Il risarcimento del danno da privazione parentale

Armando Cecatiello
07 Marzo 2022

Quali sono le condizioni e i criteri per il risarcimento del danno da privazione paterna?
Massima

Può ritenersi ipso iure consumato il danno ai minori consistente nella deprivazione della figura paterna, qualora il comportamento omissivo del genitore, sia dal punto di vista morale che materiale, leda il principio di bigenitorialità

Il caso

La ricorrente ricorreva al Tribunale di Bari al fine di far dichiarare la cessazione degli effetti civili del proprio matrimonio. Poiché ne sussistevano i presupposti di legge, chiedeva che il Tribunale adito accogliesse la sua domanda confermando le condizioni della separazione ma, a causa del reiterato inadempimento di suo marito, riservava di richiedere l'emissione di provvedimenti de potestate, insisteva affinché l'obbligato prestasse idonea garanzia per l'adempimento degli impegni di natura economica. Lamentava, infatti, che suo marito perseverava in un atteggiamento di totale inadempimento economico e di disinteresse educativo nei confronti dei figli al punto tale di non contribuire per la sua pare alle spese straordinarie. Per questo motivo, la ricorrente perciò esigeva un credito di circa € 4.890,00 nei confronti del marito.

Il marito si opponeva alla declaratoria ex adverso richiesta. Contestava la prospettazione dei fatti deducendo che nel periodo di vita familiare, fino a quando aveva lavorato, aveva sempre contribuito generosamente al benessere comune. Non negava il suo inadempimento alle prescrizioni economiche della separazione ma ciò, a detta dello stesso, non inficiava la sua piena capacità genitoriale; conclusivamente, aderiva alle richieste di controparte tranne che a quella di garanzia.

La questione

Quali sono le condizioni e i criteri per il risarcimento del danno da privazione paterna?

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Bari, in prima battuta, dispone l'affido esclusivo dei figli in capo alla madre. A sostegno della propria scelta, i giudici baresi richiamano la consolidata giurisprudenza di legittimità sulla deroga all'affido condiviso. Quest'ultimo può essere derogato infatti laddove una sua applicazione risulti pregiudizievole per il minore, dovendosi così motivare la decisione di affidamento esclusivo non solo in positivo sull'idoneità del genitore affidatario, ma anche sull'inidoneità educativa dell'altro genitore. Giustificata, sempre per la giurisprudenza richiamata dal Tribunale di Bari, anche dalla condotta del genitore non affidatario che abbia esercitato in modo discontinuo i suoi diritti nei confronti del minore e si renda inadempiente all'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento in favore dei propri figli.

A fronte della giurisprudenza richiamata i giudici hanno ritenuto che a favore del regime dell'affidamento esclusivo deponga non solo il disinteresse morale del padre nei confronti del figlio ma anche quello materiale. Il convenuto, infatti, non incontrava da tempo i propri figli né corrispondeva loro il mantenimento previsto nonostante prestasse attività lavorativa e percepisse il canone locativo di un immobile di sua proprietà. Inoltre, nel corso del processo, il convenuto non ha dato dimostrazione in positivo di quanto dedotto dalla moglie, dal momento che non poteva gravare sulla stessa un onere probatorio a contenuto negativo.

In aggiunta, il Tribunale ritiene che il comportamento omissivo del padre abbia leso il principio della bigenitorialità. Per questo motivo ha ritenuto ipso iure consumato il danno da privazione paterna in capo ai minori quantificato equitativamente in duemila euro.

Infine, il convenuto è stato condannato al pagamento delle spese processuali.

Osservazioni

L'intera sentenza ruota sul disinteresse del padre, sia dal punto di vista materiale che morale, nei confronti dei propri figli. Se per quanto riguarda l'affidamento condiviso, il Tribunale ha seguito quanto deciso dalla Cassazione nella sentenza n. 16738/2018, il profilo maggiormente interessante della sentenza in esame riguarda sicuramente il danno da privazione paterna. Si tratta di una configurazione dell'illecito endofamiliare c.d. da privazione del rapporto genitoriale, il quale contempla, quale soggetto attivo il genitore che omette di svolgere il ruolo da egli stesso scelto con la procreazione, mentre soggetto passivo diviene il minore, che perde, senza sua colpa, uno dei genitori (si esprime in tal senso Trib. Lecce sez. I, 1 ottobre 2019, n.3024).

Alla luce dei principi enucleatati dalle Sezioni Unite nella nota decisione n. 26972/2008, si era ritenuto che la violazione dei doveri genitoriali nell'ipotesi in cui provocasse la lesione di diritti costituzionalmente protetti, potesse integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c.

Per tali motivi, la giurisprudenza aveva ammesso il risarcimento del danno da privazione paterna nei casi di mancato riconoscimento da parte del padre nei confronti del figlio (Cass. civ., sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ., sez. VI, sent. n. 16 febbraio 2015, 3079). Infatti, il diritto del figlio sorge fin dal momento della nascita ed è valido anche per i figli naturali (ex multis Cass. 22 novembre 2013 n. 26205; Cass. 10 aprile 2012 n. 5652; Cass. 2 febbraio 2006 n. 2328; Cass. 14 maggio 2003 n. 7386).

La sentenza in esame, solamente in ragione del comportamento omissivo del genitore, riconosce, molto sbrigativamente, ipso iure il danno in capo ai minori. Il Tribunale, tuttavia, non considera che per l'adozione della misura risarcitoria ai sensi dell'art. 709-ter c.p.c. devono sussistere i presupposti tipici del rimedio risarcitorio, e cioè la sussistenza di un concreto pregiudizio, e il nesso di causalità tra la condotta illecita e il pregiudizio stesso. In mancanza di questi, un determinato comportamento lesivo non può essere sanzionato attraverso i rimedi dell'ammonizione e della sanzione pecuniaria (In tal senso si veda Trib. Modena II, 17 settembre 2012, n. 1425; Trib. Firenze 7 maggio 2012; Trib. Ascoli Piceno 21 maggio 2015).

Ritenendo il danno in re ipsa consumato, il Tribunale di Bari sembra non considerare quanto statuito dalle Sezioni Unite proprio in tema di danno non patrimoniale nel 2008. L'art. 2059 c.c., non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c., in particolare la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso. Seguendo l'indicazione della Suprema Corte «Il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale, non può essere considerato "in re ipsa", ma deve essere provato secondo la regola generale dell'art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell'alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell'esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico» (Cass. 29 gennaio 2018, n. 2056, Cass.9 novembre 2018, n. 28742).


Proprio in base a tale ricostruzione, la Cassazione ha accolto l'impostazione della Corte d'Appello di Firenze che aveva negato il risarcimento di un danno morale in un caso simile a quello in esame. Mancava infatti una prova concreta circa l'effettiva sussistenza del danno, non essendo stati provati i danni psico/fisici a carico del minore (Cass. civ. sez. I, 26 giugno 2019 n.17164). In termini simili si è anche pronunciata il Tribunale di Savona (Trib. Savona, sent. del 13 gennaio 2020, n.50).

La sentenza in esame pare dunque porsi in discontinuità rispetto alla giurisprudenza consolidata. Il mancato interesse del padre non può essere sufficiente a liquidare il danno endofamigliare, dovendosi per l'appunto provare il pregiudizio concreto sofferto dai figli.

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