, sotto qualunque forma giuridica e il concetto di esercizio “indipendente” di attività economica include ogni soggetto che non è vincolato a un datore di lavoro da un contratto di lavoro o da qualsiasi altro rapporto giuridico che introduca vincoli di subordinazione in relazione alle condizioni di lavoro, di retribuzione ed alla responsabilità del datore di lavoro (art. 10 della Direttiva IVA e art. 5 del d.P.R. n. 633/72).

In base alla legge italiana e secondo l'interpretazione data dalla Corte di Giustizia UE, le operazioni rese con l'ausilio delle piattaforme della sharing economy possono configurare un'attività economica nella misura in cui sono svolte con carattere di stabilità ed organizzate in forma d'impresa (cfr. art. 4 del d.P.R. n. 633/72; CGUE, Sofitam, C-333/91). Ne consegue, quindi, che una persona che effettua solo occasionalmente un'operazione generalmente svolta da un produttore, da un commerciante o da un prestatore di servizi non può, in linea di principio, essere considerata un soggetto passivo IVA.

In questo contesto, ai fini IVA assume rilievo il dato testuale dell'articolo 5 della proposta in esame, che sembra limitarne il campo di applicazione alle sole attività di economia della condivisione “non professionale” e, dunque, ad attività che in linea di principio dovrebbero considerarsi fuori campo IVA.

Nel contesto dell'economia collaborativa, tuttavia, la distinzione tra prestazione a titolo professionale e prestazione a titolo occasionale non è facilmente individuabile, specie se la regolamentazione varia da settore a settore e anche da regione a regione, come ad esempio nel settore alberghiero.

La stessa Direttiva IVA ha previsto un campo di applicazione molto ampio dell'imposta e stabilito delle soglie di fatturato al solo fine di consentire l'applicazione di regimi facoltativi di franchigia per le piccole imprese, che non hanno effetto ai fini della distinzione fra servizio professionale e non professionale, oppure dell'esclusione dal campo di applicazione dell'IVA. La soglia prevista dalla proposta di legge, pertanto, non è di per sé rilevante ai fini della qualificazione degli utenti “operatori” quali soggetti passivi IVA. Da ricordare, sul tema, che anche i soggetti i quali beneficiano del regime forfettario sono considerati, ai fini IVA, soggetti passivi - tenuti come tali alla registrazione – anche se non addebitano l'IVA in fattura ai propri clienti e non detraggono l'IVA sugli acquisti. Tali soggetti, infatti, svolgono pur sempre in maniera indipendente un'attività economica a carattere professionale.

Allo stato attuale, le regole ordinarie dell'IVA devono ritenersi applicabili senza eccezione anche al settore dell'economia collaborativa. Più in generale, per quanto riguarda la riscossione dell'imposta, si condivide l'idea, che nella proposta di legge in esame appare centrale, che i gestori delle piattaforme assumano un ruolo di rilievo. Peraltro, in base alla normativa IVA, se gli stessi agiscono in nome proprio ma per conto del prestatore del servizio, si sostituiscono a quest'ultimo ai fini degli adempimenti e della liquidazione dell'imposta (cfr. art. 28 della Direttiva IVA). I gestori delle piattaforme, peraltro, sono tenuti a chiedere la partita IVA italiana anche se non sono stabiliti in Italia, oppure, a nominare un rappresentante fiscale (v. artt. 2, 4, 7-sexies, 35-ter, del d.P.R. n. 633/72). Questo perché svolgono a tutti gli effetti attività commerciale in Italia, in particolare attività d'intermediazione B2C (“business to consumer”, da attività a consumatore).

In conclusione

Il fenomeno della sharing economy si basa su modelli di relazione del tipo C2C, vale a dire incentrati sulla condivisione di beni e servizi che il cliente finale mette a disposizione per altri individui, senza che vi sia alcun passaggio di proprietà. Allo stato attuale, le aziende attive in tale settore sono tantissime: si pensi, per citarne alcune, all'esperienza Airbnb e Booking, per quanto riguarda il settore turistico-alberghiero, a quella di BlaBlaCar e Uber nel settore dei trasporti, a quella di Too Good to go nel settore alimentare. Questi nuovi modi di porre in relazione i consumatori e le aziende consentono al cliente finale di minimizzare la spesa, pagando un prezzo sempre più vicino al reale valore di utilizzo del bene o servizio oggetto della transazione.

È inevitabile come tale fenomeno imponga una regolamentazione adeguata a trecentosessanta gradi ed, in specie, ai fini che ne occupa, una regolamentazione a livello fiscale.

Le Linee Guida contenute nella Comunicazione della Commissione UE (COM 2016, n. 356) pubblicata il 2 giugno 2016, intitolata “un'agenda europea per l'economia collaborativa”, pur non essendo vincolanti, dovrebbero avere lo scopo di armonizzare le legislazioni degli Stati membri, orientandoli verso alcuni principi. Ed a tali Linee Guida dovrebbe ispirarsi la proposta di legge A.C. 3564, presentata il 27 gennaio 2016.

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