La Corte di giustizia torna sulla riserva del congedo supplementare di maternità alle sole madri quale forma di discriminazione fondata sul sesso

Marta Rossi Doria
28 Dicembre 2021

In tema di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, gli articoli 14 e 28 della direttiva 2006/54/CE non ostano in via di principio alla disposizione di un contratto collettivo nazionale che riservi alle sole madri il diritto ad un congedo supplementare successivo alla scadenza del congedo legale di maternità...
Massima

In tema di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, gli articoli 14 e 28 della direttiva 2006/54/CE non ostano in via di principio alla disposizione di un contratto collettivo nazionale che riservi alle sole madri

il diritto ad un congedo supplementare successivo alla scadenza del congedo legale di maternità. Il giudice nazionale chiamato a pronunciarsi sulla liceità di tale restrizione dovrà tuttavia verificare che il congedo abbia ad oggetto la protezione della condizione biologica della donna e delle particolari relazioni tra la donna e il suo bambino, integrando altrimenti la riserva alla sola figura materna del permesso una discriminazione diretta fondata sul sesso.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Il caso

La domanda origina dal contenzioso promosso dinnanzi al tribunale francese da un sindacato, la Confederazione francese dei lavoratori cristiani (CFTC), contro la Cassa primaria di assicurazione malattia della Mosella (CPAM de la Moselle), in relazione al suo rifiuto di riconoscere a CY, padre di un bambino, il beneficio previsto dall'articolo 46 del Contratto collettivo nazionale per il personale degli organismi di previdenza sociale dell'8 febbraio 1957 (di seguito CCN), in quanto riservato unicamente alla madre del bambino. Diniego che, non essendo le disposizioni di cui all'art. 46 legate a considerazioni di ordine fisiologico e data la posizione paritaria di uomini e donne in ordine all'onere di educazione dei figli, integra nelle argomentazioni del sindacato una discriminazione fondata sul sesso, vietata dal diritto dell'Unione così come dal diritto interno.

La questione

L'art. 46 CCN, per quanto qui interessa, così recita: «Al termine del periodo di congedo previsto dall'articolo precedente (che disciplina il congedo di maternità ex lege, ndr) un membro del personale di sesso femminile che si prende cura in prima persona dei propri figli ha in seguito diritto a:

- un congedo di tre mesi a retribuzione dimezzata o di un mese e mezzo a retribuzione piena;

- un congedo non retribuito di un anno.

[…] Il consiglio di amministrazione può eccezionalmente concedere un ulteriore anno di congedo non retribuito. […]».

In occasione del ricorso presentato, ai sensi dell'art. 267 TFUE, dal Giudice del Lavoro di Metz, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea è chiamata a pronunciarsi sulla domanda pregiudiziale relativa all'interpretazione della direttiva 2006/54/CE, sull'applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, volta a chiarire se essa escluda dal proprio ambito di applicazione ratione materiae disposizioni nazionali che riservino alle dipendenti di sesso femminile che si prendono cura in prima persona dei propri figli, al termine del congedo di maternità, un congedo supplementare di un mese e mezzo a retribuzione piena o di tre mesi a retribuzione dimezzata, ed un ulteriore congedo non retribuito di un anno.

Le soluzioni giuridiche

Superate le censure formali sollevate da CPAM e governo francese ed effettuata una rassegna della normativa comunitaria applicabile, la Corte entra nel merito del contenzioso. Sulla scorta di un proprio consolidato orientamento ricorda che la liceità di una riserva alla sola figura materna di un periodo supplementare al termine del congedo legale di maternità (disciplinato nei suoi termini minimi, pari a 14 settimane ininterrotte, dall'art. 8 della direttiva 92/85) è subordinata alla circostanza che quest'ultimo spetti alla madre non nella sua qualità di genitore, ma con riguardo alle conseguenze della gravidanza e alla condizione di maternità. Rileva dunque come un contratto collettivo che escluda dal beneficio di tale congedo supplementare un lavoratore di sesso maschile che si prenda cura in prima persona del proprio figlio comporta una differenza di trattamento basata sul sesso, compatibile con il diritto comunitario solo laddove sia diretta a garantire la protezione della condizione biologica della donna e delle particolari relazioni tra ella ed il proprio figlio nel delicato periodo post-parto.

