“L'Orologio degli Dei” e le sue lancette: electa una via, non datur recursus ad alteram
14 Aprile 2022
La questione
La Corte costituzionale, all'udienza del 15 febbraio 2022, ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale dell'art. 579 c.p. (Omicidio del consenziente), dichiarata legittima dall'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 15 dicembre 2021.
Più esattamente, il restyling proposto dal Comitato promotore è, anzi, era il seguente:
Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell'articolo 61.
Si applicano le disposizioni relative all'omicidio se il fatto è commesso:1. contro una persona minore degli anni diciotto; 2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3. contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.
Negli otto paragrafi del «Ritenuto in fatto»,la Corte costituzionale riassume il sensodel quesito referendario e la voluntas con esso (mal) espressa dal Comitato promotore.
Ivi si legge al § 4.1: «La richiesta sarebbe ancorata a una “matrice razionalmente unitaria”, idonea al raggiungimento dello scopo dichiarato e anche esaustiva, essendo incentrata sulla sola e unica fattispecie penale dell'omicidio del consenziente».
Già qui s'individua la prima fonte di tensione: pur involgendo (formalmente) il solo art. 579 c.p., la tecnica del ritaglio (appare sin da subito azzardato negarne la natura manipolativa in senso stretto) non investirebbe (la coniugazione non segue ancora e volutamente la declaratoria di inammissibilità) solo l'art. 579 c.p. Ma anche l'art. 575 c.p. e, ancor prima, gli artt. 2 e 3 Cost., in uno agli artt. 2 e 8 Cedu.
Si annusa già la fragranza (la bellezza del contraddittorio si manifesta pure così) di chi obietterebbe (l'opzione temporale va confermata) che tali norme consacrino il diritto di disporre della propria vita. E la libertà di porvi fine, anche – anzi, soprattutto, questo (?) essendo il cuore della questione, il principio di uguaglianza sostanziale apparendone (ma non è) la incarnazione – quando non si è in grado di farlo autonomamente. E dunque di chi continuerebbe a sostenere che esse rappresentino il volano della proclamata (ed “ecceduta”) eutanasia. Proclamata, sì, ma non tecnicamente ben configurata.
Perdoni il Sig. Lettore se fin da subito s'intercalano le proprie considerazioni, ma è perché fin da subito la veste grafico-letterale all'art. 579 c.p. affibbiata ne ha tradito le pur buone intenzioni. Ciò di cui il referendum proposto si è rivelato pessimo vettore.
Diverte che talvolta il diritto scritto si atteggi a Giano.
Ma non in questo caso. Certamente non in questo caso.
«Il quesito», prosegue la Corte ricordandone la genesi, «non presenterebbe neppure un asserito taglio manipolativo: la sua formulazione e l'esito cui si intenderebbe pervenire – l'eliminazione della fattispecie dell'omicidio del consenziente – ne confermerebbero, infatti, la natura meramente ablativa, “niente affatto innovativa o tantomeno sostitutiva di norme”».
C.v.d. E valga quanto sopra. Per ora.
Si legge al § 4.2: «(…) la difesa dei promotori (…) ricorda, da un lato, che eventuali criticità o profili di illegittimità costituzionale della normativa di risulta non potrebbero condurre, per ciò solo, a una dichiarazione di inammissibilità del quesito e, dall'altro, che questa Corte, pur non potendo compiere in sede di valutazione di ammissibilità del referendum abrogativo un giudizio anticipato di legittimità costituzionale, ben potrebbe rivolgere specifiche indicazioni al legislatore, al fine di superare eventuali profili di criticità conseguenti all'abrogazione referendaria».
Sarà. Perché si ricorda che tra i casi “inespressi” di inammissibilità (oltre, non già contro, l'art. 75, comma 2, Cost.) v'è non solo la mancanza di chiarezza e omogeneità del quesito, ma anche la «idoneità dello strumento referendario a raggiungere le finalità della richiesta» (Così Roberto Romboli).
Ma si proceda oltre, si riportino i passaggi salienti della sentenza e si lascino a macerare: solo così e solo al termine si potrà davvero ben argomentare.
