Nomen Omen: il cognome maritale dopo la pronuncia del divorzio
20 Aprile 2022
Come noto, il principio cardine dell'ordinamento italiano in materia di attribuzione dei nomi e dei cognomi, permane a tutt'oggi e nonostante i diversi orientamenti trans-nazionali, quello della sostanziale indisponibilità (o immutabilità): non è infatti consentito – salve le ipotesi eccezionali previste per legge - acquisire (o trasferire) un cognome che sia diverso da quello basato sulla discendenza. Per quanto riguarda il cognome nel matrimonio, in coerenza con il prevalere del principio di coincidenza tra lo status dei soggetti e la loro denominazione personale, l'art. 143-bis dispone che la moglie, e soltanto lei, possa aggiungere e non sostituire al suo cognome di nascita, quello del marito, e che lo mantenga durante la sua vedovanza, fino a quando non contragga nuove nozze. Il cognome così aggiunto diviene un elemento costitutivo del nome, ed è quindi, a tutti gli effetti, “un segno distintivo della persona e non può essere omesso ad arbitrio dell'interessato”. È in questo senso, che l'aggiunta del cognome maritale viene descritta, da giurisprudenza e dottrina, come un diritto – dovere. Per quanto attiene alle unioni civili, l'art. 1, l. 76/2016, comma 10,dispone che le coppie interessate possono decidere di assumere, per tutta la durata dell'unione civile, un cognome comune,scegliendolo tra i propri cognomi, mediante dichiarazione all'ufficiale di stato civile. A seguito di tale dichiarazione, il soggetto il cui cognome non sia stato scelto come comune, può mantenere il proprio, scegliendo di anteporlo o di posporlo a quello comune. La Corte Costituzionale ha ritenuto la norma in questione conforme al principio di ragionevolezza, poiché limita temporalmente la conservazione del cognome comune alla durata dell'unione civile, evitando di prevedere una definitiva ed irreversibile variazione anagrafica come effetto della scelta compiuta dalle parti dell'unione civile stessa (Corte cost., sent., n. 212/2018).
Il cognome maritale nella crisi coniugale
Il destino del cognome maritale trova, rispetto alla crisi della coppia coniugale, un primo blocco di norme già nell'ipotesi di separazione personale, laddove l'art. 156-bis c.c., prevede che il Tribunale possa (i) vietare alla moglie di usare il cognome del marito, se tale uso gli arreca grave pregiudizio, e possa anche, per altro verso, (ii) autorizzare la moglie a non usare il predetto cognome se da tale uso possa derivarle un grave pregiudizio. Si rammenta all'uopo, e con un occhio all'evoluzione storica, che oggi l'assunzione del cognome maritale è una facoltà rimessa alla scelta della moglie. Nella sua precedente formulazione, l'art. 144 c.c. prevedeva, invece, che la moglie dovesse seguire la condizione civile del marito, assumerne il cognome, e fosse obbligata ad accompagnarlo ovunque lui ritenesse di fissare la sua residenza. La previsione ancorché mitigata dalla giurisprudenza, è stata completamente revisionata con la riforma del diritto di famiglia (l. 151/1975), che ha modificato l'art. 144 c.c. e introdotto l'art. 143-bis c.c. Rispetto al cognome maritale, con la pronuncia dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, "la donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio cognome in seguito al matrimonio”, ex art. 5, l. 898/1970. La perdita del cognome maritale, in Italia, è quindi un effetto automatico e naturale della pronuncia di divorzio, giacché è cessata la ragione giuridica -derogatoria del principio generale di indisponibilità del nome-, che ne ha giustificato l'acquisto. Tuttavia, questo principio incontra due eccezioni: (a) la prima, esplicitamente prevista dalla norma, che consiste nell'autorizzazione alla conservazione del cognome del marito (o ex tale) da parte del Tribunale; (b) la seconda, implicitamente deducibile, (ma non espressa, come –invece e ad esempio– svolto dal legislatore francese), rappresentata dall'eventuale consenso del marito, vincolante soltanto se accolta dal Tribunale nel proprio provvedimento. In sintesi, nel nostro ordinamento:
