Assegno divorzile e convivenza more uxorio: esclusione dell'automaticità del riconoscimento e criteri applicativi
01 Febbraio 2022
Massima
L'instaurazione da parte dell'ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all'assegno. Qualora sia giudizialmente accertata l'instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche all'attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell'ex coniuge, in funzione esclusivamente compensativa. Il caso
La pronuncia giudiziale in oggetto riguarda il riconoscimento dell'assegno divorzile avendo la richiedente, per sua stessa affermazione, instaurato una stabile convivenza con un nuovo compagno, da cui aveva avuto una figlia. La questione
L'evoluzione interpretativa dell'assegno divorzile tra mutamenti sociali e valori costituzionali e l'incidenza della convivenza more uxorio su tali arresti giurisprudenziali. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte a Sezioni Unite ha fornito una interpretazione ragionata e orientata ai valori costituzionali sul solco della recente giurisprudenza in materia di assegno divorzile, introducendo un contemperamento delle soluzioni interpretative adottate in presenza della formazione di una famiglia di fatto, escludendo ogni automaticità di valutazione. Osservazioni
L'interessante pronuncia a Sezioni Unite della Suprema Corte tenta di comporre un delicato contrasto sorto nell'ambito della giurisprudenza di merito e di legittimità circa l'attribuzione dell'assegno divorzile nell'ipotesi in cui il coniuge richiedente abbia intrapreso una nuova convivenza di fatto. È ovvio che i temi socio-culturali e giuridici toccati dalla complessa ed elaborata pronuncia meriterebbero una tale articolata ed approfondita analisi che esulano dallo scopo dello scritto che è quello di individuare sinteticamente i principi applicati e sviscerare le prime osservazioni estemporanee su quella che è sicuramente un punto di arrivo di una rivoluzione giurisprudenziale in materia di assegno divorzile originata dalla storica sentenza, sempre a Sezioni Unite, n. 18287/2018. Come la stessa pronuncia sottolinea, la famiglia di fatto ha lentamente soppiantato nella società civile italiana la famiglia storicamente e costituzionalmente fondata nel matrimonio quale istituto giuridico alla luce dell'art.29 Cost. e che trova la sua tutela costituzionale, non a caso, nell'art.2 della Cost., quale formazione sociale dell'individuo. Ed in effetti, prima ancora che dal legislatore, essa è stata riconosciuta dalla giurisprudenza, estendendone la tutela in via interpretativa, fino ad ottenere una prima organica veste giuridica con la l. 76/2016. Invero, da un punto di vista socio-culturale nessuna sostanziale differenza vi è all'interno di una coppia che decide di intraprendere una convivenza e che programma una comunione di vita stabile e duratura, consacrata anche dal fine procreativo, nell'ambito di una suddivisione e condivisione di ruoli e di responsabilità, prima di tutto morali e civili. È agli occhi di tutti come ormai il matrimonio, quale istituto giuridico, non garantisca una durata della coppia più di quanto non la possa garantire una convivenza di fatto, in quanto ciò riposa sulla serietà e sulla coscienza di ogni singolo individuo. Al contrario, ciò che il matrimonio garantisce è uno status giuridico, composto da diritti e doveri che sorgono inderogabilmente ed incondizionatamente dal patto coniugale così come disciplinato dal nostro codice civile. Questa garanzia, a differenza della convivenza di fatto, si prolunga oltre modo nella disciplina della separazione che non determina la cessazione dell'obbligo di assistenza coniugale, trattandosi di una fase transitoria destinata a chiudersi con la riconciliazione o con il divorzio, e meno che mai con quest'ultimo che continua a tutelare il diritto di mantenimento del coniuge cd. debole, dopo il definitivo dissolvimento dell'unione coniugale. Infatti, la sostanziale differenza tra matrimonio e convivenza more uxorio è il diritto al mantenimento del coniuge che sorge proprio con la