Dunque, se le finalità – pur animate dai migliori propositi – si traducono però nel consentire a qualsiasi individuo di por fine alla vita altrui, i profili di criticità conseguenti all'abrogazione referendaria sarebbero (riguardo al modo e al tempo “vige” quanto già rilevato e niente di più al momento vada comunicato) tutt'altro e molto più che «eventuali».
Ci si troverebbe innanzi a una vera e propria babele giuridica, con terribili e imprevedibili precipitati nello strato sociale, al cospetto della quale «la funzione interpretativa dei giudici» non varrebbe affatto a eliminare il «rischio di “allenta[re] per via referendaria” la “cintura di protezione” che questa Corte ha configurato nella più volte citata sentenza n. 242/2019» (v. § 4.4).
Si faccia un passetto indietro e si vada celermente al § 4.3: «I promotori precisano, inoltre, che con l'abrogazione referendaria non verrebbe affatto “totalmente depenalizzata” la condotta dell'omicidio del consenziente, poiché non verrebbe affatto eliminata la rilevanza penale per le ipotesi» di cui all'«attuale art. 579, comma 3, c.p. (…). In altri termini, il presidio penale non verrebbe eliminato, bensì parametrato sulla base di quelle medesime esigenze che questa stessa Corte, fissando le condizioni che renderebbero lecita la condotta dei terzi cooperanti all'attuazione del proposito suicidiario, avrebbe individuato con la sentenza n. 242/2019».
Ni. Anzi no. Perché l'art. 580 c.p., siccome rinnovato, risulta strutturalmente (perché linguisticamente) diverso: non è un caso che la Consulta abbia dichiarato «l'illegittimità costituzionale di questo articolo, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione – agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Il che non equivale affatto a dire semplicisticamente, riduttivamente, temerariamente: Chiunque cagiona la morte col consenso di lui.
Si legge ancora al § 4.3: «Si sottolinea, infatti, come l'odierno quesito referendario si porrebbe in linea di ideale e concreta continuità rispetto a quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 242 del 2019 per l'aiuto al suicidio e, stante la “perdurante inerzia del legislatore” in materia, mirerebbe a superare la punizione di una condotta che, seppur differente rispetto a quella dell'aiuto al suicidio, risulta certamente a essa contigua, se si considerano le analoghe, se non identiche, condizioni in cui versa la persona che richiede di porre fine alla propria vita». La linea di demarcazione c'è, è sottile ma netta e soprattutto nettamente diverso è l'approccio della Consulta nel 2019 (meritevole di plauso), rispetto a quello del Comitato promotore (meritevole di censura).
Non è così che si risveglia chi è dormiente, quando non iperattivo e deludente.
Analogamente, si atteggia a “specchietto per le allodole” quanto subito dopo riferito: «Il quesito referendario mirerebbe, pertanto, anche ad eliminare la discriminazione oggi in atto verso quei malati che “non sono in condizione di ottenere una morte volontaria attraverso l'autosomministrazione del farmaco” e, in tal modo, i profili di irragionevolezza fra le fattispecie dell'aiuto al suicidio, così come risultante dall'intervento di questa Corte, e dell'omicidio del consenziente. Fattispecie che, sebbene differenziate per taluni elementi, risultano omogenee e analoghe, sia rispetto all'esito cui in entrambi i casi si perverrebbe, sia in ordine al rilievo – che questa Corte avrebbe valorizzato nella sentenza n. 242/2019 – della dignità soggettiva personale del paziente (…)».
Falso! Suicidio medicalmente assistito è il vero e solo con esso la dignità soggettiva personale del paziente non subisce alcun compromesso. Ma si dirà meglio infra.
