La posizione della Corte di Giustizia sugli obblighi di monitoraggio
22 Febbraio 2022
Premessa
Con sentenza del 27 gennaio 2022, causa C-788/19, la Corte di Giustizia ha censurato la normativa spagnola relativa all'obbligo, per i soggetti residenti, di presentare il c.d. “Modello 720” (equipollente spagnolo al quadro RW della dichiarazione italiana). In particolare, la Corte, a seguito di un esame delle conseguenze, anche sotto il profilo sanzionatorio, derivanti dall'inosservanza degli obblighi dichiarativi prescritti dall'ordinamento iberico, ha ritenuto che le misure adottate eccedessero quanto necessario al perseguimento degli obiettivi di tutela dei controlli fiscali e di contrasto all'evasione e all'elusione fiscale e ha, quindi, concluso per la contrarietà delle stesse rispetto al principio di libera circolazione dei capitali. Le valutazioni effettuate dal giudice europeo, in funzione di tale decisione, suggeriscono diversi spunti di riflessione, non limitati al sistema spagnolo ma estendibili anche all'impianto normativo nazionale in materia di obblighi di monitoraggio fiscale. La normativa spagnola
Su impulso della Commissione europea, la Corte di Giustizia è stata chiamata ad esaminare la normativa fiscale spagnola che impone la presentazione del c.d. “Modello 720”. L'analisi è stata incentrata sulla Ley 58/2003 General Tributaria che prevede, a carico dei soggetti passivi residenti, l'assolvimento di determinati obblighi dichiarativi in relazione a conti, titoli, beni immobili (e diritti su beni immobili) localizzati all'estero, al cui inadempimento sono riconnesse conseguenze particolarmente gravose. L'ordinamento spagnolo prevede, infatti, che i residenti in Spagna, che omettano di dichiarare o dichiarino in modo inesatto o tardivo i beni e i diritti da essi detenuti all'estero, siano esposti alla rettifica dell'imposta dovuta sulle somme corrispondenti al valore di tali beni o di tali diritti (qualificati alla stregua di “plusvalenze patrimoniali non giustificate”), anche qualora questi ultimi siano stati acquistati nel corso di un periodo di imposta già prescritto. Gli stessi soggetti soggiacciono, inoltre, all'irrogazione automatica di una sanzione proporzionale (fissata nella misura del 150 per cento dell'imposta calcolata sulle somme corrispondenti al valore dei diritti o dei beni situati all'estero) nonché all'applicazione cumulativa di sanzioni forfettarie specifiche (in relazione a ciascun dato o a ciascuna categoria di dati non dichiarati o falsamente dichiarati), più rigorose rispetto a quelle previste dal regime sanzionatorio generale per infrazioni simili. La decisione della Corte
Vista la descritta impostazione, la Corte di Giustizia ha ritenuto che la normativa spagnola comporti, di fatto, una illegittima restrizione ai movimenti di capitali. Al riguardo, la Corte ha osservato che il prescritto obbligo di dichiarare i beni o i diritti situati all'estero – mediante il “Modello 720” – unitamente alle sanzioni collegate all'inosservanza o all'adempimento inesatto o tardivo di tale obbligo, non hanno equivalenti per quanto riguardava i beni o i diritti situati in Spagna. La normativa descritta istituisce, quindi, ad opinione della Corte, una disparità di trattamento tra i residenti in Spagna, a seconda del luogo di localizzazione dei loro attivi, profilandosi, nel concreto, idonea a dissuadere, impedire o limitare le possibilità degli investitori residenti in Spagna di investire in altri Stati membri.
Pertanto, pur riconoscendone la funzionalità a garantire l'efficacia dei controlli fiscali e contrastare l'evasione e l'elusione fiscale, la Corte ha valutato le norme attenzionate non proporzionate. Più nel dettaglio, da un lato, la Corte ha riconosciuto che, nonostante l'esistenza di meccanismi di scambio di informazioni o di assistenza amministrativa tra gli Stati membri, il livello di informazioni di cui dispongono le autorità nazionali, relativamente agli attivi che i loro residenti fiscali detengono all'estero, è, complessivamente, inferiore a quello di cui esse dispongono in merito agli attivi situati nel loro territorio. Dall'altro, tuttavia, la stessa Corte non ha potuto esimersi dal convenire sulla sproporzione delle misure adottate rispetto agli obiettivi perseguiti.
In particolare, la sproporzione, secondo quanto rilevato in sentenza, sarebbe da ravvisarsi in talune conseguenze riconnesse all'inadempimento o all'adempimento inesatto o tardivo degli obblighi in parola, ovvero:
La Corte di Giustizia ha, quindi, concluso che il Regno di Spagna fosse venuto meno agli obblighi su di esso incombenti ai sensi dell'art. 63 TFUE (nonché dell'art. 40 dell'accordo sullo Spazio economico europeo del 2 maggio 1992) e ne ha disposto la condanna alle spese.
Osservazioni
Alla luce delle conclusioni cui è pervenuta la Corte di Giustizia e dei principi espressi nella sentenza in commento, sovvengono alcune riflessioni in ordine alla disciplina normativa, prevista dall'Italia, in relazione al quadro RW della dichiarazione dei redditi. Sulla base delle norme nazionali, infatti, i soggetti fiscalmente residenti in Italia (persone fisiche, enti non commerciali e società semplici) sono tenuti a adempie annualmente agli obblighi di monitoraggio fiscale di cui all'art. 4 del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, indicando nel quadro RW della dichiarazione dei redditi gli investimenti e le attività finanziarie detenuti all'estero. All'omesso o inesatto adempimento di tali obblighi, l'ordinamento nazionale riconnette determinate conseguenze nonché l'irrogazione di specifiche sanzioni. Ebbene, secondo quanto rilevato da più parti, proprio in riferimento a tali sanzioni potrebbero venire in rilievo taluni profili di criticità. L'impianto sanzionatorio prescelto dall'Italia è, certamente, diverso da quello spagnolo. Le sanzioni non sono commisurate all'imposta ma all'ammontare degli investimenti detenuti all'estero ed oscillano tra i 3 e il 15 per cento dell'imponibile non dichiarato quando le attività sono detenute in paesi non black listed.
Tali sanzioni, tuttavia, si raddoppiano nelle ipotesi in cui le disponibilità non dichiarate siano localizzate in paradisi fiscali: in base a quanto disposto dagli artt. 12 del D.L. n. 78/2009 e 5 del D.L. n. 167 cit., le violazioni in parola possono comportare l'applicazione di una sanzione compresa tra il 6 e il 30 per cento dell'imponibile in aggiunta ad una ulteriore sanzione compresa tra il 180 e il 360 per cento della maggior imposta presunta (o, addirittura, tra il 240 e il 480 per cento nei casi di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi). Nelle stesse casistiche, inoltre, i termini per l'accertamento sono raddoppiati in favore dell'Amministrazione finanziaria. È chiaro che un'impostazione di questo tipo, per il suo carattere fortemente afflittivo, presti il fianco a censure poiché, potenzialmente, contraria al principio di libera circolazione dei capitali che la stessa CGUE ha ritenuto applicabile anche a Paesi diversi dagli Stati membri dell'UE (cfr. sentenza del 15 febbraio 2017, causa C-317/15).
Diversi dubbi sono stati, inoltre, avanzati proprio sull'imposizione di tali obblighi dichiarativi (nonché sulla misura delle sanzioni irrogate) in riferimento alle attività detenute in Paesi che abbiano aderito allo scambio automatico di informazioni con l'Italia. Allo stato, quindi, il dibattito resta aperto e, con ogni probabilità, il tema costituirà oggetto di discussione nelle opportune sedi giurisdizionali. |