cessazione della cd. affectio coniugalis sancita dalla sentenza di divorzio. Al contrario, chi ha deciso fin dall'inizio di formare una famiglia di fatto giammai potrà pretendere un assegno di mantenimento per sé, ma solo per i figli nati dalla convivenza, così come la casa familiare, nel necessario rispetto del best interest del minore, che deve subire le scelte dei genitori nel modo meno pregiudizievole possibile. E qui già balza agli occhi una stridente differenza di trattamento tra chi ha deciso di sposarsi e, quindi, a seguito di divorzio, ha ottenuto un assegno di mantenimento di cui può continuare ad usufruire, sussistendone i presupposti di seguito indicati, pur avendo intrapreso una nuova convivenza non consacrata nel matrimonio, rispetto a chi ha fin dall'inizio deciso di non sposarsi e, pur avendo sacrificato la propria vita per la cura della famiglia e della prole, qualora cessi tale convivenza, non avrà diritto ad alcun mantenimento per sé. Proprio da tale provocatrice considerazione, occorre partire per esaminare criticamente quello che sembrerebbe un cambio di rotta insensato ed in contrasto con l'evoluzione sociale e giurisprudenziale degli ultimi decenni che ha equiparato i due istituti, l'uno prettamente giuridico, l'altro sociologico al fine di tutelare situazioni di fatto comparabili ed assimilabili al primo, per essere poi, sotto la spinta del diritto eurounitario, finalmente riconosciuto anche dal legislatore. Perché sembrerebbe che la convivenza more uxorio, connotata da quell'insieme di stabile condivisione di ruoli e responsabilità reciproche, di assistenza e di cura della prole, scaturenti dal nostro ordinamento giuridico, diventa un minus quando la si debba comparare ad una pregressa convivenza – questa sì – consacrata dal matrimonio che, seppur definitivamente dissolta, continua comunque a sopravvivere negli effetti giuridici. A dirla tutta, se è vero che la l. 898/1970 e le successive modifiche apportate dalla l. 74/1987, hanno garantito quella sopravvivenza dell'obbligo assistenziale, nell'interpretazione decennale fornita dalla giurisprudenza, pur in presenza della definitiva cessazione di uno status giuridico, e ciò a tutela del cd. coniuge debole, che nella società civile italiana corrispondeva a pieno titolo con la moglie, in una cornice storico-culturale in cui la donna trovava nel matrimonio la propria primaria fonte di sostentamento e di riconoscimento sociale, sicchè, una volta sancita la definitiva dissoluzione del vincolo coniugale occorreva necessariamente garantire una fonte assistenziale tendenzialmente duratura nel tempo per colei che davvero non avrebbe più potuto raggiungere ulteriori garanzie di vita economico-sociale, è anche vero che la rivoluzione nei costumi e nei valori della società civile e del ruolo della donna, a pari passo con la progressiva disgregazione del matrimonio, inteso quale conquista di uno status, rispetto all'aumento delle convivenze di fatto, ha spinto verso una interpretazione giurisprudenziale informata al principio di autoresponsabilità e di autodeterminazione, così recidendo definitivamente il connotato assistenziale dell'assegno divorzile nell'accezione conclamata dalla storica sentenza n.18287/2018. E qui veniamo al senso della riflessione, e sì perché la Cassazione muove dal presupposto che i due istituti non siano assimilabili. Sicchè in assenza di un vuoto normativo, che non è stato colmato nemmeno dalla l.76/2016 (pur avendone l'occasione per farlo), come, al contrario, disciplinato negli altri paesi europei dove è espressamente stabilito che la presenza di una convivenza di fatto esclude la permanenza dell'obbligo di mantenimento a carico del coniuge divorziato, non è ammissibile una interpretazione analogica, essendo ciò demandato ad una scelta del legislatore, al quale il potere giudiziario non può sostituirsi, secondo i chiari insegnamenti della Corte Costituzionale. Ne deriva, secondo il ragionamento della Corte, che nessun automatismo è percorribile da parte del giudice, il quale dovrà secondo i consueti percorsi motivazionali che si attagliano al caso concreto applicare i principi sanciti dalla citata sentenza che si è discostata recisamente dal revirement intrapreso dalla precedente pronuncia n.11504/2017. Ma in che senso? La Suprema Corte afferma, nella parte finale della sentenza, che occorre: «individuare, al di fuori di automatismi non consentiti dalla legge, e contrastanti con la funzione anche compensativa dell'assegno, il punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e la tutela della riaffermata solidarietà post-coniugale. L'instaurazione di una nuova convivenza stabile, frutto di una scelta, libera e responsabile, comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il nuovo compagno o la nuova compagna, dai quali si ha diritto a pretendere, finché permanga la convivenza, un impegno dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l'ordinamento solo quali adempimento di una obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto, anche l'adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale (come attualmente previsto dalla l. n. 76/2016, art. 1, comma 37)». Sicchè, continua la Corte: «pur collocandosi l'opzione interpretativa che si ritiene di seguire al di fuori di ogni radicale automatismo in ordine alla radicale e globale caducazione del diritto all'assegno di divorzio in conseguenza della nuova convivenza, la scelta, libera e responsabile, di dar luogo ad un diverso progetto di vita con un nuovo compagno, non è infatti priva di conseguenze, né sotto il profilo della serietà dell'impegno assunto, né sotto il profilo delle conseguenze giuridiche che ora ne derivano: avendo instaurato un altro legame con un'altra persona, all'interno della nuova coppia, dal quale derivano reciproci obblighi di assistenza morale e anche materiale, l'ex coniuge non potrà continuare a pretendere la liquidazione della componente assistenziale dell'assegno, perché il nuovo legame, sotto il profilo della tutela assistenziale, si sostituisce al precedente. In caso si instauri una convivenza stabile, giudizialmente provata, deve ritenersi che essa valga ad estinguere, di regola, il diritto alla componente assistenziale dell'assegno di divorzio anche per il futuro, per la serietà che deve essere impressa al nuovo impegno, anche se non formalizzato, e per la dignità da riconoscere alla nuova formazione sociale». Quindi, in definitiva, il divorzio segna anche la fine dell'obbligo assistenziale, che non può più trovare giustificazione nel verificare la sussistenza di mezzi adeguati a mantenere il medesimo pregresso tenore di vita coniugale (che può, tutt'al più giustificarsi in sede di separazione, si veda, al riguardo, Cass. civ., n.16982/2018), bensì trova il suo fondamento nella funzione perequativo-compensativa dell'assegno divorzile, in quanto l'inadeguatezza dei mezzi e l'incapacità del coniuge di procurarseli per ragioni oggettive, secondo il dettato dell'art.5, l. 898/1970, deve essere (per usare le stesse parole della sentenza n.18287/18) riconducibileeziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari, in relazione alla durata del matrimonio e all'età del richiedente, e, quindi, derivi dal sacrificio di aspettative professionali e reddituali fondate sull'assunzione di un ruolo consumato esclusivamente o prevalentemente all'interno della famiglia e dal conseguente contributo fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell'altro coniuge. In tal modo, la valutazione di adeguatezza si fonda sul principio di solidarietà che, l'unica a sopravvivere alla dissoluzione del vincolo coniugale, poggia sul cardine costituzionale della pari dignità dei coniugi (art.2, 3 e 29 Cost.), in tal modo evitando il formarsi di rendite parassitarie che pregiudicano anche la possibilità, per gli ex coniugi, di compiere libere e nuove scelte di vita (così, la sentenza in commento). Significativo al riguardo, ed in coerenza, con i principi di autoresponsabilità e di solidarietà post-coniugale, è l'accenno ad una forma di assegno temporaneo in funzione compensativa ed in relazione al contributo fornito dal coniuge richiedente delimitato temporalmente alla formazione del patrimonio familiare, oggetto di disegno di legge ed in conformità agli altri ordinamenti europei, ovvero all'applicazione, seppur su accordo delle parti, di una forma rateizzata dell'assegno una tantum, previsto dall'art.5 comma 6, l. 898/1970,che il Giudice dovrebbe favorire anche in sede di conciliazione o attraverso forme di mediazione familiare. In definitiva, la Suprema Corte, lungi dallo snaturare l'importanza di scelte responsabili che danno vita ad un nuovo nucleo familiare portatore di interessi giuridicamente rilevanti e di doveri di reciproca assistenza e cura, tende ad escludere l'incidenza automatica di tale accertamento sul diritto di mantenimento, spostando l'attenzione sul filo della solidarietà post-coniugale, assottigliato dalle scelte della vita ma non per questo del tutto reciso, può servire, in virtù di quel contributo dato in passato alle fortune familiari e mai retribuito, a fondare il diritto ad un assegno, purché beninteso sussistano gli altri requisiti e con le difficoltà che si accompagnano, sul piano probatorio, ad apprezzare il contributo dato alla formazione delle fortune familiari e dell'altro coniuge a distanza di tempo. E conclude fornendo i criteri che sul piano probatorio ricadono sul coniuge richiedente e che il Giudice deve valutare per il riconoscimento della componente compensativa dell'assegno: 1) la sussistenza del prerequisito fattuale della mancanza di mezzi adeguati dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante endofamiliare; 2) la durata del rapporto matrimoniale, quale fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell'altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche alla luce dell'età del coniuge richiedente e della conformazione del mercato del lavoro; 3) il regime patrimoniale prescelto in costanza di matrimonio: al fine di verificare se l'esigenza di riequilibrio non sia già, in tutto o in parte, coperta ed assolta da tale scelta: giacché, se i coniugi avessero optato per la comunione legale, ciò potrebbe aver determinato un incremento del patrimonio del coniuge richiedente tale da escludere o ridurre la necessità compensativa; 4) l'esistenza di eventuali attribuzioni o di introiti che abbiano compensato il sacrificio delle aspettative professionali del richiedente e realizzato l'esigenza perequativa (Cass. n. 4215/2021). Il richiedente potrà ricorrere al sistema delle presunzioni, nel rispetto del paradigma di gravità, precisione e concordanza (in questo senso Cass. n. 21228/2019, che precisa, condivisibilmente, che il giudice di merito non potrà presumere, puramente e semplicemente, che il non aver uno dei due coniugi svolto alcuna attività lavorativa sia da ascrivere ad una scelta comune dei coniugi, e neppure che il non aver svolto attività lavorativa abbia di per sé sicuramente giovato al successo professionale dell'altro coniuge). In definitiva, la Suprema Corte, consapevole delle difficoltà interpretative e costretta dalle evoluzione sociale a dare giustificazione alla perdurante sopravvivenza di obblighi giuridici pur difronte alla cessazione definitiva di uno status giuridico, si pone sul solco dell'orientamento giurisprudenziale recente in materia di assegno divorzile, fornendo una interpretazione costituzionalmente evolutiva del principio di solidarietà alla luce del principio di autoresponsabilità e di equa dignità dei ruoli coniugali. Acclama, tuttavia, a gran voce un adeguamento del legislatore, latitante sul punto, al fine di parificare l'ordinamento italiano a quello degli altri Paesi Europei. Staremo, quindi, in attesa di un intervento chiarificatore che possa alleviare il Giudice dal difficile compito di valutare ed accertare situazioni estremamente delicate e complesse e foriere di lunghe e defatiganti liti giudiziarie. Riferimenti
I. Grimaldi, Paolo Corder, Trattato Operativo di Diritto di Famiglia, Sant. Arcangelo di Romagna; B. De Filippis, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, Milano. |