Al ventaglio di argomenti si aggiunge un ventaglio di parole: curiose quanto (lo si confessa) un po' fastidiose. Le «idonee garanzie» sono offerte dalla «interpretazione della giurisprudenza di legittimità formatasi attorno alla fattispecie incriminatrice delle condotte di circonvenzione di incapace di cui all'art. 643 c.p.» al fine di «“intercettare” le ipotesi in cui la capacità della persona di esprimere un valido consenso sia stata in qualsiasi forma condizionata ab externo (…)»: è affermazione contenuta nel § 4.4. ma che non si concilia con il grado sommo di importanza del sommo bene della vita. Evoca genericità e presunzione (che non a caso fa rima con intercettazione), ciò che mal si abbina alla necessità che di omicidi legalizzati si faccia doverosa prevenzione.
E ancora: «Da ciò, si conclude che “tutti quei casi spesso citati per destare perplessità sulla tenuta del quesito referendario, come la delusione amorosa, la crisi finanziaria dell'imprenditore”, sarebbero considerati, in sede processuale, quali circostanze che determinerebbero la contestazione “del comma 3”, e quindi indurrebbe ad escludere che il consenso eventualmente prestato possa considerarsi valido, così determinando l'applicazione del reato di omicidio doloso (…)».
E di nuovo: sarà.
Perché si fa davvero fatica a incastrare talune delle ipotesi citate nel comma 3 delle eccezioni esaltate ma normate. Le uniche che l'acefalo art. 579 c.p. continuerebbe a lasciare inalterate.
Sicuramente «“l'incriminazione costituisce una extrema ratio”» (v. § 4.5), ma non è corretto – pur in distonia con «la più autorevole dottrina (costituzionalistica e penalistica)» – negare «la possibilità di ricavare dal testo costituzionale “degli obblighi positivi di incriminazione”».
D'altronde, il senso del divieto penale è quello di ammonire per evitare poi di punire, pur non potendo impedire che un'azione o omissione si macchi di un tale stigma. Certo.
Ma si tratta di norma la funzione general-preventiva della pena stabilita dalla quale – non tanto quella dell'art. 579 c.p., quanto dell'art. 575 c.p., quest'ultima (rimodulata) essendo l'unica a dover sopravvivere alle intemperie generaliste – spicca su tutte le altre funzioni che si studiano nelle aule universitarie. E dai banchi alla vita vera, il cui orologio rintocca nelle aule di Tribunale, il passo è più lungo. O forse è esattamente lo stesso.
È un po' quel che accade quando si bussa a Strasburgo: bisogna eliminare le sovrastrutture interne e ragionar di Cedu se si vuol camminare sul pavimento blu con le stelline dorate.
A tacer d'altro e, a un rapido sguardo, non v'è norma alcuna della Carta costituzionale che richieda espressamente l'egida penale; ciò nonostante, è assai difficile dubitare che il bene vita – sancito dall'art. 2 anche della Carta convenzionale – non rientri nel “nucleo duro intangibile” perciò fondamentale.
Anche perché la mancanza di obblighi positivi di incriminazione – residuali rispetto al testo della legge che stabilisce chi, quando, come e da chi possa esser “eliminato” – urterebbe tremendamente con gl'immanenti obblighi positivi di protezione.
La effettività, si sa, è uno dei sacri canoni della Europea Convenzione.
