I rapporti fra sequestri penali e procedure concorsuali fra elaborazione giurisprudenziale e nuovo Codice della crisi

Ciro Santoriello
06 Maggio 2022

La Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al rapporto tra operatività delle misure cautelari reali di cui dispone il giudice penale e procedure concorsuali, specificando quale sia la disciplina per il caso in cui queste ultime siano già state avviate. La Corte richiama inoltre la recente evoluzione legislativa che vedrà la luce con l'entrata in vigore del Codice della crisi di impresa.
La massima

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall'art. 12-bis, comma 1, D.Lgs. 74/2000, prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto di qualsiasi procedura concorsuale (concordato preventivo o fallimento), attesa l'obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro. Di conseguenza, il rapporto tra il vincolo imposto dall'apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull'interesse dei creditori l'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato.

Il caso

Il curatore di un fallimento ricorreva per cassazione avverso l'ordinanza con cui il tribunale, in funzione di giudice del riesame, aveva confermato un decreto di sequestro disposto nei confronti della società poi fallita per reati tributari commessi dai vertici della stessa.

Per quanto dì interesse in questa sede, veniva contestata la possibilità di operare il sequestro preventivo, ex art. 321, comma 2, c.p.p., di beni rientranti nella massa fallimentare. Osservava il ricorrente come la più recente giurisprudenza di legittimità sia orientata nel senso che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, il sequestro preventivo dei beni della società finalizzato alla confisca diretta del profitto non può più essere eseguito, mentre può essere eseguito solo quello finalizzato alla confisca per equivalente sui beni dell'indagato, tant'è che la peculiare natura dell'attivo fallimentare, derivante da tale spossessamento, sarebbe di ostacolo all'applicabilità dell'art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000 che individua, quale discrimine per l'operatività della confisca, l'appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estranea al reato (Cass., sez. un., 13 novembre 2019, n. 45936).

Il Tribunale, invece, aveva ritenuto di aderire ad un diverso criterio ermeneutico, attinente tuttavia ad una fattispecie differente riguardante l'istituto del concordato preventivo (quindi a uno strumento di risoluzione della crisi di impresa volto proprio ad evitare il fallimento) e alla utilizzazione dì un bene oggettivamente ed intrinsecamente pericoloso (che sembrava richiamare il comma 1, e non il comma 2, dell'art. 321 c.p.p.). Tuttavia, anche questo orientamento esclude dalla sottoposizione al sequestro e/o a confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquisito diritti in buona fede, ma nell'ordinanza impugnata si è ritenuto che i soggetti insinuati al passivo non possano essere considerati terzi acquirenti in buona fede, ma senza spiegarne il motivo, nonostante la difesa avesse prodotto documentazione dalla quale risultava pacificamente come vi fossero numerosi crediti maturati da lavoratori subordinati che certamente rientravano tra i soggetti terzi estranei ai reati avendo acquisito diritti di credito, da lavoro subordinato, in perfetta buona fede e in epoca antecedente al sequestro penale.

Senza pregio era poi ritenuto il richiamo alla disciplina presente nel Codice della crisi, stante il fatto che lo stesso, con riferimento a tale tematica, non risultava ancora entrato in vigore al momento della decisione.

La questione

Rinviando per la ricostruzione delle posizioni giurisprudenziali alla luce dell'attuale normativa all'esame della sentenza, in questa sede va esaminato quello che sarà il quadro della disciplina una volta che il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza di cui al D.Lgs. 14/2019 sarà entrato in vigore, se non modificato sul punto.

Con tale testo, il legislatore ha colto l'occasione per dettare una disciplina regolatrice dei rapporti fra procedure concorsuali-esecutive e le diverse figure di misure cautelari reali presenti nel nostro ordinamento (a partire da quelle previste nel codice di procedura penale a quelle del Codice antimafia ed a quelle richiamate dal D.Lgs. 231/2001 in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche ed enti collettivi). Al di là del giudizio che si ritenga di dover fornire in proposito, è comunque innegabile che finalmente, con le previsioni racchiuse negli artt. 317 ss. D.Lgs. 14/2019, si sia pervenuti alla risoluzione di gran parte dei dubbi e delle incertezze applicative che si sono fino ad ora incontrate quando gli strumenti ablatori penali colpiscono beni di un'impresa che, prima o dopo la loro applicazione, vede accertata la propria insolvenza, andandosi così a colmare un vuoto normativo che aveva lasciato spazio alla sedimentazione di letture non omogenee da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, anche a sezioni unite (Cass., sez. un., 9 luglio 2004, n. 29951 e Cass., sez. un., 17 marzo 2015, n. 11170).

In una prima decisione (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951 (cd. Focarelli); se ne veda il commento di MASSARI, Note minime in materia di sequestro probatorio sui beni del fallito, in Giur. it., 2005, 1507; IACOVIELLO, Fallimento e sequestri penali, in Fall., 2005, 1273), che riguardava un sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di proventi di delitti tributari commessi per il tramite di un'associazione a delinquere, la Corte di legittimità riconobbe al giudice penale un compito di raccordo discrezionale tra finalità penalistiche e interessi fallimentari, differenziando – con argomentazione ancora attuale, come vedremo - la soluzione da adottare a seconda della tipologia del provvedimento penalistico preso in considerazione. Secondo la Cassazione infatti, quando si versasse in un'ipotesi di (sequestro preventivo finalizzata a) confisca obbligatoria, essendo l'intervento ablatorio giustificato dalla pericolosità del bene, di cui si dovrebbe precludere in senso assoluto l'utilizzo da parte di chiunque, allora gli interessi dei creditori del fallimento sono destinati inevitabilmente ad essere recessivi rispetto alle finalità proprie dell'intervento penalistico; quindi la res andrebbe senz'altro sottratta alla massa fallimentare. Di contro, quando l'intervento ablatorio non avesse ad oggetto beni pericolosi (e quindi l'adozione della confisca non fosse obbligatoria), allora il giudice penale dovrebbe esercitare la sua discrezionalità per pervenire ad un'adeguata ponderazione degli interessi, prendendo in considerazione la possibilità che le esigenze sottese al sequestro ed alla confisca possano essere comunque realizzate mediante lo spossessamento in capo al fallito del suo patrimonio conseguentemente all'apertura delle procedura concorsuale, ex art. 42 l.fall.

Questa impostazione, tuttavia, non poteva dirsi conclusiva, in quanto il nostro ordinamento penale conosce (e con gli anni sono diventate sempre più numerose) ipotesi di confisca obbligatoria non aventi per oggetto res pericolose come descritte dall'art. 240, comma 2, n. 2, c.p.: si pensi alle diverse previsioni di confisca del profitto del reato presenti nel codice penale o alla confisca del profitto con riferimento agli illeciti tributari o nei confronti di società ed enti collettivi ex D.Lgs. 231/2001. Era quindi da definire ulteriormente quale normativa applicare nel caso in cui, da un lato l'intervento ablatorio del giudice penale fosse sì doveroso, ma non giustificato in ragione della pericolosità del bene e, dall'altro, vi fosse comunque ragione di ritenere che, lasciando la res nella disponibilità del curatore fallimentare, quest'ultima non sarebbe comunque rientrata (nemmeno in modo indiretto) nella disponibilità del condannato alla chiusura della procedura concorsuale. A fronte di un contrasto interpretativo, con un indirizzo che attribuiva al giudice il potere di apprezzare caso per caso la natura dei beni, bilanciando istanze espropriative e fallimentari (Cass., sez. V, 8 luglio 2008, n. 33425; Cass., sez. V, 9 ottobre 2013, n. 48804) ed un altro, minoritario, che valorizzava invece la cifra formale dell'obbligatorietà della confisca sulla base della presunzione assoluta la pericolosità del bene frutto di attività illecita (Cass., sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 19051), le sezioni unite (Cass., sez. un., 15 marzo 2015, n. 11170 - cd. Uniland – su cui, per un commento, cfr. BONTEMPELLI, Sequestro preventivo a carico della società fallita, tutela dei creditori di buona fede e prerogative del curatore, in Arch. pen., 2015, n. 3), pronunciandosi sui rapporti tra confisca ex art. 19 D.Lgs. 231/2001 e fallimento in un'ipotesi di cautela disposta prima della declaratoria fallimentare, affermarono che l'obbligatorietà della confisca non esclude in nuce la salvaguardia di interessi del fallimento, dovendo il giudice armonizzare finalità ablatorie e posizioni dei terzi che, con incolpevole affidamento, abbiano acquistato la titolarità di diritti sui beni dell'ente decotto, non potendo l'equilibrio economico, turbato dall'illecito, essere ripristinato a detrimento di costoro.

È in questo quadro, come detto, di elaborazione esclusivamente giurisprudenziale, che si inserisce la disciplina contenuta nel Titolo VIII del D.Lgs. 14/2019, dedicata per l'appunto ai rapporti fra “liquidazione giudiziale e misure cautelari penali” e che risponde al quesito inerente alla possibilità, per il curatore, con approvazione del giudice delegato, di contare sulla liquidazione di quel determinato bene al fine di far fronte alle spese della procedura e alla soddisfazione dei creditori.

La normativa risponde ad un principio generale espresso dall'art. 317 CCI (non a caso rubricato "Principio di prevalenza delle misure cautelari e tutela dei terzi"), che sancisce – conformemente a quanto proposto da alcuni autori (MEZZETTI, Codice antimafia e codice della crisi: la regolazione del traffico delle precedenze in cui la spunta sempre la confisca, in Arch. pen., 2019, n. 1) – la prevalenza dei provvedimenti ablatori presenti nel codice di procedura penale, a prescindere dalla loro natura facoltativa o obbligatoria, sulla gestione concorsuale; quanto agli interessi dei creditori, questi ultimi, se “soccombono a monte … vengono recuperati a valle, attraverso una pur parziale soddisfazione sui beni confiscati, alle condizioni e secondo le modalità collaudate del D.Lgs. 159/2011” (LEUZZI, I rapporti fra misure ablatorie penali e liquidazione giudiziale nel CCII, in Fall., 2019, 1440. Si veda anche BONTEMPELLI, La tutela dei creditori di fronte al sequestro e alla confisca dalla giurisprudenza “focarelli” e “uniland” al nuovo codice della crisi d'impresa, in Dirittopenalecontemporaneo, Riv. Trim., 2/2019, 123), come dimostrato dalla previsione di cui al nuovo art. 104-bis, comma 1-bis, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 373, lett. a), D.Lgs. 14/2019.

Il quadro che si delinea, dunque, è quello di un tentativo di bilanciamento tra i valori in campo, obiettivo che il legislatore (richiamando e prendendo spunto dai suggerimenti giurisprudenziali che si sono sopra riassunti) persegue differenziando l'ipotesi in cui si sia in presenza di sequestri preventivi finalizzati alla successiva esecuzione di una confisca obbligatoria, secondo quanto dispone il comma 2 dell'art. 321 c.p.p., allorché le esigenze di salvaguardia degli interessi più propriamente penalistici sono comunque destinate a prevalere rispetto ai diritti di terzi, ivi compresi i creditori fallimentari, dalle ipotesi di applicazione delle altre tipologie di sequestro cd. impeditivo e conservativo di cui al comma 1 dell'art. 321 c.p.p., finalizzate ad evitare che la "libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati", nel qual caso le misure adottate in ambito penale sono suscettibili di degradare rispetto alle dinamiche della procedura concorsuale (per un apprezzamento di questa soluzione MILANI, I rapporti fra sequestri e procedure concorsuali, in Dir. Pen. Proc., 2019, 1343).

Questo contemperamento di interessi, come detto, si realizza secondo quanto previsto dagli artt. 318, 319 e 320 CCI.

L'art. 318 fa riferimento al cd. sequestro impeditivo: ritenendosi che con l'apertura della liquidazione giudiziale il debitore perde quella "libera disponibilità" dei propri beni - ivi compresi quelli qualificabili come "cose pertinenti al reato" - suscettibile di aggravare, protrarre o favorire la commissione di illeciti, è previsto dal primo comma della disposizione che la misura cautelare non possa essere disposta dal giudice penale allorché penda una procedura di liquidazione giudiziale, mentre (come prevede il comma 2 dello stesso art. 318) se la gestione concorsuale riguarda un bene già in precedenza assoggettato a vincolo penale, quest'ultimo dove essere revocato dietro richiesta del curatore, con restituzione delle cose in favore della procedura. Ai sensi del terzo comma dell'art. 318, poi, si prevede che sia onere del curatore comunicare all'autorità giudiziaria che aveva disposto (o richiesto) il sequestro la dichiarazione dello stato di insolvenza e di apertura della liquidazione giudiziale, l'eventuale provvedimento di revoca o chiusura della suddetta liquidazione, nonché l'elenco delle cose non liquidate e già sottoposte a sequestro. L'ultimo comma della medesima disposizione, infine, chiarisce che le precedenti disposizioni non si applicano (con permanenza, dunque, della misura reale penale) nei casi concernenti le cose di cui all'art. 146 D.Lgs. 14/2019 non suscettibili di liquidazione, per disposizione di legge o per decisione degli organi della procedura concorsuale.

Per quanto concerne i rapporti tra sequestro conservativo e liquidazione giudiziale, l'art. 319, comma 1, D.Lgs. 14/2019 dispone che in pendenza della procedura concorsuale tale misura cautelare non può essere disposta, mentre, quando il sequestro conservativo sia stato adottato prima dell'apertura della liquidazione, il curatore deve ritenersi legittimato ad impugnare la misura reale per chiederne la revoca, al fine di ottenere la restituzione in favore della procedura delle cose sequestrate. Lo scopo di questa disciplina è evitare l'applicazione o il mantenimento di una misura posta a tutela di determinate categorie di creditori del debitore (i danneggiati dal reato e lo Stato per le sanzioni pecuniarie) rispetto agli altri, tenuti a concorrere sul suo patrimonio secondo il principio della par condicio e la scelta del legislatore è conforme a quanto sostenuto in precedenza in sede giurisprudenziale ove si affermava che il sequestro conservativo previsto dall'art. 316 c.p.p. – in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto – rientrasse, in caso di fallimento dell'obbligato, nell'area di operatività del divieto di cui all'art. 51 l.fall., per il quale dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951).

Quanto invece ai rapporti fra procedura di liquidazione giudiziale e sequestro finalizzato alla confisca – nozione che ricomprende sia quella disciplinata dall'art. 240 c.p. con riferimento al prezzo o profitto del reato, sia quella allargata di cui al “nuovo” art. 240-bis c.p., sia le ipotesi di confisca per equivalente, di prevenzione e, infine, la confisca "sanzione" prevista dall'art. 19 D.Lgs. 231/2001 – il legislatore del 2019, mediante la menzionata riforma dell'art. 104-bis disp. att. c.p.p., ha deciso di far riferimento alla disciplina contenuta del Codice antimafia ed in particolare a quanto dispone il Titolo IV del Libro I con riferimento alla salvaguardia dei diritti dei terzi.

La decisione della Cassazione

Il ricorso – nel caso di specie - è stato rigettato.

La Cassazione ritiene che sul tema sollevato dal ricorrente vada accolto l'indirizzo giurisprudenziale (Cass., sez. III, 8 gennaio 2020, n. 15776; Cass., sez. III, 1 marzo 2016, n. 23907), in forza del quale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall'art. 12-bis, comma 1, D.Lgs. 74/2000, prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto di qualsiasi procedura concorsuale (concordato preventivo o fallimento), attesa l'obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro. Di conseguenza, il rapporto tra il vincolo imposto dall'apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull'interesse dei creditori l'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato; rispetto a tale conclusione non vale opporre la presenza della dichiarazione di fallimento: i diritti di credito vantati dai terzi verso la procedura concorsuale non sarebbero ricompresi nella clausola di esclusione di cui all'art. 12-bis, comma 1, D.Lgs. 74/2000, in quanto l'unico limite alla confiscabilità, secondo l'ambito di applicazione della norma richiamata, sarebbe rappresentato dalla "appartenenza" del bene a persona estranea al reato.

Il contrasto di giurisprudenza, evidenziato in sede di ricorso, a dire della Cassazione non sarebbe sussistente o, meglio, avrebbe un ambito assai più limitato rispetto a quanto sostenuto dal ricorrente. Non vi è nessun dubbio, infatti, che sul tema dei rapporti tra procedura concorsuale e sequestro penale la giurisprudenza sia tetragona nel sostenere come prevalente l'esecuzione del provvedimento cautelare laddove quest'ultimo sia intervenuto prima della dichiarazione di fallimento della società; vi sarebbe invece maggiore incertezza nella sola ipotesi in cui, come peraltro poteva riscontrarsi nella vicenda in esame, la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro.

Con riferimento a quest'ultima ipotesi, la decisione in commento afferma tuttavia che la sequenza temporale tra i due vincoli non è un aspetto di per sé dirimente per la soluzione della questione e ciò in considerazione del differente ambito operativo intercorrente tra la procedura concorsuale e la misura cautelare reale. Mentre, infatti, la prima è finalizzata a consentire la soddisfazione dei creditori dell'impresa che versi in stato di insolvenza, la seconda è volta a sottrarre alla disponibilità dell'indagato (o della persona giuridica che si sia giovata del risparmio fiscale derivante dalla realizzazione del reato tributario, traendo dall'evasione un ingiusto profitto) i proventi di un determinato reato, per cui il problema, in caso di sovrapposizione dei due vincoli, non sarebbe tanto quello di stabilire quale sia stato apposto per primo, quanto piuttosto quello di valutare a quale delle diverse esigenze di tutela occorre assicurare preminenza e in che termini.

In proposito, il principio generale è che la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire ad essa, se intervenuta prima del sequestro, effetti preclusivi rispetto all'operatività della cautela reale disposta in linea con i requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell'ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato. Questa conclusione non opera, per espressa previsione normativa ex art. 12-bis D.Lgs. 74/2000, quando il vincolo vada a cadere su bene appartenente a persona estranea al reato; da ciò deriva l'obbligo per il giudice di merito di accertare l'eventuale titolarità o meno di diritti dei terzi, e, in caso positivo, le modalità dell'acquisizione del diritto, ciò al fine di valutarne la buona fede.

La necessità di una verifica sull'effettiva appartenenza del bene assume una particolare pregnanza proprio nell'ambito delle procedure concorsuali, dovendosi in questo ambito scrutinare con particolare rigore, soprattutto in presenza di un attivo fallimentare, l'esistenza della somma oggetto della cautela reale e la possibile coesistenza, ove dedotta dal curatore, di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro. Se è vero, infatti, che il sequestro penale è destinato a prevalere sugli interessi dei creditori all'integrale salvaguardia dell'attivo fallimentare, è tuttavia altrettanto innegabile che, sul piano pratico, è indispensabile circoscrivere compiutamente l'entità del profitto confiscabile, consentendo di soddisfare le preminenti ragioni di tutela penale, senza però arrecare pregiudizio alle concorrenti pretese creditorie, e tanto soprattutto laddove l'attivo fallimentare sia costituito da somme di denaro. In tema di reati tributari, poi, resta ferma l'esigenza di valutare anche se l'Erario abbia già proceduto al recupero delle somme non versate dal contribuente, ciò al fine di evitare un'indebita locupletazione da parte del Fisco, tenuto conto che, ai sensi del secondo comma dell'art. 12-bis D.Lgs. 74/2000, la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'Erario anche in presenza di sequestro.

La decisione in esame ha cura anche di replicare ad un indirizzo che si sta di recente affacciando nella giurisprudenza di legittimità e formulato con specifico riferimento ai reati tributari. Secondo questo orientamento, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (Cass., sez. III, 15 ottobre 2020, n. 36745; Cass., sez. III, 26 febbraio 2020, n. 17766).

A tali affermazioni, viene replicato in primo luogo che la dichiarazione di fallimento di una società priva la stessa di ogni potere in relazione al suo patrimonio (eccezion fatta per i beni sottratti all'esecuzione concorsuale per disposizione di legge e per i beni sopravvenuti che non siano acquisiti dalla massa), ma non comporta di per sé alcuna alterazione dell'organizzazione sociale, i cui organi restano in funzione, sia pur con le limitazioni derivanti dall'intervenuta dichiarazione di fallimento, tant'è che, analogamente, la chiusura del fallimento fa venir meno lo "spossessamento" della società fallita, con il conseguente riacquisto da parte della stessa della libera disponibilità dei beni ma non comporta invece l'estinzione della società. Viene ritenuta perciò incongrua la tesi secondo cui - pur al cospetto della perdurante esistenza di un ente che, avendo beneficiato di un risparmio fiscale, ha conservato i beni che costituiscono il profitto o il prezzo di un reato tributario - la società possa risultare giuridicamente affrancata dall'applicazione di una misura ablativa obbligatoria e conseguentemente dall'applicazione di misure prodromiche alla confisca (appunto obbligatoria). Se il fallimento comporta lo spossessamento dei beni ma lascia inalterata la struttura dell'ente fallito, logico corollario di tale affermazione è che la società continua ad esistere come soggetto giuridico, suscettibile di essere sanzionato (nei casi in cui sia previsa una responsabilità dell'ente ex D.Lgs. 231/2001) o di essere privato, ope legis, dei beni costituenti il profitto o il prezzo di un reato tributario e così pertanto si spiegano le pronunce che giustificano la perdurante vigenza del sequestro preventivo funzionale alla confisca riguardante una società fallita.

Non è senza ragione perciò la tesi, più volte ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di rapporti tra sequestro preventivo e fallimento, è legittimo il sequestro preventivo dei beni ricompresi nell'attivo fallimentare, in quanto la deprivazione che il fallito subisce dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell'equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l'esecuzione forzata, non esclude che egli conservi, sino al momento della vendita fallimentare, la titolarità dei beni stessi (Cass., sez. V, 30 ottobre 2019, n. 52060, principio ritenuto operante anche con riferimento al concordato preventivo Cass., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 28077).

A conforto di queste conclusioni, infine, la Cassazione richiama – al pari di quanto fatto dai giudici di merito – il D.Lgs. 14/2019 di cui si è fatta sopra menzione, nonostante del Codice della crisi sia stata differita l'entrata in vigore. Il riferimento a tale normativa – attualmente, lo si ripete, non vigente – è motivato osservando, da un lato, come norme definitorie contenute in un testo normativo non ancora vigente devono ritenersi comunque venute ad esistenza e a conoscenza con la promulgazione e pubblicazione della legge e quindi si possono utilizzare ai fini dell'interpretazione di una norma, di immediata applicazione, contenuta in altra legge; dall'altro, si precisa che la categoria delle norme definitorie è non solo riservata a quelle che costituiscono esplicazione di un termine utilizzato in altre disposizioni, ma anche a quelle che assolvono il compito di dettare principi generali o definire la funzione di un determinato istituto, concorrendo perciò alla individuazione del contenuto di altri precetti che presuppongono il concetto o il principio da esse definito. Ciò posto, nulla impedisce, secondo i giudici di legittimità, di utilizzare le norme "definitorie" contenute nel D.Lgs. 14/2019 esclusivamente come tramiti interpretativi che consentono di convalidare un'interpretazione delle norme vigenti che già autonomamente sia in grado di supportare un determinato risultato esegetico, potendosi così “affermare che i rapporti tra le procedure concorsuali e le misure cautelari reali possono essere dedotti con interpretazione logico-sistematica, oltre che dalle norme già vigenti nell'ordinamento, anche dalla disciplina fissata dagli artt. 317 ss. D.Lgs. 14/2019 [da utilizzare] … quale sussidio interpretativo ai fini delle norme dalle quali deve trarsi la disciplina dei rapporti, allo stato, tra sequestro penale e fallimento".

Considerazioni conclusive

La sentenza in commento dovrebbe essere una delle ultime decisioni – sperando che l'entrata in vigore del Codice della crisi non sia ancora procrastinata – in tema di rapporti fra sequestro penale e procedura concorsuale in cui la definizione della questione è rimessa esclusivamente all'attività ermeneutica della giurisprudenza.

Come detto, infatti, una volta operante il D.Lgs. 14/2019, il tema è sufficientemente definito dal dettato legislativo.

A questo proposito, può sottolinearsi come la nuova normativa comportati un netto superamento dell'impostazione in precedenza seguita dalla giurisprudenza della Corte di cassazione – presente anche nella pronuncia in commento –, secondo cui, posto che l'apertura del fallimento non provoca automaticamente la perdita della disponibilità dei beni in capo al fallito, non potrebbero ritenersi venire meno le esigenze che giustificano l'adozione del sequestro preventivo a scopo impeditivo. Ne derivava che sarebbe stato il giudice penale a dover accertare, caso per caso, la persistenza del pericolo di un aggravamento delle conseguenze dell'illecito, compiendo una "valutazione di bilanciamento ... del motivo della cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale" (CERQUA, La dichiarazione di fallimento quale limite al sequestro preventivo, in Fall.,2019, 21). Oggi, questa prospettiva è stata senz'altro abbandonata ed il nuovo panorama normativo “tende ad assimilare la privazione di disponibilità dei beni conseguente all'apertura della liquidazione giudiziale alla perdita della proprietà degli stessi, quanto meno ai fini della definizione dei rapporti tra sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 1, c.p.p. e procedura concorsuale” (MILANI, I rapporti fra sequestri, cit., 1343. Nello stesso senso, BONTEMPELLI, La tutela dei creditori di fronte al sequestro, cit., 123).

Tuttavia, se la scelta della riforma del 2019 pare apprezzabile per la sua chiarezza, non mancano alcune perplessità – che peraltro investono anche l'argomento dei rapporti fra cautele penali e procedura fallimentare – con riferimento alla problematica della tutela dei diritti di terzi. Come detto, il legislatore, mediante la menzionata riforma dell'art. 104-bis disp. att. c.p.p., ha deciso di far riferimento, sul punto, alla disciplina contenuta del Codice antimafia ed in particolare a quanto dispone il Titolo IV del Libro I, ma questa non è stata apprezzata dai primi commentatori della riforma (D'AMORE – FLORIO, Il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza: l'attuazione della legge delega in materia di sequestri penali ovvero un "monstrum iuris", in Giur. Pen. web, 2019, 1; MILANI, I rapporti, cit., 1346), i quali segnalano come la disciplina di cui agli artt. 57 ss. Codice antimafia richiami una serie di figure ed istituti di cui non vi è traccia nell'ambito delle procedure concorsuali ex D.Lgs. 14/2019: si pensi alla figura dell'amministratore giudiziario, che svolge un ruolo centrale nell'ambito delle misure di prevenzione, dovendo presentare al giudice delegato l'elenco nominativo di tutti i creditori, redigere il progetto di stato passivo ex art. 58, comma 5-ter e assistere il predetto giudice nell'ambito dell'udienza di verifica, ai sensi dell'art. 59 D.Lgs. 159/2011, o ai compiti attribuiti all'Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati.