Reati tributari e responsabilità della capogruppo

Saverio Capolupo
19 Aprile 2022

In materia di delitti di natura tributaria è stato chiarito che rientra nella nozione di profitto qualsiasi vantaggio patrimoniale conseguente alla condotta penalmente illecita, ivi incluso il risparmio di spesa derivante dal mancato versamento di un tributo. Ai fini della configurazione della responsabilità da reato della holding per fatti illeciti commessi da soggetti facenti capo alle società controllate la stessa non potrà sostenersi in via generale ma soltanto allorquando determinati indici oggettivi dimostrino come la condotta delittuosa sia stata tenuta in esecuzione di direttive e dettami provenienti dagli amministratori della capogruppo i quali, non solo non hanno impedito la commissione di reati, ma hanno determinato altri soggetti alla violazione della legge penale, profittando della loro posizione di supremazia all'interno del raggruppamento societario.
Premessa

In materia di delitti di natura tributaria è stato chiarito che rientra nella nozione di profitto qualsiasi vantaggio patrimoniale conseguente alla condotta penalmente illecita, ivi incluso il risparmio di spesa derivante dal mancato versamento di un tributo.

Ai fini della configurazione della responsabilità da reato della holding per fatti illeciti commessi da soggetti facenti capo alle società controllate la stessa non potrà sostenersi in via generale ma soltanto allorquando determinati indici oggettivi dimostrino come la condotta delittuosa sia stata tenuta in esecuzione di direttive e dettami provenienti dagli amministratori della capogruppo i quali, non solo non hanno impedito la commissione di reati, ma hanno determinato altri soggetti alla violazione della legge penale, profittando della loro posizione di supremazia all'interno del raggruppamento societario.

I reati tributari, presupposto della responsabilità

Con il d.l. n. 124/2019 sono stati inseriti tra i reati presupposto della responsabilità dell'ente ex d.lgs n. 231/2001 gli illeciti di frode, emissione di fatture per operazioni inesistenti, occultamento o distruzione di scritture contabili, sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

Con l'attuazione della direttiva PIF, recepita con d.lgs. n. 75/2020, è stato introdotto, per la prima volta, il tentativo per i reati di frode fiscale e di infedele dichiarazione, ancorché, limitatamente all'IVA e sempre che gli atti diretti a commettere detti delitti siano compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell'Unione Europea (c.d. frode transazionale) e l'imposta evasa ammonti a più di dieci milioni di euro.

I due menzionati presupposti, mutuati dalla terminologia comunitaria, non mancheranno di attirare l'attenzione della dottrina non essendo chiarito, in particolare, né nel dato normativo né nella relazione di accompagnamento quando il fatto debba essere considerato consumato in parte nel territorio dello Stato ed in parte in altro Stato Membro.

Con il medesimo decreto è stata ampliata l'area dei reati tributari inserendo anche le ipotesi di infedele dichiarazione, omessa presentazione della dichiarazione, indebita compensazione.

Relativamente ai reati tributari è stata introdotta, infine, la c.d. confisca allargata al verificarsi del superamento di determinati ammontare di imposta evasa.

Le menzionate innovazioni lasciano, tuttavia, insoluti numerosi interrogativi quali, ad esempio, la violazione o meno del principio del ne bis in idem, la responsabilità dell'ente in caso di estinzione del reato, le conseguenze derivanti dall'estensione della non irrogazione della sanzione penale in caso di reati di particolare tenuità, gli effetti della prescrizione dell'illecito penale, la giurisdizione per insoggettì non residenti, ecc.

Criterio generale in tema di responsabilità

In via generale, è indubbio che l'evoluzione del quadro giuridico, dettata, probabilmente, anche di quanto avviene in altri ordinamenti giuridici, sta determinando, nell'ambito dei gruppi d'impresa, l'assunzione di un ruolo centrale della capogruppo di responsabilità sempre più ampie non solo con riferimento alla propria gestione ma anche in esito alle condotte antigiuridiche delle società controllate e collegate.

Tale evoluzione trova un puntuale riscontro sia nelle modifiche normative intervenute di recente sia nell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.

La giurisprudenza, in particolare, tende a trasferire il più possibile la responsabilità da illecito penale dalle persone fisiche all'ente. Tale orientamento, talvolta frutto anche di una forzatura del dato giuridico, non trova altrettanta condivisione nella dottrina, apparsa più attenta ad ancorare la responsabilità nei limiti in cui sia stata ravvisata nel contempo anche la responsabilità dell'autore del reato-presupposto.

La posizione assunta dalla giurisprudenza è logica conseguenza dell'asserita autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella della persona fisica, collegamento che, tuttavia, non può e non deve essere escluso come principio generale, atteso che resta pur sempre da dimostrare l'esistenza del vantaggio per l'ente e la sussistenza degli altri presupposti.

Sul piano giuridico, ai sensi dell'art. 2497 c.c., le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei princìpi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società.

Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette.

Di contro, però, parte della costante giurisprudenza, sia civile che penale, nega autonoma rilevanza giuridica alla holding, configurando la responsabilità unicamente sotto il profilo economico-finanziario, rimanendo inalterata l'autonomia soggettiva delle singole società.

La giurisprudenza ha sottolineato che l'assenza di qualsiasi definizione normativa dei "principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale" non può che rimandare alle buone tecniche di gestione della impresa, mutuate dalla esperienza e dalla prassi aziendale ed elaborate dalla scienza economica, in parte evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in relazione alle quali è dato individuare i limiti oltre i quali la "scelta gestionale", compiuta dall'amministratore, non può ritenersi conforme alla misura della diligenza richiesta, avuto riguardo alle peculiari circostanze conosciute o conoscibili, ed indipendentemente da eventuali profili di rilevante economica che tale scelta presenti.

Tali limiti vanno individuati nella "irragionevolezza" della operazione economica (pregiudizievole per la società), in quanto da ritenere "del tutto illogica" o compiuta "in assenza delle normali cautele" ed "in mancanza della verifica delle necessarie informazioni" - preventivamente acquisite od acquisibili - che normalmente sono richieste per una scelta imprenditoriale di quel tipo, nonché, in generale, nella "mancanza di diligenza”.

Tralasciando, tale aspetto, per quanto di interesse va evidenziato che in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti, è sufficiente la prova dell'avvenuto conseguimento di un vantaggio ex art. 5 D.lgs. n. 231/2001, anche quando non sia possibile determinare l'effettivo interesse da esso vantato ex ante rispetto alla consumazione dell'illecito tributario, purché il reato non sia stato commesso nell'esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi.

I presupposti per la configurazione della responsabilità

Ai fini della responsabilità dell'ente, anche con riferimento ai reati tributari, rileva la differenza tra interesse e vantaggio.

Fermo restando che tali concetti vanno riferiti alla condotta e non all'evento va evidenziato che i richiamati criteri di imputazione oggettiva sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito.

È pacifico poi che ricorre il requisito dell'interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica.

Ricorre il requisito del vantaggio, invece, quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, pur non volendo il verificarsi dell'evento, ha violato sistematicamente le norme e, dunque ha realizzato una politica di impresa disattenta, consentendo una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto.

L'interesse va considerato come criterio soggettivo il quale rappresenta l'intento del reo di arrecare un beneficio all'ente mediante la commissione del reato, indagabile solamente ex ante per cui è del tutto irrilevante che si sia o meno realizzato il profitto sperato. Il vantaggio, invece, è criterio oggettivo, legato all'effettiva realizzazione di un profitto in capo all'ente quale conseguenza della commissione del reato. Per questo deve essere analizzato ex post.

L'interesse o il vantaggio cui fa riferimento l'art. 5, D.Lgs. 231/01 devono essere valutati alla stregua della complessa organizzazione che secondo dati di comune esperienza hanno oramai assunto i gruppi economico- finanziari. Da ciò discende che la loro incidenza non può essere rapportata esclusivamente con riferimento ad una singola società appartenente ad un gruppo ma deve essere considerata anche con riguardo alle ricadute di utilità che in una struttura articolata si verificano anche nei confronti delle altre società collegate.

Non deve sfuggire, comunque, che in capo alla holding ed a quanti la governano difetta uno specifico obbligo di impedire che le altre società presenti nel medesimo gruppo conformino la loro condotta ai dettami del diritto penale: la capogruppo, infatti, rispetto alle altre società, è un mero titolare di partecipazioni azionarie e nessun obbligo di vigilanza ed intervento incombe sul socio come tale, indipendentemente dalla misura della sua partecipazione e dall'eventuale capacità di influenza dominante.

Con specifico riferimento alla materia fiscale può essere sufficiente ricordare che, per giurisprudenza costante, la nozione di profitto richiamata dal D.Lgs n. 231/2001 evoca un concetto di “profitto dinamico” da rapportare anche al volume dell'attività d'impresa fino a comprendere sia vantaggi immediati sia vantaggi indiretti.

