Comunione convenzionale

Stefano Mazzeo
26 Aprile 2022

La comunione convenzionale costituisce un regime alternativo alla comunione legale stabilita dal legislatore per la determinazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi. A differenza della comunione legale, la comunione convenzionale si instaura per scelta manifestata formalmente con apposita convenzione avanti al notaio...
Inquadramento

La comunione convenzionale costituisce un regime alternativo alla comunione legale stabilita dal legislatore per la determinazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi. A differenza della comunione legale, infatti, la comunione convenzionale si instaura per scelta manifestata formalmente con apposita convenzione avanti al notaio, modificando in tutto o in parte il regime della comunione dei beni legalmente previsto, con il limite delle norme inderogabili relative all'amministrazione dei beni della comunione, all'uguaglianza delle quote ed all'esclusione di alcuni determinati beni dalla comunione.

In evidenza

I coniugi possono scegliere solo tra il regime di comunione legale e quello di comunione convenzionale, dal momento che quest'ultimo include ogni possibile modifica del regime di comunione; altrimenti dovranno abbandonare tale regime patrimoniale e scegliere la separazione dei beni.

Il regime della comunione convenzionale è stato largamente modificato con la riforma del diritto di famiglia della l. 19 maggio 1975, n. 151 agli artt. 210 e 211 c.c., con inserimento nella sezione IV del capo VI del titolo VI del primo libro del codice civile, in sostituzione della abrogata disciplina relativa ai beni parafernali. Questo istituto è stato previsto dal legislatore per dare l'opportunità ai coniugi di includere determinati beni all'interno della comunione, con l'ovvia ratio di garantire un maggiore spazio all'autonomia privata: la discussione è, pertanto, incentrata sull'effettiva portata dei patti che istituiscono tale convenzione.

Natura e disciplina previgente

In primo luogo, vi è da sottolineare che, con la riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), è avvenuto un radicale mutamento nel regime patrimoniale della famiglia. Fino a quella data il regime residuale era quello della comunione dei beni: ciascuno dei coniugi rimaneva titolare esclusivo dei beni acquistati durante il matrimonio, mantenendone anche il godimento e l'amministrazione in via esclusiva. Con la riforma, il regime previsto in via automatica è divenuto quello della comunione dei beni, derogabile con la scelta del regime di separazione oppure della comunione convenzionale.

Nel sistema del codice del 1942 era già presente la figura della comunione, con una disciplina molto più estesa e circostanziata rispetto a quella attuale: era possibile, tuttavia, che i coniugi stabilissero "patti speciali per la comunione", come previsto dal previgente art. 216 c.c., derogando al regime della comunione legale. Precedentemente, per di più, le convenzioni matrimoniali non potevano essere stipulate dopo la celebrazione del matrimonio, se non nei casi previsti dalla legge, né potevano essere mutate nel tempo, a differenza di quanto stabilito oggi dall'art. 162 c.c..

Il novellato art. 210 c.c., pur attribuendo ai coniugi la facoltà di modificare il regime della comunione legale dei beni mediante una convenzione stipulata ai sensi dell'art. 162 c.c., prevede comunque delle limitazioni all'autonomia negoziale dei coniugi, che si analizzeranno meglio in seguito. Il limite della comunione convenzionale è oggi di natura solo negativa, a differenza del passato.

La maggiore autonomia riservata ai coniugi dalla normativa riformata consente agli stessi, quantunque la categoria dei beni personali sia più nutrita rispetto all'assetto previgente, di estendere la comunione entro le possibilità offerte dall'art. 210 c.c.. Il regime della "comunione degli utili e degli acquisti", come era definita la comunione ante 1975, prevedeva che facessero parte di tale comunione i beni personali dei coniugi presenti e futuri, oltre agli acquisti effettuati dai coniugi durante la comunione, anche separatamente ed a qualsiasi titolo, mentre erano personali i beni «derivanti da donazione o da successione, ovvero fatti col prezzo dell'alienazione della cosa già appartenente in proprio a uno dei coniugi, purché in quest'ultimo caso ciò risulti espressamente dall'atto di acquisto». Tale elenco è stato notevolmente ampliato dalla recente previsione legislativa: il vigente art. 179 c.c. statuisce che sono beni personali, oltre ai beni derivanti da donazione o successione, anche i beni di titolarità di ciascun coniuge prima del matrimonio, i beni di uso strettamente personale, i beni destinati all'esercizio della professione ed i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa. Naturalmente, questa estensione da parte del legislatore del novero dei beni personali sottratti alla comunione lascia un ampio margine di azione alla comunione convenzionale.

In conclusione, è importante sottolineare che la disciplina pre-riforma collocava gli accordi fra gli sposi in primo piano rispetto alla disciplina della comunione in generale, destinata ad avere una funzione integrativa dei "patti speciali" posti in essere dai coniugi; oggi, il regime della comunione legale ha di molto esteso le categorie di beni estranee alla comunione, ma la formulazione del nuovo art. 210 c.c., in combinato disposto con l'art. 162 c.c., consente ai coniugi di modificare in ogni momento il loro regime patrimoniale di comunione.

Ed è proprio in termini di “comunione legale modificata” che la dottrina più specialistica discetta allorquando è chiamata ad esprimersi sulla natura giuridica della comunione convenzionale in considerazione della quale le norme di cui agli artt. 210 e 211 c.c. non avrebbero altro scopo che quello di stabilire quali norme della comunione legale abbiano carattere imperativo e quali, invece, carattere dispositivo (sul punto Iodice-Mazzeo ne Il regime patrimoniale della famiglia, Giuffrè editore, seconda edizione, Milano 2021).

Limiti e convenzioni che ampliano o riducono l'oggetto della comunione legale

I maggiori dubbi relativamente alla comunione convenzionale vengono solitamente sollevati in relazione all'effettiva libertà dei coniugi di delimitare l'oggetto della comunione, in deroga al regime legale. Le limitazioni imposte ai coniugi nel determinare il contenuto della comunione convenzionale vengono distinte in limiti di carattere generale e limiti specifici della comunione convenzionale.

I primi sono costituiti da tutti quei paletti imposti dal legislatore ai vari tipi di regimi patrimoniali previsti, quali ad esempio l'inderogabilità delle norme che disciplinano i diritti ed i doveri matrimoniali, come l'art. 143 c.c.. Nei limiti generali è possibile, tuttavia, anche rinvenire le limitazioni di cui agli artt. 161 o 166-bis c.c., l'uno che vieta ai coniugi di configurare il contenuto della comunione attraverso il generico richiamo a disposizioni esterne o agli usi ed imponendo ai coniugi di esprimere concretamente il contenuto dei patti che intendono sottoscrivere, l'altro che mira a sanzionare con la nullità ogni convenzione che istituisca una dote o altro privilegio a favore di un coniuge. I limiti particolari, d'altronde, sono previsti chiaramente dall'art. 210 c.c., sia avendo riguardo alle categorie di beni escluse dal possibile oggetto di comunione convenzionale, ovvero le lettere c), d) ed e) dell'art. 179 c.c., sia con l'esplicita affermazione dell'inderogabilità delle norme relative, da un lato, all'amministrazione dei beni comuni e, dall'altro, all'uguaglianza delle quote sui beni oggetto della comunione. Il regime della comunione convenzionale riprende lo schema della comunione di tipo germanico, in cui l'interesse individuale di ciascun partecipante viene subordinato all'interesse collettivo del gruppo famiglia, per cui è da escludere che il singolo coniuge possa cedere a terzi la propria quota oppure godere od amministrare il bene escludendo gli altri soggetti partecipanti.

Suscita molto interesse, oltretutto, l'inderogabilità di altri due limiti particolari: la disciplina di cui agli artt. 186 ss. c.c., in tema di responsabilità dei beni comuni, e le disposizioni sullo scioglimento della comunione previste agli artt. 191 ss. c.c.. In relazione all'inderogabilità della disciplina della responsabilità dei beni comuni, la dottrina prevalente (G. Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. not., 1991) ritiene che tali norme siano poste a tutela dei creditori e, per questo, risultano essere vietati patti in deroga in quanto radicalmente nulli per violazione di norma imperativa ex art. 1418 c.c.. La applicabilità della disciplina relativa allo scioglimento della comunione in dottrina è oggetto di grandi dibattiti: da un parte, vi è chi afferma l'inderogabilità di tali norme senza problemi (F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato Cicu-Messineo, Le convenzioni matrimoniali, Famiglia e impresa, II, 1984), da altra parte, si osserva come non sia chiaro se per i coniugi sia possibile stabilire ulteriori cause di scioglimento della comunione rispetto a quelle previste e, soprattutto, se essi possano pattuire l'inoperatività di alcune ipotesi di scioglimento per legge.

Benché vi siano, dunque, queste chiare delimitazioni all'autonomia privata, il tenore letterale dell'art. 210 c.c. non lascia dubbi sul fatto che i coniugi possano ampliare le categorie di beni previsti nella comunione rispetto a quanto previsto dalla disciplina della comunione legale.

È, pertanto, pienamente ammissibile una comunione convenzionale avente ad oggetto i beni che erano di titolarità esclusiva di ciascun coniuge prima del matrimonio o rispetto ai quali il medesimo era titolare di un diritto reale di godimento (art. 179, lett. a), c.c.), ed i beni acquistati con il prezzo del trasferimento di altri beni personali o con il loro scambio (art. 179, lett. f), c.c.), eccettuati i beni acquistati con il prezzo del trasferimento o con lo scambio dei beni personalissimi.

Molto dibattuta, invece, l'ipotesi d'inclusione dei beni di cui all'art. 179, lett. b), c.c., derivante da successione e donazione, in considerazione del fatto che l'accordo programmatico, e quindi non relativo a beni già di proprietà dei coniugi, potrebbe profilarsi in contrasto con il divieto di donazione di beni futuri ex art. 771 c.c. o col divieto di patti successori ex art. 458 c.c. (per l'ammissibilità dell'inclusione di tali beni nella comunione convenzionale si veda G. Lo Sardo, La comunione convenzionale cit., in senso negativo G. Alcaro, D. Sciumbata La comunione convenzionale, in Il nuovo diritto di famiglia. Contributi notarili, 1975).

Sarebbero poi ammessi a formare oggetto della comunione convenzionale anche i beni della comunione cd. de residuo, mentre ne rimarrebbero del tutto estranei i beni destinati all'esercizio dell'impresa ex art. 178 c.c., difficilmente conciliabili con i vincoli in tema di amministrazione imposti in regime di comunione.

Una parte della dottrina (G. Alcaro, D. Sciumbata, La comunione convenzionale, cit.), infine, ammette anche la possibilità di restringere convenzionalmente il contenuto della comunione rispetto a quanto previsto dall'art. 177 c.c. per la comunione legale, portando a sostegno di tale tesi l'art. 2647 c.c. per il fatto che prevede la trascrizione di convenzioni che escludono beni dalla comunione dei coniugi. Tale opinione è, però, fortemente contrastata da molti autori (G. De Rubertis, Pubblicità immobiliare e rapporti patrimoniali tra coniugi, in Vita not., 1984; P. Rescigno, Riconciliazione dei coniugi e regime patrimoniale, in Dir. giur., 1986) sull'assunto che ciò violerebbe l'art. 210 c.c. avendo riguardo all'inderogabilità dei principi in tema di uguaglianza delle quote dei beni oggetto della comunione legale.

A tal proposito, è importante segnalare la questione della validità del cd. rifiuto del coacquisto, ovvero il caso in cui i coniugi in comunione legale acquistino insieme un bene ed uno dei due rifiuti l'acquisto, negando efficacia alla disposizione ex lege dell'art. 177 c.c.; al riguardo, è intervenuta una prima decisione della Cassazione, la sentenza n. 2688/1989, che ha ammesso tale ipotesi ritenendo precipua l'autonomia decisionale del coniuge. Poco tempo dopo, nondimeno, la Suprema Corte ha totalmente rivisto la sua posizione con la sentenza n. 2954/2003, che ha tracciato l'orientamento prevalente sino ad oggi anche in materia di inderogabilità delle categorie di beni personali che rientrano necessariamente nella comunione legale ex art. 177 c.c.

In conclusione, allo stato del dibattito dottrinale, vi sarebbero molti limiti inderogabili di cui i coniugi devono tenere conto nell'ambito della determinazione di un regime di comunione convenzionale: la categoria dei beni all'interno della comunione può essere liberamente ampliata, seppur con alcuni accorgimenti, mentre non potrà essere ridotta al di sotto dei minimi di legge.

Vale la pena, tuttavia, di osservare come quanto detto in termini di riduzione di beni in comunione con espresso riferimento ad esclusioni parziali o totali riguardi non solo l'esclusione di beni che sarebbero oggetto di comunione immediata (cfr. art. 177, primo comma lett. a), d) e ultimo comma c.c.), ma anche l'esclusione di beni che sarebbero oggetto di comunione de residuo (cfr. art. 177, primo comma lett. b) e c) e art. 178 c.c.). Occorre comunque dare atto del fatto che il problema non appare ancora allo stato attuale risolto e condiviso in dottrina ed in giurisprudenza. Il giudice di legittimità infatti resta fermo sulla posizione dell'inammissibilità del cambio di regime con atto unilaterale di un coniuge e dell'impossibilità dell'esclusione di un singolo bene dal regime prescelto, senza una modifica generale del regime scelto.

Forma e pubblicità

Il regime della comunione convenzionale, come tutte le convenzioni matrimoniali, segue la disciplina dettata dall'art. 162, comma 1, c.c., in combinato disposto con l'art. 210, comma 1, c.c., richiedendo per la validità la forma dell'atto pubblico redatto dal notaio. L'orientamento prevalente ritiene necessaria la presenza dei testimoni, come richiesto dall'art. 48 legge notarile (G. De Rubertis, Sulla necessità dell'intervento dei testimoni nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. giur., 1983).

In ogni caso, la comunione convenzionale va annotata, ex art. 162, comma 4, c.c., a margine dell'atto di matrimonio ed, ove abbia ad oggetto beni immobili, è altresì soggetta a trascrizione ai sensi degli artt. 2643, n. 3 e 2647 c.c., pur essendo quest'ultimo articolo riferito solo alle convenzioni matrimoniali che «escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi», e non al regime della separazione dei beni. A tal fine è molto importante sottolineare che questo regime di doppia pubblicità è funzionale, per l'annotazione, a rendere opponibile ai terzi l'esistenza del vincolo derivante dalla comunione, mentre la trascrizione esprime il suo tipico effetto prenotativo in caso di pluralità di alienazioni. Parte della dottrina (G. Lo Sardo, La comunione convenzionale cit.), inoltre, ritiene che la doppia pubblicità sia altresì necessaria in virtù del fatto che le notizie desumibili dall'annotamento, essendo costituite solo dalle generalità degli sposi e del notaio rogante, pure se contemperate da un esame della convenzione matrimoniale, non avrebbero mai garantito la conoscenza degli spostamenti patrimoniali concreti dei beni.

In altri termini, qualora venga attuato il regime di comunione convenzionale, saranno trascritte nei registri immobiliari sia la convenzione (già annotata ai sensi dell'art. 162 c.c.) che l'atto di acquisto: ai sensi dell'art. 2643 n. 3, c.c. (se trattasi di convenzione di ampliamento) e ai sensi dell'art. 2647, primo comma, c.c. (se trattasi di convenzione di riduzione). In tal modo i terzi potranno conoscere nel primo caso l'esistenza e, nel secondo caso, l'inesistenza del vincolo, qualora i beni acquistati dai coniugi debbano essere alienati.

(Ad esempio: Tizio e Tizia, che vivono in regime di comunione legale, convengono di escludere da essa i fondi rustici. L'atto viene immediatamente annotato ai sensi dell'art. 162 c.c. Successivamente, Tizio acquista il fondo Tusculano e deve, in questa occasione, trascrivere l'atto di acquisto citando nella nota la convenzione che fu già annotata.

Quando Tizio andrà a vendere il predetto fondo, gli acquirenti, dalla nota di trascrizione, apprenderanno che Tizio può disporre liberamente del bene senza il consenso dell'altro coniuge, non trovandosi quel bene in comunione legale).

Le obbligazioni contratte prima del matrimonio

L'art. 211 c.c. si riferisce all'ipotesi in cui, sulla base di una convenzione matrimoniale stipulata ai sensi dell'art. 162 c.c., vengano inclusi nella comunione uno o più beni determinati che prima del matrimonio erano di proprietà esclusiva del singolo coniuge.

È evidente che, in questo caso, il legislatore ha inteso tutelare i terzi creditori particolari del coniuge proprietario, stabilendo che i beni della comunione rispondono delle obbligazioni contratte dal coniuge su beni poi confluiti nella comunione stessa. La ratio legis è proprio quella di evitare che i terzi, creditori del singolo coniuge precedentemente al matrimonio, vengano a trovarsi, per effetto della convenzione suddetta, posposti rispetto ai creditori della comunione, in virtù della disposizione prevista all'art. 189, comma 2, c.c.. L'art. 211 c.c., in deroga al disposto dell'art. 189, comma 2, c.c., consente proprio ai creditori di agire sui beni comuni in via principale e paritetica rispetto ai creditori della comunione; inoltre, in luogo della garanzia prevista dall'art. 189 c.c., costituita dal «valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato», i creditori potrebbero contare sulla garanzia patrimoniale rappresentata dal valore dei beni di proprietà del singolo coniuge volontariamente immessi in comunione.

La dottrina (M. Confortini, La comunione convenzionale tra coniugi, in G. Bonilini, G. Cattaneo (diretto da), Il diritto di famiglia, Milano, 1997), difatti, ha chiarito che garanzia delle obbligazioni contratte precedentemente al matrimonio sarebbe unicamente il valore dei beni poi confluiti in comunione, non i singoli beni in sé; di conseguenza, i singoli creditori anteriori al matrimonio non potrebbero agire esecutivamente sui soli beni personali divenuti comuni per effetto della convenzione, ma indistintamente su tutti i beni della comunione.

Altra dottrina (Finocchiaro-Finocchiaro, Diritto di famiglia, Milano 1984) ha interpretato estensivamente la norma in base alla sua ratio, intendendo l'espressione «obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio» come obbligazioni contratte prima della stipula della comunione convenzionale.

Gli artt. 189 e 211 c.c., peraltro, risulterebbero essere solo apparentemente in contrasto, differenziandosi per il loro diverso oggetto: mentre l'art. 211 c.c. ha ad oggetto il valore di quei beni che precedentemente alla loro immissione in comunione convenzionale erano di proprietà esclusiva del singolo coniuge, l'art. 189 c.c. riguarda invece tutti gli altri beni oggetto della comunione, in relazione ai quali il comma 2 prevede che, sia pure in via sussidiaria rispetto ai creditori della comunione, i creditori personali dei coniugi per debiti anteriori al matrimonio possano soddisfarsi fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.

Viene, in conclusione, a delinearsi la seguente disciplina: i creditori personali dei singoli coniugi anteriori al matrimonio potrebbero soddisfarsi, alla pari con i creditori della comunione, fino a concorrenza del valore dei beni eventualmente immessi in comunione convenzionale; oltre tale limite di valore, invece, i creditori particolari verrebbero postergati rispetto a quelli della comunione e potrebbero soddisfarsi sui beni comuni residui soltanto in via sussidiaria rispetto ai creditori della comunione e, comunque, nei limiti della quota del coniuge obbligato(sul punto, in ogni caso, per una trattazione più esaustiva cfr. C. Iodice, S. Mazzeo, Il regime patrimoniale della famiglia, Giuffrè, seconda edizione 2021, 2015).

Casistica

Disciplina transitoria post riforma l. n. 151/1975

I coniugi uniti in matrimonio prima dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975, n. 151, e che, con apposita convenzione, abbiano deciso di ricomprendere nella comunione legale tutti i loro beni, ivi compresi quelli personali acquistati prima del matrimonio, hanno stipulato un atto che è da ritenere estraneo alla fattispecie tipica prevista dall'art. 228, comma 2, l. n. 151/1975, e che, tuttavia, è valido poiché manifesta la volontà di dare vita ad una comunione convenzionale - istituto previsto dall'art. 210 c.c. (esercitando una facoltà che solo arbitrariamente avrebbe potuto essere esclusa per le famiglie già costituite). (v. Cass., 28 agosto 2008, n. 21786)

Estensione dell'oggetto della comunione tra i coniugi

L'espressa volontà contenuta nella convenzione prevista e disciplinata dall'art. 228 della l. 151/1975 di estendere l'oggetto della comunione tra i coniugi ai beni acquistati anteriormente al matrimonio, in deroga alla previsione normativa in ordine ai beni cadenti in comunione (art. 177 c.c. e segg.), comporta la costituzione di una comunione convenzionale, figura ammessa ed espressamente contemplata dall'art. 210 c.c., che consente ai coniugi di modificare il regime della comunione legale. (App. Catania, sez. II, sent. 14 febbraio 2020, 97).

Liceità del cd. rifiuto di coacquisto

Con riguardo a coniugi in regime di comunione legale dei beni, nel caso di atto pubblico con il quale uno dei coniugi acquisti un bene immobile (od un mobile iscritto in pubblico registro) a proprio esclusivo favore, la contestuale dichiarazione dell'altro coniuge di consenso a tale acquisto, impedisce che il bene medesimo cada in comproprietà dello stesso, ancorché non ricorrano le ipotesi specificamente contemplate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c. e, quindi, ne consente l'espropriazione per l'intero in Sede di esecuzione promossa dal creditore del compratore, atteso che, nella disciplina della suddetta comunione, il diritto alla quota in comproprietà deve ritenersi suscettibile di siffatta rinuncia, indipendentemente dalle ragioni che possano determinarla (v. Cass., 2 giugno 1989, n. 2688)

Rifiuto di coacquisto e natura personale del bene compravenduto

In regime di comunione legale, la partecipazione alla stipula del coniuge formalmente non acquirente e l'eventuale dichiarazione di assenso, da parte sua, all'intestazione personale del bene, immobile o mobile registrato, all'altro coniuge, non hanno efficacia negoziale o dispositiva, sotto forma di rinuncia, del diritto alla comunione incidentale sul bene acquisendo, nè sono elementi di per sè sufficienti ad escludere l'acquisto dalla comunione, ma hanno carattere ricognitivo degli effetti della dichiarazione, resa dall'altro coniuge, circa la natura personale del bene, se ed in quanto questa oggettivamente sussista, atteso che il secondo comma dell'art. 179 c.c. è norma limitativa dei casi di esclusione della comunione risultanti dalle lett. c), d) ed f) del primo comma dello stesso articolo, nel senso che essa, al fine di escludere la comunione legale, richiede, in caso di acquisto di un bene immobile o di un bene mobile registrato, oltre ai requisiti oggettivi previsti dalle citate lett. c), d) ed f), che detta esclusione risulti espressamente dall'atto di acquisto, allorché l'altro coniuge partecipi al contratto. Da ciò consegue che, ove tale natura personale del bene manchi (e tale mancanza si ha allorché il bene, senza essere di uso strettamente personale o destinato all'esercizio della professione del coniuge, venga acquistato con danaro del coniuge stesso, ma non proveniente dalla vendita di beni personali), la caduta in comunione legale non è preclusa dalla detta partecipazione e dichiarazione, tanto più che, nella pendenza di tale regime, il coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie elencate nel primo comma dell'art. 179 c.c.), salvo che sia previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia. (v. Cass., 27 febbraio 2003, n. 2954)

Sommario