Gli accordi tra coniugi sul cognome maritale, omologati o approvati dal Tribunale, si presentano in termini rovesciati in caso di separazione e di divorzio: (i) nella separazione, l'intesa ha ad oggetto l'eventuale non uso del cognome del marito (al riguardo si vedano App. Roma, sentenza 20.03.1989, confermata da Cass. civ., n. 8081/1994); (ii) nel divorzio essa concerne l'eventuale uso del cognome dell'ex marito. Il consenso del marito alla conservazione del cognome
Per quanto riguarda il consenso del marito alla conservazione del cognome maritale, e tenendo presenti i principi già evocati, sia dell'immutabilità (in mancanza di autorizzazione giudiziaria/amministrativa) dei cognomi -e dei nomi-, sia dell'indisponibilità del nome (nessuna libertà di scelta vincolante), si osserva che:
L'autorizzazione semplicemente concordata tra le parti, pertanto, non è sufficiente in Italia (a differenza di molti altri ordinamenti) considerato, da un lato, che l'art. 5 l. 898/70 prevede che l'unica decisione sulla sorte del nome sia pronunciata dal Giudice e, dall'altro che il diritto al nome non è annoverato tra i diritti disponibili. L'autorizzazione del marito, tuttavia, non può certo essere ritenuta irrilevante: nel caso in cui sia stata accordata, è improbabile infatti che il Tribunale investito della questione, nel deliberare o nell'accogliere le condizioni divorzili concordate, neghi alla moglie la possibilità di mantenere il cognome coniugale. Si ricordi, a tale riguardo e precedentemente all'entrata in vigore della novella del 1987, la pronuncia del Tribunale di Roma che, con sentenza 25 maggio 1985, confermata dalla Corte d'Appello il 18 maggio 1987, nell'ambito di una nota vicenda (caso tra Marina Punturieri - Lante della Rovere), si è pronunciata su un accordo in base al quale l'ex marito aveva autorizzato la moglie a proseguire ad usare il suo cognome, limitatamente e soltanto per scopi artistici o commerciali; superati questi limiti, l'uso generalizzato del cognome del marito è stato ritenuto illegittimo perché potenzialmente lesivo della reputazione e della riservatezza del suo titolare. E così: è “illegittimo l'uso, da parte della moglie, del cognome del marito successivamente alla sentenza di divorzio, quando tale uso risulti lesivo del suo diritto alla riservatezza e al decoro (nella specie, alla convenuta - Marina Punturieri - è stato inibito l'uso del cognome maritale - Lante Della Rovere - ove non preceduto da "già" o equipollenti atti a render manifesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio)” (Trib. Roma, 25 maggio 1985). L'autorizzazione concessa dal Tribunale può essere modificata o revocata in un secondo tempo, e successivamente al divorzio: il comma (4) dell'art. 5 della legge sul divorzio, dispone, infatti, che la decisione sulla conservazione del cognome (di cui al terzo comma dell'art. 5, l. div.) “possa essere modificatacon successiva sentenza, per motivi diparticolare gravità, su istanza di una delle parti”. Alla stessa stregua, dunque, anche l'eventuale consenso dell'ex-marito, se convalidato dal Tribunale nella sentenza di divorzio, può essere successivamente revocato, per motivi di particolare gravità, sempre e soltanto a seguito di precipua sentenza di modifica da parte del Tribunale. Quanto alla definizione dei casi nei quali ravvisare i motivi di particolare gravità, la dottrina li ha ritenuti sussistere ogni qual volta l'uso da parte della donna divorziata del cognome dell'ex coniuge sia stato lesivo della riservatezza, o dell'onore, del decoro o della reputazione dell'ex-marito. La revoca/modifica dell'autorizzazione del Tribunale all'uso del cognome coniugale è infatti, e in ogni caso, subordinata alla dimostrazione di motivi particolarmente gravi, quali un comportamento scandaloso o infamante, suscettibile di portare discredito sociale. La rarissima giurisprudenza di merito, in punto, si è espressa ritenendo, peraltro, che le nuove nozze del marito non costituiscono, di per sé, un motivo sufficiente a giustificare la revoca (Pret. Roma, 9 luglio 1986, in Giur. It., 1987, I, 2, 306. Per quanto riguarda l'eccezione contemplata espressamente all'art. 5, l. 898/1970, devesi premettere che l'autorizzazione del Tribunale alla conservazione del cognome maritale è – di fatto e nella pratica- concessa molto raramente. Trattandosi, infatti, di ipotesi straordinarie, affidate alla decisione discrezionale del giudice di merito, secondo criteri di valutazione propri sì di una clausola generale, ma che non possono coincidere, quanto alla sua rilevanza giuridica, con il mero desiderio di conservare, quale tratto identitario, il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa. Né può escludersi, per altro verso, che l'uso del cognome possa costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsenta, e che intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale a mente dell'art. 8 CEDU, un nuovo nucleo familiare che sia riconoscibile, come legame attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente. I Tribunalinazionali hanno pertanto indicato, nelle rare pronunce in materia (e per lo più, rigettando sistematicamente la domanda della moglie all'autorizzazione dell'uso del cognome post-divorzio), i criteri in base ai quali potrebbe essere concesso l'utilizzo del cognome coniugale; in linea di principio, mediante provvedimenti sostanzialmente di accertamento negativo, dell'esistenza del requisito di “interesse meritevole di tutela suo o dei figli”, così come enunciato dal 3° comma dell'art. 5, l. div., nella sua attuale formulazione (si sono quindi elaborati in giurisprudenza, soprattutto degli obiter dicta, quali criteri di valutazione per l'autorizzazione/accoglimento/rigetto della domanda della moglie richiedente). Pochi, i precedenti giurisprudenziali, tutti di merito (App. Milano 09 marzo 2011; Trib. Milano, 28 aprile 2009, n. 5644; Trib. Napoli, 11 luglio 2003; App. Roma, 18 maggio 1987; App. Bologna, 25 giugno 1977) sino alla prima pronuncia di legittimità del 2015 (Cass. civ. n. 21706 /2015, seguita, per importanza, dalla più recente Cass. civ. n. 3869/2019, e Cass. civ. n. 3454/2020). Nell'affrontare l'interesse “meritevole di tutela” sottoposto alla valutazione del Tribunale, possono dunque sintetizzarsi orientamenti sostanzialmente conformi, sia di merito e sia di legittimità. L'autorizzazione in esame è stata subordinata alla dimostrazione di un uso rilevante e duraturo del nome, oltre che degli eventuali interessi professionali connessi. L'utilizzo meritevole di tutela non può essere soltanto legato alla frequentazione di ambienti altolocati, di alto rango e di alto reddito (App. Milano 09 marzo 2011), ma deve fare riferimento all'identificazione sociale e alla vita di relazione, nonché a particolari profili morali o ad aspetti relativi ai figli, che potrebbero subire un effettivo danno per l'identificazione con un cognome diverso. L'indagine sulla sussistenza delle citate condizioni, precisano le pronunce di merito (Trib. Milano, 28 aprile 2009, n. 5644) può essere effettuata sulla base di documenti relativi alla vita privata del coniuge che possano essere rilevanti al riguardo, come quelli attinenti alla sua salute (ad esempio, i certificati medici che dimostrano l'identificazione almeno prevalente con il cognome del marito), alla sua vita professionale e ai suoi affari. Se da tale documentazione, è risultato che l'uso del cognome del marito non fosse, rispetto alla vita della moglie, di preminente importanza, in relazione agli aspetti sopra menzionati, la domanda è stata sempre rigettata dai nostri Tribunali. E l'indagine può e deve riguardare tutti i documenti prodotti, anche per uno scopo diverso, come ad esempio la stessa procura alle liti. Secondo il prevalente e più recente indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione,infatti, “la possibilità di consentire con effetti di carattere giuridico-formali la conservazione del cognome del marito, accanto al proprio, dopo il divorzio, è da considerarsi una ipotesi straordinaria affidata alla decisione discrezionale del giudice di merito secondo criteri di valutazione propri di una clausola generale, ma che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica. Né può escludersi che il perdurante uso del cognome maritale possa costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsenta e che intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale a mente dell'art. 8 CEDU, un nuovo nucleo familiare che sia riconoscibile, come legame familiare attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente. La valutazione della ricorrenza delle circostanze eccezionali che consentono l'autorizzazione all'utilizzo del cognome del marito è rimessa al giudice del merito”. (Cass. civ., n. 3454/2020). Nei casi nei quali il cognome maritale è utilizzato nella sfera professionale, le rare pronunce che se ne sono occupate, hanno sottolineato che l'autorizzazione alla conservazione del cognome maritale nel campo degli affari, deve essere tenuta differenziata dall'eventuale autorizzazione a mantenerlo dopo il divorzio in qualsiasi settore o circostanza (Cass. civ. n. 21706/2015). Precisa, al riguardo, la Suprema Corte: “Non dubitano, giurisprudenza e dottrina, che l'interesse sotteso alla norma invocata debba ritenersi esteso anche ad ambiti diversi dalla sfera professionale e lavorativa, ossia alla vita ordinaria di relazione, ma si teme la mercificazione, lo svilimento del contenuto esistenziale di tale interesse, ridotto alla frequentazione salottiera. […] L'interesse alla conservazione, infatti, merita apprezzamento destinato a valutazioni tanto più attente e rispettose della persona, quanto più tempo si sia “indossato” il cognome del coniuge e quanto meno si sia fatto uso separato, in contesti lavorativi o diversi, del proprio” (cfr. Cass. civ., n. 21706/2015).
Rimedi esecutivi in caso di spendita illegittima del cognome
L'utilizzo del cognome maritale, da parte della moglie, in difetto di una specifica autorizzazione giudiziale, costituisce in Italia un fatto illecito. Dall'utilizzo indebito discende, nel nostro ordinamento, una duplice forma di tutela: (i) inibitoria e (ii) risarcitoria. (i) In primo luogo, in caso di violazione da parte della moglie divorziata del cognome dell'ex-marito, quest'ultimo può, ai sensi dell'art. 7 c.c., chiedere la cessazione del fatto lesivo, rivolgendosi al Giudice per l'ottenimento di un provvedimento inibitorio, e ciò anche sulla base soltanto di un pregiudizio potenziale. (ii) In secondo luogo, come detto, l'ex marito può agire altresì per il risarcimento del danno. Quanto agli aspetti probatori, mentre per l'inibitoria è sufficiente che l'istante dimostri, oltre all'uso illegittimo del proprio cognome, la possibilità che da ciò gli derivi pregiudizio – pregiudizio che può essere, quindi, meramente potenziale, ovvero di ordine anche soltanto morale –, ai fini, invece, dell'azione risarcitoria, devono sussistere i requisiti soggettivi e oggettivi dell'illecito aquiliano ex art. 2043 ss c.c., sicché non soltanto è necessaria l'esistenza di un pregiudizio effettivo, ma questo, se non è di natura patrimoniale, è risarcibile, ai sensi dell'art. 2059 c.c., soltanto ove nella condotta dell'indebito utilizzatore sia configurabile un illecito penalmente sanzionato. La dimostrazione può pertanto non essere, in concreto, agevole. Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, infatti“Il secondo comma dell'art. 5, legge n. 898/1970 […] sicuramente ha reso ipso iure illegittimo l'uso del cognome maritale da parte della divorziata, eliminando i dubbi cui dava luogo la precedente normativa, ma non ha affatto modificato, ovviamente, la tutela spettante all'ex marito nel caso di violazione del divieto, la quale resta regolata dall'art. 7 c.c. In caso di indebito uso del nome, questa norma consente al titolare di chiedere la cessazione del fatto lesivo ed altresì di agire per il risarcimento del danno; tuttavia, mentre per l'inibitoria è sufficiente che l'attore dimostri, oltre all'uso illegittimo del proprio nome, la possibilità che da ciò gli derivi pregiudizio, il quale può essere, quindi, meramente potenziale ovvero di ordine soltanto morale, ai fini dell'azione risarcitoria è necessario che sussistano i requisiti soggettivi ed oggettivi dell'illecito aquiliano, ex art. 2043 ss. c.c.” (Cass. civ. n. 8081/1994). Così definiti i presupposti giuridici per l'eventuale azione inibitoria e/o risarcitoria, deve tuttavia essere rilevato, rispetto all'effettiva esperibilità dell'azione, quanto ulteriormente affermato dalla Suprema Corte, con pronuncia del 22 dicembre 1990, Cass.n. 12160/1990. Invero, la sentenza che abbia pronunciato il divorzio, ancorché comporti per la donna, automaticamente ex lege (ai sensi dell'art. 5, comma 2, l. div.), la perdita del cognome del marito aggiunto al proprio a seguito del matrimonio, ove non contenga alcuna statuizione in ordine all'uso del detto cognome da parte della moglie divorziata, non costituisce titolo sufficiente, affinché l'ex marito possa ottenere l'esecuzione forzata ex art. 612 c.p.c. della relativa inibitoria nei confronti della ex-moglie che, malgrado la sentenza di divorzio, continui ad usare il cognome del marito. Essendo infatti e a tal fine necessaria, l'ulteriore ed esplicita enunciazione del divieto del relativo uso. Ai sensi dell'art. 612 c.p.c., come ben noto, il presupposto per l'esecuzione è l'esistenza di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o non fare. A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che tale non è la natura di una sentenza che si limita a pronunciare un divorzio, senza alcuna specifica statuizione sull'uso del nome del marito. Si veda, a tale proposito,quanto statuito dal Supremo Collegio:“[…] presupposto per l'esecuzione forzata ex art. 612 c.p.c. è l'esistenza di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare e tale natura non può riconoscersi alla sentenza che, come nel caso di specie, si sia limitata a pronunziare il divorzio, senza alcuna statuizione in tema di uso del nome patronimico del marito da parte della moglie” (Cass. civ. n. 12160/1990). Conclusioni
Il confronto delle regole italiane con quelle straniere, in particolare dei Paesi di common law, mette in evidenza nozioni diametralmente opposte sulla questione dei nomi di famiglia. Con il loro “liberalismo”, i Paesi di common law lasciano più spazio alla volontà di ogni individuo, che è libero di scegliere il suo destino, connesso al nome, in qualsiasi momento, anche quindi al momento del matrimonio e, soprattutto, del suo scioglimento. Si segnalano al riguardo, e per la rilevanza che il tema evidentemente rappresenta nell'ambito dei diritti della persona e delle relazioni famigliari, alcune delle proposte di legge (in particolare dei ddl nn. 170, 1025 e 2293) sottoposte attualmente, a far data dal 22 febbraio u.s., all'esame della Commissione Giustizia del Senato, e che intervengono – oltre che sulla disciplina civilistica relativa al cognome dei figli- anche sulla normativa relativa al cognome dei coniugi. Anticipare la questione al momento del divorzio, rimane indubbiamente la soluzione pratica migliore. Sarà pertanto sempre essenziale tenere presenti le ragioni qui esposte, per avere cura di ottenere la menzione specifica dell'autorizzazione (o dell'espresso divieto) all'uso del cognome maritale, nell'ambito del provvedimento di divorzio. Riferimenti
A. Finocchiaro, Diritto di famiglia e delle persone, III, Divorzio, 386” G. Bonilini, in Lo scioglimento del matrimonio, Comm. Schlesinger, 438; G.Metitieri, La funzione notarile nei trasferimenti di beni tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, in Riv. Notariato, 1995, pag. 1172) G. Oberto, Del «galateo postmatrimoniale»: ovvero gli accordi sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati, in Riv. Notariato, fasc. 2, 1999, pag. 337) E.Quadri in Quadri-Cipriani, La nuova legge sul divorzio, II, 68; |