Fermo restando che spetterà al giudice del rinvio verificare “se il congedo previsto sia diretto, sostanzialmente, a tutelare la madre con riguardo tanto alle conseguenze della gravidanza quanto alla sua condizione di maternità”, o debba piuttosto essere inteso nel senso di una generica protezione della genitorialità, la Corte procede ad indicare elementi interpretativi utili ad una più agevole valutazione in ordine alla sua compatibilità con il divieto di discriminazioni basate sul sesso stabilito dalla direttiva 2006/54.

Si afferma in primo luogo che un congedo, quale quello regolato dall'art. 46, che intervenga al termine del congedo legale di maternità, ben potrebbe essere considerato come un prolungamento dello stesso, “di maggiore durata e più favorevole alle lavoratrici rispetto alla durata legale”. Ai fini della legittimità di una riserva alla sola figura materna del permesso, tuttavia, non è sufficiente il solo fatto che esso segua immediatamente il precedente congedo legale di maternità, essendo requisito necessario per la liceità di tale restrizione che il congedo supplementare abbia ad oggetto la protezione della donna.

Il medesimo concetto è ribadito dalla Corte laddove, rispondendo ad un argomento meramente formalistico sollevato dal governo francese, essa nega rilievo alla denominazione data dalle parti collettive al capitolo entro cui si inserisce la disposizione di cui è causa (concretamente, «Congedo di maternità»), essendo unico dovere del giudice del rinvio pronunciarsi sulla rispondenza al diritto dell'Unione del contenuto reale di essa.

Aggiungendo un motivo ulteriore alle proprie argomentazioni, la CGUE valorizza poi l'elemento relativo alla durata del congedo di cui all'art. 46, che può notevolmente variare spaziando tra il mese e mezzo e i due anni e tre mesi. Il congedo supplementare potrebbe dunque superare di molto la durata di quello legale di maternità, di cui al precedente articolo 45 (fissato dal codice del lavoro francese in sedici settimane), non essendo peraltro, nei casi di maggior durata, garantito il mantenimento di una retribuzione né il versamento di un'indennità adeguata, diritto che la direttiva 92/85 riconosce alle lavoratrici che fruiscano del congedo.

È a questo punto agilmente intuibile la risposta fornita dal collegio alla questione deferitale. Pur non ostando, di per sé, gli articoli 14 e 28 della direttiva 2006/54, letti alla luce della direttiva 92/85, alla disposizione di un contratto collettivo nazionale che riservi alle sole madri il diritto ad un congedo dopo la scadenza del congedo legale di maternità, il giudice del rinvio dovrà verificare se tale congedo supplementare sia diretto a tutelare le lavoratrici con riguardo tanto alle conseguenze della gravidanza quanto alla loro condizione di maternità prendendo in considerazione, in particolare, le condizioni di concessione di detto congedo, le modalità e la durata del medesimo nonché il livello di protezione giuridica ad esso connesso.

Alla luce di quanto esposto risulta difficile vedere come, prendendo in considerazione tutti gli elementi forniti dalla Corte, il tribunale francese possa avallare l'interpretazione data dalla compagnia assicurativa alla norma convenzionale.

La giurisprudenza comunitaria

La sentenza è un eccellente materiale di lavoro per chi desideri ripercorrere la storia della giurisprudenza comunitaria in materia di tutela delle lavoratrici gestanti in generale, e di congedo di maternità in particolare. Per giungere alle conclusioni suesposte la Corte di Giustizia prende le mosse dal costante orientamento che riveste di particolare importanza sociale il diritto al congedo di maternità, rilevando come il legislatore comunitario abbia ritenuto degni di specifica tutela i cambiamenti che, nel corso del limitato periodo di almeno quattordici settimane, incorrono nelle condizioni di esistenza di una donna incinta, ed inteso garantire il pari periodo di sospensione dell'attività lavorativa dall'erosione da parte di pubbliche autorità e datori di lavoro (sentt. Kiiski, C-116/06, e Rosselle, C-65/14). Cambiamenti che integrano una situazione specifica di vulnerabilità, non equiparabile, nell'ottica della fruizione di un periodo di sospensione dall'attività lavorativa, a quella di un lavoratore assente dal lavoro per malattia (sentt. Boyle e al., C-411/96, e D., C-167/12).

La questione relativa a periodi supplementari di congedo concessi al termine di quello legale di maternità era stata sottoposta all'attenzione della Corte nel 1983, con la causa Hoffmann (sent. Hoffmann, 184/83). In tale occasione, con una sentenza che, pur senza essere sconfessata dalla decisione in commento, palesa il segno impresso dal passare degli anni nella percezione sociale del ruolo di genitori, la CGUE aveva riconosciuto che un provvedimento, quale il congedo supplementare di maternità, concesso alla donna dopo la scadenza del periodo legale di tutela, rientrasse nell'ambito di applicazione dell'allora art. 2, n. 3, della direttiva 76/207 (predecessore dell'odierno art. 28, par. 1, della direttiva 2006/54). Rilevando l'estraneità della direttiva da fini modificatori dell'organizzazione familiare e della ripartizione di responsabilità all'interno della coppia, la Corte riconosceva la legittimità, in relazione al principio di parità di trattamento, della protezione della donna sotto due aspetti. Si trattava di garantire, “in primo luogo, la tutela della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza, fino al momento in cui le sue funzioni fisiologiche e psichiche si sono normalizzate dopo il parto e, in secondo luogo, la protezione delle particolari relazioni tra la donna e il bambino, durante il periodo successivo alla gravidanza ed al parto, evitando che queste relazioni siano turbate dal cumulo dei pesi derivanti dal fatto di dover contemporaneamente svolgere un'attività lavorativa”. Sulla scorta di tali affermazioni si dichiarava lecita la concessione alla madre, ad esclusione di ogni altro soggetto, di un congedo supplementare al termine del periodo legale di tutela, “tenuto conto del fatto che solo la madre può essere tentata di riprendere prematuramente il lavoro”.

Per altro verso, sin da tempo risalente la Corte ha riconosciuto ad entrambi i genitori parità di diritti e doveri nell'educazione dei propri figli, negando che misure intese alla protezione della donna nella sua qualità di genitore, propria dei lavoratori di sesso maschile come di quelli di sesso femminile, possano trovare giustificazione nell'art. 28, par. 1, della direttiva 2006/54 (sentt. Commissione/Francia, 312/86, e Griesmar, C-366/99) la quale, nell'imporre il rispetto della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ha lasciato impregiudicate le sole “misure relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità”. Le situazioni di un lavoratore di sesso maschile e di un lavoratore di sesso femminile, rispettivamente padre e madre di figli in tenera età, sono state dichiarate equiparabili, a titolo d'esempio, quanto alla necessità di fruire dei posti negli asili nido messi a disposizione dal datore di lavoro (sent. Lommers, C-476/99) e sotto il profilo della necessità di ridurre il proprio orario di lavoro giornaliero per occuparsi del bambino (sent. Roca Alvarez, C-104/09).

Anche in tale prospettiva la sentenza Hoffman ha peraltro svolto un ruolo importante nella giurisprudenza comunitaria, contribuendo a definire i criteri distintivi del congedo di maternità da quello parentale. Se il primo, infatti, mira a garantire la protezione della condizione biologica della donna e le relazioni particolari tra la madre e il figlio durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto, evitando che queste relazioni siano turbate dal cumulo degli oneri derivanti dal contemporaneo svolgimento di un'attività lavorativa, il congedo parentale – introdotto, questa volta, con l'esplicito fine di promuovere la partecipazione delle donne alla vita attiva ed incoraggiare gli uomini ad assumere uguali responsabilità familiari, ad opera della direttiva 96/34 – è concesso ad entrambi i genitori affinché essi possano aver cura del loro bambino fino al raggiungimento dell'età stabilita a tal fine dagli Stati membri, comunque non superiore agli otto anni (sentt. Commissione/Lussemburgo, C-519/03, e Rodriguez Sànchez, C-351/14).

La più recente giurisprudenza, in definitiva, pur non arrivando a contraddire i principi stabiliti in occasione del caso Hofmann, ha attribuito prevalenza alle finalità di protezione della condizione biologica della donna, svalutando il controverso criterio della protezione delle “particolari relazioni” tra la donna e il bambino in quanto, seppur lodevolmente inteso ad abolire una disparità di fatto, finirebbe tuttavia per perpetuare una distribuzione tradizionale dei ruoli tra uomini e donne, mantenendo gli uomini in un ruolo sussidiario a quello delle donne per quanto riguarda l'esercizio della loro funzione genitoriale (in tal senso le già citate sentenze Lommers e Roca Alvarez). Ciononostante, tornando a quasi trent'anni di distanza a pronunciarsi sul congedo di maternità, in occasione del caso Betriu Montull (C-5/12) la Corte ha ritenuto di dover ribadire le ragioni espresse nella sentenza Hofmann, riconoscendo nel permesso concesso per il periodo successivo alle sei settimane di riposo obbligatorio, pur liberamente cedibile al padre del bambino ai sensi della legislazione spagnola – e dunque non vincolato a ragioni di tutela della condizione biologica della donna –, un diritto proprio della sola madre. Con ciò disattendendo le conclusioni dell'Avvocato Generale, il quale aveva ritenuto che “il congedo di dieci settimane nel caso di specie è accordato ai lavoratori nella loro sola qualità di genitori del bambino e non è legato alla protezione della condizione biologica della donna dopo la gravidanza o delle particolari relazioni tra la donna ed il proprio bambino”, e giudicato tali misure nazionali non compatibili con il diritto dell'Unione, in quanto integranti una disparità di trattamento fondata sul sesso.

La giurisprudenza italiana

L'ordinamento italiano, al capo IV del d.lgs. n. 151/2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di sostegno della maternità e della paternità”), riconosce al padre, lavoratore subordinato, il diritto ad astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo (di maternità) spettante alla madre. La previsione di tale specifico congedo di paternità trae origine da una risalente pronuncia additiva della Corte Costituzionale (Corte Cost., sent. n. 1 del 1987), la quale muovendo dall'attribuzione, ad opera della legge n. 903 del 1977, alle lavoratrici che avessero adottato un bambino della facoltà di avvalersi – nei tre mesi successivi all'ingresso nella nuova sua famiglia del bambino adottivo – dell'astensione obbligatoria dal lavoro e del relativo trattamento economico, aveva opportunamente sganciato l'astensione dal lavoro dal fatto materiale del parto, valorizzando “quell'interesse di peculiare pregio costituzionale che, per costante giurisprudenza, è la tutela del minore”. Alla previsione legislativa di uno specifico “congedo di paternità”, tuttavia, non corrisponde un diritto pieno ed incondizionato del padre all'astensione dal lavoro, rimanendo tale facoltà subordinata al fatto che la madre non usufruisca del proprio diritto, per impossibilità o per scelta, nelle ipotesi tassative elencate dal comma 1 dell'art. 28, d. lgs. 151/2001: morte o grave infermità della madre, abbandono da parte di questa e affidamento esclusivo del bambino al padre.

Pur mantenendo il congedo di paternità la natura di diritto subordinato alla mancata fruizione dello stesso da parte della madre, la giurisprudenza di merito ha riconosciuto al padre lavoratore un diritto autonomo alla fruizione del congedo, a prescindere dal fatto che la madre sia o sia stata una lavoratrice (Trib. Firenze, sent. 1169/2009). Tale pronuncia, in assenza di precedenti specifici sul punto, sembra suggerire che il termine “lavoratrice” impiegato dall'art. 28 (“il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice”) debba essere inteso semplicemente come “madre”, contribuendo a svincolare il congedo di paternità dalla posizione giuridica propria della donna.

In senso analogo si era peraltro già espresso il massimo organo di tutela della giustizia amministrativa, pronunciandosi in tema di riposi giornalieri. Introdotti nel nostro ordinamento dalla legge n. 903/1977 e tradizionalmente finalizzati all'allattamento, la previsione di cui all'art. 40, d.lgs. 151/2001 ha riconosciuto alle due ore giornaliere di riposo, fruibili nell'arco del primo anno di vita del bambino, la più ampia funzione di assicurare alla lavoratrice madre la possibilità di provvedere all'assistenza diretta del figlio, funzione che spiega l'estensione del diritto ad usufruirne in capo alla madre adottiva e affidataria ed al padre lavoratore in alternativa alla madre, quando quest'ultima non voglia o non possa avvalersene. Dato atto che il padre, laddove non sia affidatario esclusivo, può beneficiare di detti riposi “solo se la madre sia lavoratrice, e non intenda avvalersi dei congedi spettantigli o non sia lavoratrice dipendente” il Consiglio di Stato ha confermato la decisione con cui il TAR aveva ritenuto che l'espressione di cui alla seconda fattispecie possa dirsi comprensiva della “lavoratrice” casalinga (C.d.S. n. 4293/2008, che richiama la ricostruzione della figura di casalinga fornita da Cass. n. 20324/2005). Si valorizzava in tal modo la ratio della norma istitutrice dei riposi giornalieri: essi, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno infatti la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità (Corte cost.n. 104/2003), e devono essere riconosciuti in capo al padre allorquando la madre, pur non avendone diritto in quanto lavoratrice non dipendente, sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato. Detto orientamento, sconfessato, ad un solo anno di distanza, da una pronuncia del medesimo organo in sede consultiva (C.d.S. n. 2732/2009), è stato da ultimo confermato dal Consiglio di Stato con la pronuncia n. 4618 del 2014. Il Supremo giudice amministrativo, nella consapevolezza del contrasto venutosi a determinare nel proprio ambito tra la sezione giurisdizionale e quella consultiva, ha ritenuto di condividere il primo orientamento “perché aderente alla non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre, nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente. Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: e ciò vale tanto per la donna che svolga attività lavorativa autonoma, quanto per colei che non svolga alcuna attività lavorativa, o comunque svolga un'attività non retribuita da terzi”.

La fruizione dei permessi di riposo giornaliero è stata recentemente riconosciuta al padre, lavoratore dipendente, anche nel periodo in cui la madre, lavoratrice autonoma, gode dell'indennità di maternità, la cui fruizione non è per legge incompatibile con la ripresa dell'attività lavorativa. Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione (sent. n. 22177/2018), la quale, confermando la pronuncia con cui la Corte d'Appello di Torino aveva ritenuto che la diversità della condizione della madre lavoratrice autonoma, facoltizzata a riprendere l'attività anche in considerazione del più contenuto trattamento economico riconosciutole, giustificasse la previsione di una incondizionata possibilità per il padre di fruire dei permessi nell'interesse stesso del bambino e delle sue necessità di un maggior apporto sul piano materiale e psicologico anche ove la madre stesse godendo dell'indennità di maternità, ha affermato il principio “per cui – potendo in base alla disciplina di legge entrambi i genitori lavorare subito dopo l'evento della maternità – risulta maggiormente funzionale affidare agli stessi genitori la facoltà di organizzarsi nel godimento dei medesimi benefici previsti dalla legge per una gestione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela del complessivo assetto di interessi perseguito dalla normativa; consentendo perciò ad essi di decidere le modalità di fruizione dei permessi giornalieri di cui si tratta, salvo i soli limiti temporali previsti dalla normativa. Ciò che, in relazione all'istituto in discorso, può essere garantito soltanto accedendo ad una interpretazione della normativa che consenta la facoltà di utilizzo dei permessi, da parte del padre lavoratore dipendente, anche nel periodo in cui la madre, lavoratrice autonoma, goda dell'indennità di maternità; la cui fruizione, come più volte ricordato, non è per legge incompatibile con la ripresa dell'attività lavorativa. Non rileva pertanto sul piano normativo quando, nel singolo caso concreto, la lavoratrice autonoma abbia ripreso effettivamente il lavoro, né se il godimento dei due benefici in capo ai distinti beneficiari si sia sovrapposto in tutto o solo in parte nel medesimo periodo previsto dalla legge”.

Osservazioni

La sentenza della Corte di Giustizia giunge a breve distanza dal conseguimento, in ambito europeo, di un altro, fondamentale passo avanti nella protezione della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione. Il Real decreto-ley 6/2019, siglato dal governo spagnolo il 1° marzo 2019, ha posto le basi per una progressiva estensione del congedo di paternità (permiso de paternidad) che, dalle 5 settimane allora previste, sarebbe passato a contarne 8, per aumentare a 12 nel 2020 e 16 a partire dal 1° gennaio 2021. La Spagna assume, così, un ruolo pionieristico nella lotta alle disuguaglianze basate sul sesso: prima tra i paesi del blocco UE, assicura oggi un diritto personale e non trasferibile al congedo di paternità, di durata pari a quello della madre.

La nuova normativa non ha mancato di destare polemiche. V'è chi ha lamentato mancati progressi nella protezione della madre, essendo la durata del permesso di maternità inferiore alla media europea e ferma a quanto stabilito dalla legge n. 3 del 1989, a fronte di progressivi incrementi di tutela della figura paterna. Isolate critiche sono giunte, da un lato, da chi ha letto nel riconoscimento del diritto paterno una sconfitta per le donne, che si vedono negare l'esclusività di uno dei pochi privilegi loro concessi e, dall'altro, con riguardo al carattere obbligatorio delle prime sei settimane di congedo, da godersi simultaneamente alla madre nel periodo immediatamente successivo alla nascita, che avrebbe “trasformato in un obbligo quello che era un diritto” del padre. Ulteriori perplessità ha destato il divieto di trasmissibilità delle settimane di congedo non godute, che priva le famiglie della possibilità di scegliere chi debba occuparsi del figlio durante i primi mesi di vita.

Pur con le criticità applicative denunciate dalla Plataforma por los Permisos Iguales e Intransferibles por Nacimiento y Adopción (PPiiNA), principale promotrice della riforma legislativa – essenzialmente, la forzata simultaneità delle prime sei settimane di congedo di madre e padre, nonché la necessaria collaborazione dell'impresa per ottenere il congedo a tempo pieno, anziché parziale –, ritengo la legislazione spagnola segni una pietra miliare necessaria nel cammino verso il raggiungimento di una parità di genere che sia effettiva, piena e condivisa.

Gravidanza, maternità e carichi familiari (e, più spesso, la pura e semplice possibilità astratta che una di queste eventualità possa verificarsi: l'essere donna) racchiudono ancor oggi in sé la radice di gravi ed intollerabili discriminazioni, dirette o indirette, delle figure femminili sul posto di lavoro – oltre a rappresentare la principale causa dell'abbandono del lavoro da parte delle donne. Se, da un lato, la persistenza di tali discriminazioni evidenzia come la maternità sia ancora relegata dagli operatori economici alla sfera dei fatti privati, cui non è riconosciuto, al di là delle enunciazioni di principio, un valore sociale meritevole di tutela, per altro verso è proprio la percezione sociale ereditata da secoli di discriminazioni, che vede nella donna-madre la prima, naturale responsabile del benessere del neonato e della sua futura educazione, a consentire il perpetrarsi di esse.

In tale contesto, il congedo di maternità risulta un'arma a doppio taglio per le lavoratrici. Indispensabile misura di tutela dell'equilibrio psicofisico di madre e figlio durante il delicato periodo post partum, i costi connessi a tale periodo di astensione dal lavoro disincentivano tuttavia in radice la contrattazione femminile, figurando tra le principali cause del basso tasso di occupazione delle donne fra i 25 e i 44 anni e della maggiore precarietà della loro situazione lavorativa.

Plasmare la coscienza collettiva non è certo una delle incombenze del legislatore. Ma è sua missione avanzare sul terreno dell'uguaglianza, garantire parità di trattamento ed opportunità rimuovendo gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (il principio di eguaglianza sostanziale, condiviso da gran parte della comunità internazionale, è come noto sancito in questi termini dall'art. 3, comma 2, della Costituzione). E se, nel perseguire tali obiettivi, l'azione statale dovesse contribuire a modificare la mentalità collettiva, abbattere stereotipi e favorire il cammino verso un'effettiva, diffusa e condivisa corresponsabilità tra uomo e donna nei campi della vita personale, lavorativa e genitoriale, sarà tanto di guadagnato.