In caso di lesioni durante l'attività sportiva la teoria del "rischio consentito" è inidonea ad individuare il discrimine tra condotte lecite e non
04 Maggio 2022
Massima
In tema lesioni occorse nel corso di attività sportiva amatoriale, è da abbandonare - perché errato - il precedente orientamento di legittimità riconducibile al principio del “rischio consentito”, dovendo l'accertamento di responsabilità essere condotto secondo i consueti criteri di accertamento della responsabilità penale: verifica oggettiva del fatto dannoso (azione e nesso causale) e dell'elemento soggettivo (dolo o colpa)”. Il caso
Tizio propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello di Venezia che aveva confermato le statuizioni civili a suo carico, in relazione al reato di lesioni colpose in danno di Caio, costituitosi parte civile (agli effetti penali, è intervenuta estinzione del reato per prescrizione). Nel corso di una partita di calcio tra squadre amatoriali, Tizio (attaccante della squadra “G.”) e Caio (difensore della “V.V.”) correvano affiancati lungo la fascia sinistra del campo, rincorrendo la palla lanciata verso la porta della squadra “G.”; Caio era riuscito a frapporsi tra l'attaccante e la linea di fondo, in modo da impedirgli il recupero del pallone. Nel tentativo di evitare l'uscita della sfera dal campo di gioco, Tizio eseguiva una “scivolata”, colpendo l'avversario e provocandogli lesioni.
La Corte d'Appello, nel confermare la condanna civile per il danno cagionato alla vittima, riteneva rilevante la circostanza che il fallo di gioco fosse avvenuto quando la palla era ormai irraggiungibile, tanto più che tra essa e la linea di fondo si era interposto il difensore; il tentativo dell'attaccante veniva ritenuto “inutile” e determinante un “rischio gratuito”, anche in considerazione del carattere dilettantistico dell'incontro. Avverso questa sentenza proponeva ricorso principale Tizio, adducendo due motivazioni distinte: 1. errata disapplicazione alla condotta dell'imputato della scriminante del “c.d. rischio consentito”; 2. vizio di motivazione in merito al riconosciuto nesso di causa tra l'azione attuata da Tizio ed il danno prodottosi. La questione
La questione in esame è la seguente: accertato il verificarsi di un evento lesivo in ambito sportivo (agonistico o amatoriale che sia), qual è il criterio al quale il Giudice di merito dovrà attenersi nel valutare la sussistenza o meno di profili di responsabilità penale a carico dell'imputato? Le soluzioni giuridiche
Il ricorrente lamenta la mancata applicazione da parte della corte territoriale della teoria del “c.d. rischio consentito” (cfr. Cass. pen., sez. 5, n. 17923/2009), ritenendo che tale causa di giustificazione “non codificata” sia da applicare e sussista allorché l'azione lesiva non integri infrazione di regola sportiva o, anche in tale evenienza, sia compatibile con la natura della disciplina praticata ed il contesto (amatoriale od agonistico) in cui si svolge. In carenza di tale causa di giustificazione, il fatto di reato sarà doloso o colposo a seconda che si configurino volontarietà, accettazione del rischio o semplice colpa. Quanto precede discenderebbe dal presupposto che l'atleta abbia accettato l'ineliminabile rischio correlato alla pratica di attività che consentono (o, addirittura, si fondano) sul contatto anche violento, la cui liceità dovrà valutarsi in termini di “fisiologica ragionevolezza” e la cui misura è determinata dal rispetto delle regole tecniche: tali norme specifiche offrono la misura del rischio ragionevolmente prevedibile e, dunque, “consentito”. Il richiamato orientamento, peraltro, riconosce come la violazione di tali regole tecniche, seppur costituente illecito sportivo, non determini ex se la rilevanza penale della trasgressione, dovendo a tale fine concorrere il duplice presupposto della volontarietà dell'infrazione e dell'abnormità della condotta.
A parere della Suprema Corte, il motivo addotto dal ricorrente non può essere accolto, in quanto la teoria invocata (seppur effettivamente riconducibile al vigente orientamento di legittimità) pare non soddisfacente ai fini dell'individuazione della rilevanza penale di eventi lesivi verificatisi in ambito sportivo; il limite che i Giudici ravvisano nel riferimento a suddetta “causa di giustificazione non codificata”, risiede nell'incapacità di tale principio di delineare i criteri giuridici che, in concreto, il Giudice di merito dovrà adottare nell'analizzare la condotta. Tale teoria, infatti, presuppone una valutazione di conformità rispetto al comportamento dell'”agente modello” (o ”homo eiusdem condicionis et professionis”), la cui valenza è stata oggetto di critica da parte della “giurisprudenza più recente ed accorta in tema di colpa”, in quanto la pretesa di conformità della condotta a quella “dell'agente ideale”, pone un modello comportamentale basato su “parametri soggettivi ed irrealistici”. Nell'adottare suddetto principio, dunque, sul Giudice grava il compito preventivo di individuare le caratteristiche “normali” del modello di riferimento, sulle quali parametrare il giudizio di responsabilità, con valutazione indebitamente soggettiva e, verosimilmente, influenzata dalle conseguenze più o meno gravi dell'evento (come non è lecito che sia). L'individuazione della condotta pretesa, ai fini della comparazione con quella concreta, si tramuta in “una vera e propria opera creatrice del giudice”, come tale determinante l'esercizio di una discrezionalità giudiziale, confliggente con la necessita di determinatezza e prevedibilità della norma incriminatrice (così Cass, Pen., sez. 4, n. 32899/2021). La decisione in commento, dunque, si allontana dal solco della giurisprudenza precedente, stabilendo che “nell'analisi dell'eventuale responsabilità dell'atleta (…) debba essere abbandonato l'orizzonte del rischio consentito e dell'agente modello, foriero di eccessive incertezze nell'applicazione giudiziale”, a favore del ritorno all'adozione “dei consueti criteri di accertamento della responsabilità penale nei reati caratterizzati dall'evento: azione e nesso causale e configurabilità della colpevolezza dell'agente, sotto il profilo della sussistenza del dolo o della colpa”. L'analisi dei Giudici di legittimità prosegue con l‘enunciazione dei criteri da adottare ai fini del giudizio di rilevanza penale della condotta, in ambito sportivo. Ebbene: se ai fini dell'individuazione di quella (i) dolosa non paiono sussistere particolari difficoltà, lo stesso non può dirsi in ambito di (ii) condotta colposa. (i) Il dolo, pur nel contesto sportivo, si sostanzia in un comportamento violento, al di fuori di una normale azione di gioco o con modalità del tutto avulse dall'ordinario contesto agonistico, ove la finalità lesiva costituisca spinta prevalente all'azione, indipendentemente dalla trasgressione delle regole di gioco (cfr. Cass. Pen., Sez. 5, 21120 del 29/01/2018) (ii) La verifica della “colpa sportiva” dovrà ineludibilmente riferirsi ai criteri ordinari di cui all'art. 43 c.p., con un procedimento di verifica di un'eventuale violazione di regole cautelari, generiche o specifiche, difformi rispetto alla regola tecnico – sportiva applicabile. Si richiama, sul punto, la già menzionata sentenza n. 32899/2021, secondo cui “in sede di accertamento il giudice deve indicare la regola cautelare violata preesistente al fatto, e quindi specificare quale sia – sulla base della diligenza, prudenza e perizia – in concreto ed ex ante il comportamento doveroso prescritto”.
La Suprema Corte si sofferma poi sulla distinzione tra regole sportive e regole penali, in quanto riferite a rischi diversi: quelli (a) sportivi, conosciuti ed accettati dagli atleti, consapevoli del rischio insito nella pratica sportiva che svolgono; quelli (b) penali, conseguenti ad azioni che esulano dall'ordinario sviluppo del gioco, aventi in “quid pluris” che le rende perseguibili, se caratterizzate dall'elemento soggettivo. È proprio sulla percezione che gli stessi protagonisti del gioco hanno dell'accettabilità delle condotte degli avversari che la Suprema Corte pone l'accento, evidenziando la centralità “dell'affidamento” che gli sportivi fanno sulla lealtà degli avversari, indicandone il “tradimento” come fondante il giudizio di colpevolezza: “Il principio di affidamento, in ambito sportivo, concorre a delineare i confini e i contenuti del dovere di diligenza, così contribuendo a definire l'area del rischio penale”. E così l'atleta, pur attendendosi, entro certi limiti, azioni ostruzionistiche o addirittura lesive (vedi il pugilato, le arti marziali, etc.) dei rivali per il perseguimento del risultato (secondo le regole della disciplina praticata), non è certo disponibile a rischiare la propria incolumità in relazione a comportamenti esorbitanti il contesto sportivo; il carattere agonistico o amatoriale della competizione non muta l'affidamento che gli atleti fanno sulla lealtà altrui, incidendo la natura della competizione esclusivamente sulle caratteristiche ed intensità delle azioni di gioco (maggiore per i professionisti rispetto ai dilettanti, così come per le competizioni rispetto agli allenamenti), cui conseguirà il richiamo di diverse regole cautelari applicabili alle differenti situazioni di gioco. In ultimo, la Suprema Corte riafferma l'ininfluenza dell'entità delle lesioni occorse ai fini della corretta valutazione della rilevanza della condotta, improntata alla disamina delle specifiche modalità d'azione, senza riguardo alcuno alle conseguenze dannose che ne siano derivate.
Concluso l'excursus sui profili di valutazione della responsabilità penale sportiva, nel decidere il caso oggetto di ricorso, i Giudici rilevano come la Corte d'Appello abbia dichiarato la responsabilità dell'imputato sulla base di una carente e contraddittoria valutazione del fatto in termini di colpevolezza colposa. Le motivazioni addotte dai Giudici di merito si riferiscono a considerazioni definite “generali, valevoli per qualsiasi contesto agonistico”, inidonee a sciogliere “il nodo centrale della questione, che è quello di stabilire se nel caso contrario vi fu un comportamento colposo giuridicamente rilevante, civilmente sanzionabile in quanto commesso in violazione di una predeterminata regola cautelare, che nel caso non è stata in alcun modo evocata né individuata”. Osservazioni
La sentenza in esame tratteggia in modo chiaro e convincente la disciplina della rilevanza penale delle condotte sportive, adducendo considerazioni condivisibili e, soprattutto, condivise da quella che i giudici stessi definiscono la Giurisprudenza “più recente ed accorta” (cit.). Inserendosi nel più ampio dibattito dottrinario sulla teoria della doppia misura della colpa, prende le distanze dall'impostazione basata sul parametro dell'agente modello, dell'homo eiusdem condicionis et professionis, che manifesta un contenuto ideale ed astratto incapace di essere utilizzato come canone di valutazione della colpevolezza nel suo momento oggettivo. |