E dunque, la trama letterale che esiterebbe dal “taglia e cuci” dal Comitato proposto scatenerebbe una “singolar tenzone”. La si compendi in una favoletta il cui “io” narrativo è posto in capo al Consenziente e questa sarebbe la improvvisata narrazione:
Caro X, parlo e scrivo a te perché ho scelto te, sebbene (lo riconosco) non sappia nemmeno io il perché. Non aver paura se ti chiedo di uccidermi. Hai capito bene. Non indagare sulla ragione, fidati della mia risoluzione: essa è patita, consapevole, ponderata e non subirà modificazione. Sono io a giurarti che è tale; sono io che te lo chiedo ed è della mia vita – non della tua – che si dispone. Di cui a breve disporrai solo tu. Anche se non soffro (secondo te), perché soffro (secondo me), ma proprio perché ormai son grande – ho appena spento le diciotto candeline – e dunque ho il pieno possesso delle mie facoltà mentali (se stessi male davvero, saresti davvero in grado di escludere che questo dolore abbia viziato il mio consenso? Non temere, è un dubbio irragionevole), ebbene sì, dicevo e te lo ripeto: puoi uccidermi. Ehi tu! Sì, dico proprio a te. Uomo o donna qualunque, chiunque tu sia, è tutto nelle tue mani, perché a te compete (anche se competente non sei a) decidere se acconsentire a togliermi la vita. Ma poi il consenso non era il mio? Ad ogni modo, non preoccuparti, saranno ben pochi e assai sfuggenti i verdetti dei Decidenti. O addirittura assenti grazie al referendum quel dì firmato e votato dai tanti che hanno condiviso, realmente compreso e infine sedato i miei tormenti. E se (i)scriveranno gl'Inquirenti, escludo che dei Tribunali si apriranno i battenti. Se invece le mie previsioni usciranno perdenti, a suon di perizie e consulenze le parti calpesteranno carboni ardenti. Epperò, vedrai che i primi, i secondi, finanche i Supremi Scriventi onoreranno la mia memoria e la tua buona azione sarà dichiarata conforme agl'intenti. In fondo, sei stato da me così istigato. Scusa. Volevo dire che il tuo sentimento è stato annebbiato ed edulcorato. Scusa ancora: (im)motivato. E tutto scorrerà via in un fiat (o un Amen blasfemo?), prima del quale sono stato e un istante dopo del quale – Puff – non sarò più. Addio (si dice ancora così?) e grazie. “No more tears”. Sia pace nella tua e loro coscienza quaggiù.
La voce narrante s'è desta e alla sentenza che commenta ritorna lesta.
E proprio grazie ai Cavalier Crociati è – almeno per ora – cessata la tempesta.
Con sentenza n. 50, emessa il 15 febbraio 2022, all'esito della Camera di Consiglio di pari data e depositata il 2 marzo successivo, Presidente Amato, Redattore Modugno, la Corte costituzionale ha così deciso: «dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, dell'art. 579 c.p. (Omicidio del consenziente) (…)».
Felicissima è già la prima considerazione svolta in punto di ammissibilità.
Si veda il § 3 del «Considerato in diritto»: «Per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di “verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall'art. 75, comma 2, Cost., attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall'interpretazione logico-sistematica della Costituzione (…): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell'operazione referendaria (…). Quel che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una “valutazione liminare ed inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se […] il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all'applicazione di un precetto costituzionale” (…)».
Appunto. Risplende e impone rispetto l'art. 2 Cost. it. e Cedu, pertanto valga sempre quanto già detto.
E quel che è pure qui riportato. Ciò che invece non ha affatto caratterizzato il quesito, volto a introdurre qualcosa di ben diverso dalla eutanasia correttamente intesa e (anzi, proprio perché) rigidamente disciplinata.
Riecheggia la previsione ottimistica (ormai illusoria) contenuta nel § 4.4 del «Ritenuto in fatto»: «(…) la difesa dei promotori ritiene che in caso di abrogazione per via referendaria, e ancor prima dell'intervento del legislatore, assumerebbe decisiva importanza la funzione interpretativa dei giudici e non vi sarebbe nessun rischio di “allenta[re] per via referendaria” la “cintura di protezione” che questa Corte ha configurato nella più volte citata sentenza n. 242/2019».
Un esempio di inversione perfettamente sbagliata.
Rectius: non fisiologica, perché disarmonica rispetto alla naturale progressione delle fasi: la scansione Referendum → Giudici → Legislatore (de)genera in/un'acrobazia rovinosa. Azzardando un paragone con il processo penale, sarebbe quasi come anteporre un incidente d'esecuzione alla cognizione e, ancor prima (ancor peggio), alla norma del diritto sostanziale. Detto con maggiore impegno esplicativo, pur confidando nella sensibilità di chi è (deve essere) Magis ter competente, il rischio concreto è di diluire la tutela non già dei soggetti la cui fragilità è elevata an ma dei soggetti “normo-dotati”.
Il che sarebbe un paradosso.
Non solo perché si finirebbe col mancare il target – «idoneità a conseguire il fine perseguito» – mirato dai promotori per reagire (bendati) all'inerzia legislativa, ma anche e soprattutto perché chi non è persona minore degli anni diciotto, inferma di mente, o che non si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti, o il cui consenso non sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno potrebbe chiedere a chiunque di ucciderlo.