Sono evidenti, infatti, la polifunzionalità e il carattere semantico aperto del termine profitto, di cui manca nel diritto penale una nozione unitaria e che, pertanto, è suscettibile di essere, di volta in volta, “riempito di contenuto” in sede giurisprudenziale.

La Suprema Corte con riferimento ai reati tributari ha identificato il profitto con l'ammontare delle imposte (ritenute o Iva) non versate, e quindi sottratte, all'Erario. Tali somme, infatti, costituiscono un vantaggio patrimoniale di diretta derivazione dalla condotta illecita perpetrata, anche se consistenti in un risparmio di spesa, al quale vengono poi aggiunti gli interessi e le sanzioni.

Con l'espressione prezzo, invece, si intende quanto pattuito e percepito in qualità di corrispettivo per la commissione dell'illecito. Rispetto ai reati tributari, tale concetto non è configurabile dal momento che gli stessi sono privi di qualsivoglia carattere sinallagmatico con riferimento alle modalità di perpetrazione.

Come detto, in materia di delitti di natura tributaria è stato chiarito come sia suscettibile di rientrare nella nozione di profitto qualsiasi vantaggio patrimoniale conseguente alla condotta penalmente illecita, ivi incluso il risparmio di spesa derivante dal mancato versamento di un tributo.

La responsabilità da reato tributario

In merito in giurisprudenza si ritiene che nei gruppi di società sia da escludere, per gli inevitabili riflessi che le condizioni della società controllata riverberano sulla società controllante, sia che i vantaggi conseguiti dalla controllata, in conseguenza dell'attività della controllante, possano considerarsi conseguiti da un terzo, sia che l'attività di quest'ultima possa dirsi compiuta nell'esclusivo interesse di un terzo.

Va da sé, però, che l'illecito amministrativo da reato può essere addebitato a un ente che rivesta il ruolo di controllante in seno a un gruppo di società soltanto se commesso nell'interesse comune del gruppo, indipendentemente dal fatto che esso ne abbia tratto diretto vantaggio.

Ne consegue che la società capogruppo può essere chiamata a rispondere, ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, per il reato commesso nell'ambito dell'attività di una controllata, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della "holding", perseguendo anche l'interesse di quest'ultima.

Ovviamente, non possono non valere per i gruppi di società, le società collegate, la società capogruppo, e le holding, i criteri d'imputazione del fatto reato alla società valevoli per qualsiasi persona giuridica, così come enunciati ex artt. 5, 6 e 7 D.Lgs. 231/2001, salvo gli adattamenti specifici in relazione alla situazione peculiare del fenomeno dei gruppi di società.

In ogni caso, affinché sia configurabile una responsabilità nei gruppi di società o della holding, è necessario che alla commissione dell'illecito abbiano partecipato:

  • persone che rivestano, nell'ambito della capogruppo, funzione di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché persone che esercitano, anche di fatto, la gestione ed il controllo dello stesso; ovvero
  • persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). Solo se anche tali soggetti (legati all'ente controllante da rapporti di rappresentanza o subordinazione), hanno partecipato alla commissione del delitto, sarà possibile ipotizzare una responsabilità della holding per fatti di reato.

Ne consegue che una eventuale responsabilità da reato della holding per fatti illeciti commessi da soggetti facenti capo alle società controllate non potrà sostenersi in via generale ma soltanto allorquando determinati indici oggettivi dimostrino come la condotta delittuosa sia stata tenuta in esecuzione di direttive e dettami provenienti dagli amministratori della capogruppo i quali, non solo non hanno impedito la commissione di reati, ma hanno determinato altri soggetti alla violazione della legge penale, profittando della loro posizione di supremazia all'interno del raggruppamento societario.

Ai fi ni della configurazione della responsabilità è necessario, pertanto, che vi sia stata da parte della capogruppo una ingerenza della controllante nella realizzazione di attività di gestione in modo tale che possa addebitarsi anche alla controllante la mancata adozione di strumenti organizzativi atti a prevenire la esecuzione delle condotte illecite.

Va da sé che grava sulla pubblica accusa la puntuale dimostrazione che dalla holding è pervenuta non una generica direttiva all'ottenimento di determinati risultati imprenditoriali, per il cui raggiungimento i gestori delle controllate hanno ritenuto di dover agire delittuosamente, quanto veri e propri suggerimenti penalmente illegittimi, sì che le direttrici generali del programma contengono già in luce, sufficientemente predeterminati, almeno i tratti essenziali dei singoli comportamenti delittuosi poi realizzati dai compartecipi.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario