La CGUE si pronuncia sui rapporti tra cittadinanza dello Stato del foro e durata della residenza nelle controversie matrimoniali
04 Maggio 2022
Massima
Il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, sancito dall'articolo 18 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che la competenza dei giudici dello Stato membro nel cui territorio si trova la residenza abituale dell'attore, come prevista all'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), sesto trattino, del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, sia subordinata ad un periodo minimo di residenza dell'attore, immediatamente precedente alla sua domanda, di sei mesi inferiore rispetto a quello previsto dall'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), quinto trattino, di tale regolamento, in quanto l'interessato è un cittadino di tale Stato membro Il caso
Nell'agosto 2019 un cittadino italiano, sposato con una cittadina tedesca, lascia il domicilio coniugale che la coppia aveva stabilito in Irlanda e si trasferisce in Austria dove – circa sei mesi dopo – presenta una domanda di scioglimento del matrimonio invocando la competenza del giudice della sua (nuova) residenza abituale sulla base dell'art.3, par.1, lett. a) sesto trattino sebbene egli non abbia la cittadinanza austriaca. A corredo della domanda afferma di volersi giovare di tale titolo di giurisdizione giacchè il termine annuale di cui al quinto trattino della stessa norma sarebbe per lui discriminatorio sulla base del criterio della nazionalità. Respinta la domanda in primo e secondo grado, essendosi i giudici di merito dichiarati incompetenti, la Corte Suprema si interroga sulla fondatezza dei rilievi del ricorrente e solleva un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'UE chiedendole di chiarire l'ambito di applicazione della norma sopra citata. La questione
La questione di diritto affrontata dalla Corte attiene alle caratteristiche della residenza abituale del coniuge in rapporto alla competenza dei giudici dello Stato in cui risiede, ed in particolare alla necessità di chiarire se il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, sancito dall'articolo 18 TFUE, osti a che la competenza dei giudici dello Stato membro di residenza, come prevista all'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), sesto trattino, del regolamento n. 2201/2003, sia subordinata ad un periodo minimo di residenza dell'attore, immediatamente precedente alla sua domanda, di sei mesi inferiore rispetto a quello previsto dall'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), quinto trattino, di tale regolamento, quando l'interessato è un cittadino di tale Stato membro. Le soluzioni giuridiche
La Corte di Giustizia muove da un inquadramento generale del principio di non discriminazione richiamando la propria giurisprudenza in materia e ricordando che detto principio impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia oggettivamente giustificato; ribadisce, inoltre, che la comparabilità di situazioni diverse deve essere valutata tenendo conto di tutti gli elementi che le caratterizzano ed in particolare tenuto conto dell'oggetto e dello scopo dell'atto dell'Unione che stabilisce la distinzione di cui trattasi. Essa procede quindi a valutare se un ricorrente (come quello del caso di specie) che risiede abitualmente nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza e che propone un'azione di scioglimento del vincolo matrimoniale dinanzi ai giudici di tale Stato membro, si trovi in una situazione che non è paragonabile a quella di un attore cittadino dello stesso Stato membro, di modo che non osti al principio di non discriminazione esigere che il primo abbia risieduto per un periodo più lungo nel territorio dello stesso Stato membro prima di poter proporre il suo ricorso. I giudici di Lussemburgo – dopo aver analizzato le regole di competenza di cui all'art.3 del Reg. Bruxelles II-bis ed aver osservato che esse tendono a cercare un equilibrio tra la mobilità delle persone all'interno dell'Unione europea e la certezza del diritto, garantendo l'esistenza di un collegamento effettivo tra l'interessato e lo Stato membro del giudice adito – osservano che le situazioni prese in considerazione dal quinto e dal sesto trattino della norma suddetta non sono paragonabili. Ed invero, il fatto che un coniuge sia anche cittadino dello Stato del foro denota l'esistenza di un legame più forte dal punto di vista istituzionale, giuridico, culturale, linguistico, familiare o patrimoniale; ciò che non vale necessariamente per il coniuge che non ha la cittadinanza dello Stato nel quale acquisisce una nuova residenza abituale. Dalle osservazioni che precedono la Corte arriva a constatare come vi sia un elemento oggettivo – la cittadinanza appunto – che distingue ragionevolmente la situazione di due coniugi che vogliano giovarsi del foro dell'attore, laddove uno solo di essi sia anche cittadino dello Stato del foro. La conclusione a cui la Corte perviene è dunque negativa, rispetto alla domanda portata dal giudice del rinvio: trattandosi di situazioni diverse, non sussiste discriminazione tra il coniuge che non è cittadino dello Stato del foro e che, come tale, deve attendere il decorso del termine annuale prima di proporre domanda di divorzio, ed il coniuge che (essendo cittadino) può invece avvalersi del più breve termine semestrale. Osservazioni
La pronuncia in commento analizza la struttura dell'art.3 del Reg. Bruxelles II-bis e le differenze tra i titoli di giurisdizione in materia matrimoniale: in particolare, quelle sussistenti tra il quinto e sesto trattino della lett. a) del par.1, a mente del quale il termine che un ricorrente deve attendere prima di presentare domanda di divorzio davanti al giudice dello Stato in cui ha stabilito la propria residenza abituale varia da sei mesi ad un anno a seconda che egli sia – rispettivamente – cittadino o non cittadino di quello Stato. L'indagine della Corte si appunta quindi sul diverso rapporto che lega il ricorrente allo Stato del foro, e giunge alla conclusione che l'aver stabilito un diverso termine in funzione del possesso o meno della cittadinanza sia – da un lato – espressione dell'insindacabile discrezionalità del legislatore europeo, e – dall'altro – perfettamente compatibile con l'art.18 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) che dal canto suo vieta “ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità” e stabilisce che il Parlamento Europeo e il Consiglio seguendo la procedura legislativa ordinaria “possono stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni”. In particolare, è interessante notare come la Corte valorizzi il peculiare legame che unisce una persona allo Stato di cui ha la cittadinanza, che a sua volta viene definita come un “vincolo” con lo Stato in questione e viene ritenuta idonea a “determinare il collegamento effettivo che deve sussistere tra l'attore e lo Stato membro i cui giudici esercitano la competenza”. Ciò che non necessariamente si verifica con il coniuge non in possesso della cittadinanza, per il quale non si rinvengono automaticamente (né si presume sussistano, se non appunto dopo il decorso di un lasso di tempo pari ad almeno un anno) quei legami di tipo sociale, culturale, linguistico, familiare o patrimoniale che determinano l'intensità del collegamento di cui il Regolamento necessita per radicare la competenza in capo al giudice adito. Nel caso specifico, in altre parole, la cittadinanza non assurge a criterio di comparazione tra situazioni analoghe ma ad elemento oggettivo che è necessariamente noto al coniuge dell'attore, il quale – proprio per ciò – è in grado di prevedere agevolmente che quest'ultimo radicherà la causa nello Stato di cui ha la cittadinanza (il che garantisce, appunto, la certezza del diritto che il regolamento tende ad assicurare). È vero, come la Corte ammette, che si tratta di una presunzione – né d'altra parte può contestarsi che talvolta la cittadinanza non garantisce che i legami sopra citati siano effettivamente mantenuti – ma è pur vero che la cittadinanza è solo un elemento della più complessa fattispecie rappresentata nell'art.3. La decisione va salutata con favore, in quanto conferma lo spirito del Regolamento Bruxelles II-bis e la bontà della scelta del legislatore europeo, il quale ha certamente deciso di privilegiare il criterio della residenza abituale rispetto a quello della cittadinanza in sé e per sé, ma non perciò ha inteso privare totalmente quest'ultima di significato; al contrario, ha inteso recuperarla sia nel caso di cui alla lett. b) dell'art. 3 (facendola divenire criterio di giurisdizione autonomo, se comune ad entrambi i coniugi) sia nel caso del quinto e sesto trattino della lett. a) allorquando l'ha abbinata al criterio della residenza abituale per rafforzare quest'ultima ed attribuirle un rinnovato valore. |