E chiunque sarebbe autorizzato a farlo, passando indenne per i corridoi delle Procure.
Ora, non si ceda alla tentazione che il suono di questi ultimi incisi produce e che indubbiamente suscita orrore, poiché ciò che si esige da chi mette le “mani in pasta” è di essere lucidi, neutrali – non già sterili – tecnici e, dunque, umani.
Cambiando l'ordine degli addendi, il risultato non muta e si chiama Giustizia.
E infatti, quale che sia l'angolazione prospettica che si sceglie, il paradosso è davvero innegabile: chi si trova in condizioni di vulnerabilità sarebbe protetto a priori da una norma eventualmente male applicata da chi a posteriori subirebbe l'azione penale. Tuttavia, “in disparte” la difficoltà tutta processuale di dimostrare se una minorazione abbia in qualsiasi modo inficiato il consenso di chi ha espresso il desiderio di morire per mano altrui – il che non è certo di poco conto – il dato di maggiore pregnanza sarebbe un/ben altro: chi avesse prestato tale consenso non potrebbe più tornare indietro.
E allora, v'è da chiedersi chi abbia il diritto di eleggere una via e se, dopo averla percorsa, residui il potere di cambiarla.
Naturalmente non il soggetto passivo (o attivo?), altrimenti detto persona offesa.
Ché, poi, ci si domanda insistentemente: quid iuris nel caso di omicidio mancato e di lesione permanente?
Non si pensi a una declinazione del british humour ma chi avrebbe, anzi chi ha chiesto di essere ucciso e tuttavia resti sfortunatamente in vita per una cattiva e dunque negligente, imprudente o imperita azione/omissione (si ostina a disegnare un camice bianco la mente), potrebbe agire contro il cattivo esecutore e ottenere un risarcimento? A che titolo? E chi avrebbe titolo, per esempio, nel caso di soggetto rimasto cerebroleso? Residuerebbe un margine di responsabilità penale per l'ipotesi tentata rispetto all'assoluta liceità della fattispecie consumata? Rappresenterebbe una veste nuova ma informe e contraria dell'art. 586 c.p.?
E il consenziente chi sarebbe? Il “mandante”/istigatore? Bizzarra l'eco dell'art. 580 c.p. nell'orchestra diretta da Corte cost. n. 242/2019. Si potrebbe configurare l'ipotesi dell'“autore mediato” e in capo a chi? Si tratterebbe di un concorso doloso in reato colposo, una strana forma dell'art. 117 c.p. ovvero, ancor prima, “anomala”? E quale risulterebbe il reato più grave?
Assurdità sofistiche, lo si ammette, ma l'incubo resta un sogno da cui ci si è svegliati solo il 15 febbraio 2022. È proprio la Corte costituzionale, nel § 3.1, a sentenziare: «Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell'atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una “cintura di protezione” indiretta rispetto all'attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale».
Già. Il fatto è che il timore della notte attanaglia ancora e ad ampio spettro.
Hic et nunc, però, si approda al “porto sicuro” del § 3.2: «Il risultato oggettivo del successo dell'iniziativa referendaria sarebbe dunque quello di rendere penalmente lecita l'uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l'incapacità dell'offeso o per un vizio della sua formazione». In definitiva, quindi «il testo risultante dall'approvazione del referendum escluderebbe implicitamente, ma univocamente, a contrario sensu, la rilevanza penale dell'omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi: sicché la norma verrebbe a sancire, all'inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo. L'effetto di liceizzazione dell'omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili (…).
Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (…). Né può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore e non indotto da suggestione».
Esatto.
Puntuale appare il prosieguo motivo che, quadrando il cerchio, merita anch'esso di essere riferito testualmente: «3.3. – Al riguardo, non può essere, infatti, condivisa la tesi sostenuta dai promotori (…): porterebbe a ritenere che, ai fini della non punibilità dell'omicidio del consenziente, il consenso dovrebbe essere espresso nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (…) e in presenza delle condizioni alle quali questa Corte, con la citata sentenza n. 242/2019, ha subordinato l'esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio, di cui all'art. 580 c.p., non attinto dal quesito referendario (di modo che il consenziente dovrebbe identificarsi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche per lei assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli. A frontedella limitazione della rilevanza penale dell'omicidio del consenziente alle sole ipotesi espressamente indicate dall'attuale terzo comma dell'art. 579 c.p., nulla autorizzerebbe a ritenere che l'esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della “procedura medicalizzata” prefigurata dalla legge n. 219/2017 per l'espressione (o la revoca) del consenso a un trattamento terapeutico (o del rifiuto di esso)».
Per l'appunto.
Allora forse, come spesso accade, la soluzione (mai suggestione) è di chi la realtà con gli occhi da bambino fa oggetto della propria osservazione. Compresa la Corte pronta (stavolta) a sventolare il vessillo che è (Av)vocata a preservare: la nostra Costituzione.
Sia dunque consentito il rinvio alla propria esternazione: «È per questa ragione che condivido quanto sostenuto dalla Corte costituzionale portoghese e che sempre Romboli riporta nella sua relazione: «solo circoscrivendo adeguatamente le ipotesi di eutanasia medicalmente riconosciuta si possono soddisfare i requisiti di certezza del diritto, tenendo in conto il dovere di protezione derivante dalla inviolabilità della persona umana e salvaguardando però il nucleo di autonomia inerente alla dignità di ogni persona (sent. 123/2021)».
Non è un caso che l'art. 1 l. n. 219/17, al comma 2 rechi una espressione particolarmente significativa: È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico (…).
Con ritardo imperdonabile e, nella versione approvata dalle Commissioni II e XII il 9 dicembre 2021, è finalmente giunto alla Camera il 13 dicembre successivo», con esito positivo il 10 marzo 2022, ora al vaglio del Senato con n. 2553, «il d.d.l. che reca Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita (…). Ne urge l'approvazione – condivido appieno il pensiero di Andrea Pugiotto quando scrive che il referendum abrogativo non è uno ““stimolo” a Governo e Parlamento” (…); così non può che essere ancora, in assenza di una legge che stabilisca esattamente le modalità – farmaco da somministrare e tecnologia applicativa – per dare esecuzione alla decisione di Mario», il camionista di 43 anni (diconsi quarantatré) così chiamato con nome di fantasia, che ha ottenuto il primo Sì del Comitato etico dell'ASL (delle Marche) al suicidio medicalmente assistito in Italia.
Altre strade non “s'hanno” da percorrere, perché condurrebbero a un vicolo cieco.
E “Mario” è chiunque sia in grado di – perché a un livello di sofferenza tale da – decidere di morire, perché rientra nelle condizioni normativamente previste e lo chiede (non essendo fisicamente in grado di farlo motu proprio) a chi – non a chiunque – è deputato, per vocazione professionale, a consentire al suicidio.
A eseguire con mano propria la chiara, matura e definitiva volontà altrui.
Qui gli addendi cambiano, eccome. Così come il risultato. E solo così il risultato rispecchia il nobile desiderio altruistico (se e finché il clinamen della vita non è ostile a sé) di tagliare i fili a chi è inCappato nel burattinaio sordido: il proprio corpo, ergastolo disumano e inaccettabile. Altre circostanze, soggettivamente e oggettivamente, sono e devono rimanere ostative.
C'è ancora molto da fare, il “tetrafarmaco” somministrato da Corte cost. n. 242/2019 lenisce ma non guarisce.
Ed è per questo motivo che in altra sede (sia consentito di nuovo il rinvio) ci si è chiesti se il formante legislativo in fieri sia sufficiente, «perché lo è solo se le modalità concretamente attuative della morte volontaria possono rientrare nella/cioè sono proprio quelle che incarnano la previsione dell'art. 9 comma 1: Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto (…), lett. b): definisce i protocolli e le modalità per la prescrizione, la preparazione, il coordinamento e la sorveglianza della procedura di morte volontaria medicalmente assistita.
Se così non è, si tratta di un vuoto che necessita di essere colmato con somma urgenza.
Se così invece è, il testo normativo – una volta approvato – sarebbe l'unico strumento con cui di eutanasia si possa (e debba) parlare, rendendo perciò stesso inutile (e tremendamente dannoso) il mantenimento tout-court dell'art. 579 c.p.».
Ed ecco perché si ritiene, anche adesso, che il quesito referendario dicesse troppo o troppo poco:
In buona sostanza, proporrei una q.l.c. dell'art. 575 c.p. per chiedere una manipolativa di tipo additivo che permetta a tale disposizione di presentarsi così: (…) 2. Le disposizioni del comma 1 non si applicano se il fatto è commesso in caso di morte volontaria medicalmente assistita. 3. Le disposizioni del comma 1 si applicano nei confronti di chiunque cagioni la morte di un individuo, pur con il suo consenso e fuori dalla ipotesi di cui al comma 2, se il fatto è commesso: a) Contro una persona minore degli anni diciotto; b) Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; c) Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.
In tal modo, si otterrebbe un altro risultato, certamente non di poco momento per l'imputato che si troverebbe – da “definitivo” – a scontare la pena: la omogeneizzazione del trattamento sanzionatorio tra chi uccide (“puramente e semplicemente”) e chi uccide il consenziente fuori dal perimetro della assistenza medica (ad ampio raggio) e in tutte le ipotesi residuali. Omogeneizzazione in malam partem, me ne rendo conto, ma alla luce dell'art. 3 Cost. direi per l'ennesima volta: tant'è.
Se posso e devo essere sincera fino in fondo, sappiate che proprio ora mi sto chiedendo se l'ipotetico comma 3 abbia ragione d'esistere. Forse basterebbe il comma 2: porrebbe in maniera più netta l'aut-aut. Una terza previsione sarebbe miccia sul piano squisitamente processuale: non nella ipotesi di cui alla lettera a), chiaramente, ma nelle altre due sì.
Mi proietto in aula e vedo già le scene di una guerra tra periti e consulenti tecnici, soprattutto.
V'è chi ha detto che non si deve distinguere tra offesi “ordinari” e fragili/vulnerabili: ogni persona offesa è fragile e vulnerabile. Per definizione. Sono d'accordo. Forse si potrebbe persino paventare qualche problema di coordinamento con gli artt. 576 e 577 c.p.: chi uccide – poniamola così – il tipo di soggetto fragile o vulnerabile al quadrato di cui ci stiamo occupando potrebbe meritare un'aggravante di pena o perfino l'ergastolo? Mi sembra di ampliare troppo il thema decidendum… et disputandum (se fosse previsto l'ergastolo, conseguirebbe un ulteriore effetto di enorme importanza: la preclusione d'emblée del rito abbreviato); di certo, però, non lascerei sopravvivere l'art. 579 c.p. come reato autonomo. Dati i rischi enormi connessi a proposte referendarie come quella (e del tipo di quella) di cui si sta discutendo». We care…
Il che non comporta il dovere di vivere, bensì ciò che la Corte costituzionale – citando sé stessa (ordinanza n. 207/2018 e sentenza n. 242/2019) – specifica in calce al § 5.2: «(…) il diritto alla vita (…) è il “primo dei diritti inviolabili dell'uomo” (sentenza n. 223/1996), in quanto presupposto per l'esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all'individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”».
D'altronde, è fin troppo noto l'arresto Pretty vs. Regno Unito, siglato da Corte EDU, Sez. IV, 29 aprile 2002, ricorso n. 2346/02: «14 (…) Lord Bingham of Cornhill emise il verdetto principale nel caso The Queen on the Application of Mrs Diane Pretty (Appelant) c. Director of Public Prosecutions (Respondent) and Secretary of State for the Home Department (Interested Party), esprimendosi così: “una distinzione, ritenuta particolarmente importante, è quella che esiste fra il fatto di mettere fine ad un trattamento mirante a salvare la vita o a prolungarla, da una parte, e il fatto di compiere un atto privo di giustificazione medica terapeutica o palliativa ma destinato unicamente a mettere fine alla vita, d'altra parte (…)”. (…). In ciò che concerne la doglianza fondata sull'articolo 10 della Convenzione la Commissione proseguiva (paragrafo 17 della sua decisione, p. 272): “La Commissione (…) deve (…) tenere conto (…) dell'interesse legittimo dello Stato a prendere delle misure miranti a proteggere ogni comportamento criminale della vita dei cittadini, particolarmente di quelli vulnerabili in ragione della loro età o dell'infermità. Essa riconosce il diritto dello Stato rispetto alla Convenzione a premunirsi contro gli inevitabili abusi criminali che si produrrebbero in assenza di una legislazione tale da punire l'assistenza al suicidio. Il fatto che nel caso di specie il ricorrente ed il suo associato sembrino essere bene intenzionati non cambia nulla, agli occhi della Commissione, in ragione dell'interesse generale. Questa conclusione non può conciliarsi con l'affermazione secondo la quale il divieto al suicidio assistito è incompatibile con la Convenzione”».
Si presti bene attenzione: dell'interesse generale si faccia corretta interpretazione perché, viceversa, presterebbe il fianco a facile contestazione. È la pretesa a mano aliena a non goder di protezione, della propria vita chiunque potendo, per mano propria, aver disposizione.
Come del momento di estrema unzione.
E chi la propria mano non può usare, da un medico e da una procedura stringente può e deve farsi aiutare. Di inestimabile valore è la sua libertà, giacché altrui responsabilità.
Tant'è che la Corte di Strasburgo così concluse: «39. In tutti i casi che ha trattato, la Corte ha posto l'accento sull'obbligo per lo Stato di proteggere la vita. Non è convinta che il “diritto alla vita” garantito dall'articolo 2 possa essere interpretato nel senso che comporti un aspetto negativo. Per esempio, se nel contesto dell'articolo 11 della Convenzione è stato ritenuto che la libertà d'associazione implichi non soltanto un diritto di aderire ad un'associazione, ma anche il corrispondente diritto di non essere costretto ad associarsi, la Corte osserva che una certa libertà di scelta nell'esercizio di una libertà è inerente alla sua stessa nozione (vedi sentenze Young, James e Webster c. Regno Unito del 13 agosto 1981, serie A n. 44, paragrafo 52 e Sigurdur A. Sigurjònsson c. Islanda del 30 giugno 1993, Serie A n. 264, paragrafo 35). L'articolo 2 della Convenzione non è formulato nello stesso modo. Non vi è nessun rapporto con le questioni relative alla qualità della vita o a quello che una persona sceglie di fare della propria vita. Nella misura in cui tali aspetti sono riconosciuti talmente fondamentali per la condizione umana da richiedere una protezione dalle ingerenze dello Stato, essi possono riflettersi nei diritti consacrati dalla Convenzione o in altri strumenti internazionali in materia dei diritti dell'uomo. L'articolo 2 non potrebbe, senza distorsione di linguaggio, essere interpretato nel senso che conferisce un diritto diametralmente opposto, vale a dire un diritto di morire; non potrebbe nemmeno far nascere un diritto all'autodeterminazione nel senso che darebbe ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita».
Ciò che si respira anche nelle pagine stese dalla Corte costituzionale.
Si veda specialmente al termine del§ 5.3: «(…) Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima.
Discipline come quella dell'art. 579 c.p., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate (…), perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano».
E dunque, sub § 6, «deve (…) concludersi per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito, che, per tale motivo, è sottratta all'abrogazione referendaria, con conseguente inammissibilità del quesito stesso».
Ché, poi e infine, della (in)utilità/vischiosità di essa perduranza integrale si è già detto e più non si torni per ingiustificato diletto.
A ciascuno il suo. O, per dirla ancora con Giovanni Allevi, a chiunque la propria “Symphony of Life”: che sia soave o stridula è giusto lo decida chi la suona. Solo lui/lei o chi è legittima longa manus della sua ultima volontà, spettandole l'“on-off” dalla incommensurabile gravosità. Riferimenti
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