La Cassazione torna a pronunciarsi su natura e prescrizione del danno endofamiliare

Alberto Figone
21 Aprile 2022

In caso di danno da deprivazione genitoriale, l'illecito endofamiliare ha carattere istantaneo, sia pur ad effetti permanenti, o permanente?
Massima

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, subito da un figlio in conseguenza della deprivazione genitoriale, costituente illecito di carattere permanente, prende a decorrere dal momento della conoscibilità o percepibilità del danno da parte del danneggiato, secondo un criterio di ordinaria diligenza.

Il caso

Una figlia ultramaggiorenne chiede al padre il risarcimento del danno da deprivazione genitoriale. La domanda viene accolta dal Tribunale; la Corte d'appello, a sua volta, ridetermina l'ammontare del danno in misura superiore, individuando come termine prescrizionale iniziale quello dell'intervenuta autosufficienza economica dell'attrice. La Cassazione conferma la decisione impugnata, escludendo la dedotta prescrizione del diritto, nel presupposto della natura permanente dell'illecito endofamiliare nel caso di specie.

La questione

In caso di danno da deprivazione genitoriale, l'illecito endofamiliare ha carattere istantaneo, sia pur ad effetti permanenti, ovvero permanente? La risposta è quantomai rilevante ai fini prescrizionali dell'esercizio del diritto.

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, l'art. 30 Cost. dispone che sia dovere, ma pure diritto dei genitori, mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Tale previsione è stata confermata negli attuali artt. 147 e 315-bis c.c., ove si contempla pure un diritto del figlio all'assistenza morale, il tutto nel rispetto delle capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni dello stesso. Per molti anni si è ritenuto che la violazione dei doveri genitoriali dovesse trovare necessariamente la sua regolamentazione all'interno del solo diritto di famiglia; ciò poteva avvenire tramite l'assunzione, da parte del giudice, di provvedimenti ablativi, ovvero limitativi, della responsabilità (già potestà) genitoriale, in caso di figli minori, ex artt. 330 e 333 ss. c.c. , ovvero, nei casi più gravi, la dichiarazione di stato di abbandono del minore, prodromica ad una futura adozione; il tutto fatta salva la configurabilità di fattispecie anche penalmente rilevanti.

Sta di fatto che i principi della responsabilità civile, contestualmente estesi alla violazione dei doveri derivanti dal matrimonio, hanno trovato applicazione pure nella relazione tra genitori e figli, con la conseguente operatività dei rimedi risarcitori, propri della disciplina generale dell'illecito civile, di cui agli artt. 2043 c.c. Ciò nel presupposto che i menzionati obblighi che la legge pone a carico dei genitori hanno piena natura giuridica e, dunque, non solo etica.

L'elaborazione giurisprudenziale della responsabilità endofamiliare nei confronti dei figli ha preso le mosse da una nota sentenza della Suprema Corte (Cass. 7 giugno 2000, n. 7713), che ha ispirato le successive pronunce di merito ed ha dato occasione di ulteriori approfondimenti in sede di legittimità, con riguardo ai profili dell'onere della prova e, soprattutto, della prescrizione del diritto, di cui si occupa la decisione in commento. Quel lontano precedente aveva infatti ritenuto risarcibile il c.d. danno esistenziale per lesione dei diritti fondamentali della persona, inerenti, in particolare, la qualità di figlio, in una fattispecie nella quale un padre, dichiarato tale a seguito di azione giudiziale, aveva fatto totalmente mancare la propria presenza al figlio stesso, pur assolvendo all'obbligo economico di mantenimento. In fattispecie analoghe è stata così riconosciuta l'esistenza di un danno non patrimoniale da mancata instaurazione di una relazione genitoriale, ma anche di quello patrimoniale, sub specie di perdita di chance, per non aver potuto il figlio coltivare gli studi o intraprendere un'attività per mancanza di mezzi.

Non mancano peraltro casi di risarcimenti del danno, liquidati in favore di figli nati nel matrimonio, o riconosciuti dal genitore, a fronte di condotte abbandoniche del genitore medesimo (Cass. 6 ottobre 2021, n. 27139; Cass. 2 aprile 2021, n. 9188), come pure fattispecie connesse all'impugnazione di riconoscimenti, effettuati già con la consapevolezza della relativa falsità (cfr., in relazione al precedente testo dell'art. 263 c.c., che dichiarava l'imprescrittibilità dell'azione di impugnazione del riconoscimento, Cass. 31 luglio n. 2015, n. 16222).

Una delle questioni più dibattute riguarda proprio la prescrizione del diritto del figlio al risarcimento del danno non patrimoniale, atteso che come è noto, in base all'art. 2935 c.c., la prescrizione (nella specie, quinquennale) prende a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'illecito endofamiliare, al pari di ogni altra tipologia di illecito, può essere sia istantaneo, ove ricorrano singole condotte lesive dell'agente, che si esauriscono prima o nel momento stesso della produzione del danno, sia permanente, ove dette condotte perdurino oltre tale momento e continuino a cagionare un danno per tutto il corso della relativa reiterazione. Se il genitore si estranea completamente per un periodo prolungato o comunque significativo dalla vita della prole, il relativo illecito ha natura permanente, rappresentando un gravissimo vulnus all'esecuzione di quel doveroso progetto di crescita e di cura, che ogni genitore assume su di sé per il solo fatto della procreazione.

È proprio la considerevole protrazione temporale a condurre la condotta illecita ad un livello di disvalore così alto come quello costituzionale, mentre se la condotta investisse un arco di tempo limitato e fosse, dunque, episodica violerebbe solo le norme ordinarie relative agli obblighi genitoriali. L'abbandono parentale si sostanzia nel mancato adempimento di tutti gli obblighi genitoriali nei confronti dei figli e realizza un'omissione permanente, ontologicamente diversa dalla reiterazione di singoli illeciti istantanei, che pure potrebbero produrre effetti duraturi o permanenti nel tempo.

Muovendo da queste premesse, la pronuncia in commento dichiara di volersi uniformare ad un recente precedente, reso dalla stessa Corte di Cassazione a conclusione di un articolato excursus giurisprudenziale, afferente anche i termini prescrizionali del diritto al risarcimento (Cass. 10 giugno 2020, n. 11097, con nota di Schirinzi, Abbandono del figlio: natura permanente dell'illecito endofamiliare, in IlFamiliarista). Si richiamano all'uopo pure i principi elaborati dalle Sezioni Unite con sentenza 11 gennaio 2008, n. 2008, sulla “concreta percepibilità del danno”: il termine prescrizionale prende a decorrere dal momento in cui la situazione di pregiudizio a valori costituzionalmente rilevanti (salute, vita privata e familiare) viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza (nella specie, si controverteva in ordine al danno da emotrasfusioni con sangue infetto).

La pronuncia in commento considera, dunque, l'abbandono della prole, protratto nel tempo, come una forma di illecito, in relazione alla quale la concreta capacità della persona danneggiata di esercitare il diritto risarcitorio, ossia la concreta percepibilità completa del danno, assume un peculiare rilievo, derivante dalla natura parimenti peculiare del danno. Chiarisce infatti la Corte che tale illecito «produce anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico-esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa». Sulla scorta di altra più risalente decisione (Cass. 22 novembre 2013 n. 26205) ribadisce nel contempo che «la natura del diritto azionato ne rende del tutto giustificabile, in mancanza di limitazioni legali, l'esercizio in una fase di maturità personale compatibile con il coinvolgimento personale ed emotivo ad esso connesso».

Da tanto consegue come il termine prescrizionale quinquennale per l'esercizio dell'azione di danni prenda a decorrere non già dal momento in cui si è configurata la condotta abbandonica paterna, né da quello del raggiungimento della maggiore età del danneggiato, bensì da quando il figlio, vittima dell'abbandono, riesca ad affrancarsi dall'incidenza percettiva e comportamentale dell'istintivo desiderio filiale di un rapporto positivo con il genitore, per raggiungere una "maturità personale compatibile con il coinvolgimento personale ed emotivo ad esso connesso”.

La Corte di Cassazione conferma così la sentenza impugnata che, con quella valutazione che compete solo al giudice di merito, aveva ritenuto nella specie coincidere il raggiungimento dell'indipendenza psicologica del figlio con il conseguimento della sua indipendenza economica.

Osservazioni

La sentenza in esame affronta il delicato e complesso tema del dies a quo della prescrizione per l'esercizio del diritto al risarcimento dei danni, in presenza di illecito endofamiliare. Condivisibile è la distinzione fra illecito istantaneo, ancorchè gli effetti lesivi possano perdurare nella psiche o nel corpo del soggetto leso, e illecito permanente; quest'ultimo si configura in presenza di condotte, attive o omissive, prolungate e reiterate nel tempo (dai maltrattamenti alla deprivazione genitoriale, come nella fattispecie). Il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, che una condotta offensiva reiterata produce, non può ritenersi esercitabile, a pena di prescrizione, da un termine unitario e uniforme in tutte le fattispecie; sarebbe pertanto fallace pensare che la decorrenza del termine prenda a decorrere dall'acquisizione della capacità di agire del danneggiato. Occorre infatti fare riferimento al momento in cui il figlio abbia acquisito la percezione obiettiva del pregiudizio subito e la sua riconducibilità alla condotta genitoriale, avuto riguardo ad un doveroso criterio di diligenza e buona fede.

Non è certo agevole in concreto individuare termine di inizio della prescrizione, ove si consideri che: a) il pregiudizio attiene ad aspetti strettamente connessi con l'individualità intrinseca della persona (si pensi al danno esistenziale e alla sofferenza psichica); b) il danno può manifestarsi anche dopo molto tempo dalla cessazione della condotta lesiva, pure sottoforma di una forte recrudescenza di una patologia inizialmente tollerabile. Il termine prescrizionale è dunque “mobile”, ben diverso da quello afferente il mancato adempimento di obbligazioni di carattere patrimoniale, ma anche da quello relativo a fattispecie in cui il danno si manifesta immediatamente, pur potendosi estendere in futuro la dannosità, come può accadere in presenza di un danno meramente biologico.

Compito del giudice di merito è ricercare il dies a quo, doverosamente bilanciando i contrapposti interessi delle parti, secondo una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità, in difetto di violazione di legge o di mancata valutazione di acquisizioni determinanti ai fini del decidere.

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