La posizione del coniuge divorziato con sentenza non definitiva
21 Gennaio 2022
La sentenza non definitiva nel procedimento di divorzio
Il legislatore ha previsto nel giudizio di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, comma 12, l. 898/1970), ma anche in quello di separazione (art. 709-bis c.p.c.), la possibilità che sia emessa la sentenza non definitiva, rispettivamente di divorzio o di separazione. La ratio sottesa a entrambe le fattispecie è favorire una celere decisione sullo status dei coniugi. Con specifico riferimento all'art. 4, comma 12, l. 898/1970 (introdotto dalla novella del 1987, e la cui applicabilità è stata successivamente estesa anche al processo di separazione, dapprima dalla giurisprudenza di merito, poi dalla Cassazione, sino a quando la riforma del 2005 l'ha espressamente recepita nell'art. 709-bis c.p.c.), la norma prevede nell'inciso iniziale, che, nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno, il Tribunale emetta sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Presupposto necessario è quindi che si tratti di processo cumulato, nel quale cioè oltre alla domanda di divorzio, siano proposte altre questioni, di carattere patrimoniale o relative all'affidamento dei figli. In giurisprudenza (ad es. Cass. civ. 22 giugno 2012, n. 10484; Cass. civ. 23 gennaio 2009, n. 1731) e in dottrina (Graziosi, La sentenza di divorzio, Milano, 1997, 323 ss.; Saletti, Procedimento e sentenza di divorzio, in Il diritto di famiglia, Torino, 1997) si ritiene che ai fini della pronuncia parziale non sia necessaria una espressa richiesta di parte, potendo la sentenza non definitiva sullo status essere emessa anche ex ufficio, purchè chiaramente la causa sia matura per la decisione. La Cassazione (Cass. civ. 26 luglio 2019, n. 2032) giunge a ritenere anche che nel processo di divorzio non trovano applicazione gli artt. 183 e 190 c.p.c., venendo in rilievo la sola disciplina contenuta nella legge speciale, volta ad accelerare la procedura di accertamento dei presupposti dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Quindi, al fine di impedire condotte defatigatorie e ostative del convenuto, il giudice istruttore ha il potere di rimettere immediatamente la causa al collegio per l'emanazione della sentenza non definitiva relativa allo status, quando la causa debba proseguire per la determinazione dell'assegno. La pronuncia sullo status, oltre ad essere autonoma, è anche particolarmente “stabile”, potendo contro di essere solo proposto appello immediato, con esclusione pertanto della riserva d'appello (invero la Cassazione ha ammesso la possibilità della riserva di impugnazione relativamente al capo della sentenza non definitiva che attribuisce e quantifica l'assegno divorzile, Cass. civ. sentenza 12 febbraio 2009 n. 3488), facendo valere esclusivamente vizi e ragioni di nullità del provvedimento, sempre allo scopo di accelerare quanto più possibile la formazione del giudicato sulla domanda di divorzio. La sentenza non definitiva di divorzio (come anche di separazione) ha natura costitutiva (Cass. civ. Sez. I, Sent., 21 gennaio 2014, n. 1163). Con essa, quindi, il coniuge acquista lo status di libero e per conseguenza si costituiscono diritti e doveri nuovi rispetto al passato. L'assegno divorzile presuppone la preventiva o contemporanea pronuncia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, poiché trova origine nella dissoluzione del vincolo di coniugio. L'assegno divorzile, diversamente da quello di separazione, ha fondamento giuridico nel nuovo status che le parti acquistano con la sentenza della cessazione degli effetti civili o dello scioglimento del matrimonio, e decorre quindi dal passaggio in giudicato della relativa sentenza (Cass. civ. 17 settembre 2020 n. 19330). In ciò v'è una delle differenze dell'assegno divorzile da quello di mantenimento previsto in sede di separazione il quale, invece, in forza del principio secondo cui un diritto non può “restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio”, decorre dal momento della domanda, mentre è solo un'eccezione la previsione del giudice di posticipare la sua decorrenza ad un momento successivo (con sentenza o ordinanza). Per l'assegno di divorzio è il contrario: la regola generale è la sua decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza, anche parziale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, mentre l'eccezione, che il Giudice dovrà valutare e motivare, è la decorrenza anticipata al momento della domanda (art. 4/13 comma, l. n. 898/1970; tra le tante, da ultimo, Cass. civ. ord. 29 settembre 2021 n. 26491), anche senza domanda di parte purchè il diritto emerga dalle risultanze processuali (Cass. civ. 29 marzo 2006 n. 7117; Cass. civ. 24 gennaio 2011, n. 1613). Il Giudice del divorzio potrebbe anche fissare decorrenze intermedie dell'assegno, diverse dalla data della domanda o dalla data della sentenza: quand'anche venga disposta la decorrenza anticipata, ciò attiene all' an debeatur, senza interferenza alcuna nel giudizio per la determinazione del quantum dell'assegno allorchè l'evoluzione delle condizioni economiche delle parti postuli diverse decorrenze coincidenti con i successivi mutamenti. Ne deriva che se il petitum si limiti alla definizione del quantum dell'assegno, non è inibita la decorrenza della misura modificata di esso da una data diversa rispetto alla previsione della norma citata, non diversamente da come accadrebbe se fosse introdotta la procedura di revisione prevista dall'art. 9 l.d. (Cass. civ. 21 luglio 2004 n. 13507). Esistono tuttavia anche opinioni contrarie (ad es. Cass. civ. 15 giugno 1995 n. 6737). Potrebbe accadere che giudizio di separazione, o di modifica ex art. 710 c.p.c., e giudizio di divorzio si sovrappongano: in tali casi, i provvedimenti emessi nel giudizio di separazione o di modifica continuano a regolare i rapporti economici tra i coniugi fino al passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale, ove non ricorra l'ipotesi derogatoria di cui all'art. 4, comma 13, l. 898/1970, e pertanto la debenza dell'assegno di mantenimento disposta nel giudizio separativo trova il proprio limite temporale nel passaggio in giudicato della sentenza di divorzio. Solo qualora nel giudizio divorzile, nella fase presidenziale o istruttoria, siano emessi provvedimenti provvisori, temporanei ed urgenti, questi ultimi si sostituiscono a quelli emessi nel giudizio di separazione. È dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status che invece, senza eccezioni, decorre la ripetibilità delle somme corrisposte a titolo d'assegno divorzile poi revocato con sentenza definitiva (Cass. civ. ord. 18 ottobre 2021 n. 28646). La morte della parte obbligata prima del passaggio in giudicato del divorzio
Con il passaggio in giudicato della sentenza sullo status, la parte perde quindi la qualifica di coniuge e i diritti ad essa connessa. La prima questione da affrontare riguarda il destino delle domande accessorie in caso di morte dell'(ex) coniuge forte. In altre parole, se il giudizio debba o meno proseguire in particolare sulla domanda di assegno divorzile. Le conclusioni della giurisprudenza sul punto non sono unanimi. Da un lato si ritiene debba essere dichiarata la cessazione della materia del contendere anche rispetto alle domande accessorie (Cass. civ. 20 febbraio 2018 n. 4092, di recente confermato anche da Cass. civ. ord. 2 dicembre 2019, n. 31358), mentre un diverso filone opta per la prosecuzione del giudizio, sul presupposto che permane l'interesse della parte richiedente l'assegno al credito avente ad oggetto le rate scadute anteriormente al decesso, credito che risulterebbe trasmissibile agli eredi, ovvero all'attribuzione di un assegno periodico a carico dell'eredità (art. 9- bis, l. 898/1970) così come, di converso, anche gli eredi dell'obbligato potrebbero essere interessati ad un accertamento negativo del diritto ed alla restituzione di importi eventualmente versati in ossequio a provvedimenti provvisori (da ultimo, Cass. 24 luglio 2014 n. 16951, Trib. Milano sent. 2 novembre 2018 n. 20658 secondo cui il giudizio prosegue se ha ad oggetto domande di carattere patrimoniale). Aderire all'una o l'altra opzione ha conseguenze ben diverse, poiché nel secondo caso viene in rilievo, la possibilità per il coniuge superstite di chiedere la pensione di reversibilità ex art. 9 comma 2, l. 898/1970. Il diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato sorge quando esiste una sentenza di divorzio passata in giudicato e purché lo stesso sia titolare di un assegno divorzile, ricomprendendo anche l'ipotesi in cui pur essendo stata accolta la domanda di divorzio con sentenza parziale che aveva riconosciuto anche il diritto all'assegno divorzile, il giudizio prosegue per la determinazione del quantum. Nel caso in cui la decisione sull'an e sul quantum dell'assegno sia rinviata alla fase successiva e conclusiva del giudizio, l'accertamento giudiziale del diritto potrà compiersi anche in caso di decesso dell'obbligato, in deroga al principio secondo cui la morte determina la cessazione della materia del contendere (Cass. 15 ottobre 2014 n.21598). Se l'ex coniuge divorziato concorre con quello superstite, la pensione va ripartita tra i due aventi diritto tenendo conto della durata del rapporto. In tal caso affinchè l'ex coniuge possa avanzare pretese, è necessaria la preesistenza dei presupposti da cui trae origine il rapporto pensionistico rispetto alla sentenza di divorzio. Il concorso tra i due aventi diritto pone non poche questioni e frequenti sono le occasioni in cui la controversia viene attenzionata al Giudice. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. civ. ord. 5 ottobre 2021, n. 26932 ) offre l'occasione per fare il punto su una situazione particolare, ossia il caso in cui l'ex coniuge divorziato senza che sia passata in giudicato la sentenza che gli riconosce la titolarità dell'assegno divorzile rivendichi una quota della pensione di reversibilità dell'ex marito, in concorso con la vedova del coniuge defunto. Nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto di rinviare a nuovo ruolo la decisione su una controversia ex art. 9 l. 898/1970, nella quale l'ex coniuge si era vista respingere la richiesta di concorso con la vedova nel riparto della pensione riversibilità del defunto coniuge, da cui aveva divorziato con sentenza non definitiva, essendo sopravvenuto nelle more il decesso del pensionato. A norma dell'art. 5 l. 263/2005 per “titolarità dell'assegno” ai sensi dell'art. 5 l. div. deve intendersi l'avvenuto riconoscimento dell'assegno divorzile da parte del Tribunale: in altri termini il diritto all'assegno deve essere concretamente affermato con una pronuncia giudiziale, non essendo sufficiente che esso sia astrattamente possibile o rilevabile incidenter tantum. La norma tuttavia non prevede che il riconoscimento del diritto all'assegno divorzile debba essere conseguito con sentenza passata in giudicato. Considerato che una volta emessa la sentenza di divorzio viene meno la tutela garantita dal rapporto di coniugio, subentrando quella assicurata dalle norme sul divorzio, v'è una lacuna normativa che si risolve in un vulnus per la parte debole, e che inerisce alla posizione di chi ha perso la qualifica di coniuge ma non ha ancora visto regolamentato il diritto all'assegno divorzile. Analogamente la Corte di Cassazione (Cass. civ., ord. 29 ottobre 2021, n. 30750) ha rimesso agli atti al primo presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite in merito alla questione se il coniuge divorziato abbia o meno il diritto alla pensione di reversibilità o a una quota quando il diritto all'assegno divorzile non venga riconosciuto giudizialmente per la morte sopravvenuta del coniuge obbligato, pur essendo passata in giudicato la statuizione sullo status di divorziato assunta con sentenza non definitiva. Nelle situazioni succitate è evidente la disparità di trattamento che viene a crearsi tra chi non è ancora in possesso di un titolo intoccabile all'assegno divorzilepur avendo tutti i requisiti per ottenerlo e chi invece lo sia già divenuto, con la conseguenza di subordinare la funzione solidaristica della pensione di reversibilità alla sussistenza di un requisito formale.
I restanti diritti del coniuge divorziato con sentenza non definitiva. Il diritto alla quota del T.F.R.
A norma dell'art. 12-bis l. 898/1970 il coniuge divorziato ha diritto, se non passato a nuove nozze e se titolare dell'assegno divorzile, a una percentuale del T.F.R. percepito dall'altro all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. Anche in questo caso, come per la pensione di reversibilità, la ratio è di natura assistenzialistica e solidaristica. Orbene, ai fini che ci occupano, il diritto alla quota di T.F.R. deve ritenersi sussistere anche se il trattamento di fine rapporto sia maturato prima della sentenza di divorzio, ma dopo la proposizione della domanda, quando ancora non v'è un titolare all'assegno divorzile, che come anzidetto viene in essere dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio ovvero di quella, successiva, che lo abbia liquidato. Si intende infatti il diritto alla quota del T.F.R., non ancora percepita dal coniuge cui spetti, all'assegno divorzile, che sorge contestualmente alla domanda di divorzio seppure venga di regola costituito e divenga esigibile solo col passaggio in giudicato della sentenza che lo liquidi. (Cass., sent. 6 giugno 2011, n. 12175). Pertanto, indipendentemente dalla decorrenza dell'assegno divorzile, se il TFR è percepito dall'avente diritto dopo la domanda di divorzio, l'attribuzione della quota del T.F.R. è connessa al definitivo riconoscimento giudiziario della spettanza dell'assegno di divorzio. Non ha invece diritto alla quota di T.F.R. chi sia titolare solo dell'assegno riconosciuto in via provvisoria e urgente coi provvedimenti presidenziali: a nulla rileva la c.d. “titolarità potenziale” dello stesso, né tantomeno il fatto che nel corso del giudizio sia stato disposto un assegno mensile di mantenimento a carico del resistente, stante la diversità ontologica e giuridica delle due diverse forme di contributo. Perché quindi un soggetto possa vantare diritti sul T.F.R. dell'ex coniuge e sulla pensione di riversibilità non è sufficiente che abbia i requisiti per ottenere l'assegno ma è necessario che questo gli sia stato attribuito (Cass. civ., sent. 20 febbraio 2018, n. 4107). |