Domanda di rimborso e 'dies a quo' di decadenza alla luce della Giurisprudenza della CGUE

Domenico Chindemi
12 Maggio 2022

Viene individuato il termine per l'esercizio del diritto al rimborso di un'imposta che sia stata dichiarata, in epoca successiva all'indebito versamento, incompatibile con il diritto comunitario da una sentenza della Corte di Giustizia e cioè se decorra dalla data del versamento o da quella in cui è intervenuta la pronuncia che ne ha sancito la contrarietà all'ordinamento comunitario.
Premessa

Viene individuato il termine per l'esercizio del diritto al rimborso di un'imposta che sia stata dichiarata, in epoca successiva all'indebito versamento, incompatibile con il diritto comunitario da una sentenza della Corte di Giustizia e cioè se decorra dalla data del versamento o da quella in cui è intervenuta la pronuncia che ne ha sancito la contrarietà all'ordinamento comunitario.

Questione controversa

Nel caso in cui la domanda di rimborso risulti proposta oltre il termine posto a chiusura del sistema dall'art. 21, secondo comma, del d.lgs. n. 546/1992, ritenuto decorrente dal giorno successivo al versamento delle somme richieste in restituzione, anche per le ipotesi in cui il debito sia successivamente ritenuto non dovuto - in via generale con sentenza della CGCE o della Corte Costituzionale - occorre stabilire se la norma di chiusura sia prevalente sul sopravvenuto diritto alla restituzione, per ragioni di certezza dei rapporti tributari e della contabilità pubblica (cfr. Cass. SS.UU. n. 13676/2014), oppure se il dies a quo per la restituzione, ai fini della decadenza, decorra dalla sentenza della Corte di giustizia che ha affermato tale diritto o dalla pronuncia della Corte Costituzionale che ha ritenuto illegittima la norma in base alla quale il contribuente ha effettuato il versamento.

La giurisprudenza della Cassazione è orientata nel senso di ritenere che il termine per l'esercizio, attraverso la presentazione di apposita istanza, del diritto al rimborso di un'imposta che sia stata dichiarata, in epoca successiva all'indebito versamento, incompatibile con il diritto comunitario da una sentenza della Corte di Giustizia, decorre dalla data del detto versamento, e non da quella in cui è intervenuta la pronuncia che ne ha sancito la contrarietà all'ordinamento comunitario

In tale ipotesi potrebbe anche chiedersi la sospensione del processo per sottoporre alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 del trattato sul funzionamento dell'Unione Europea chiedendo se il diritto europeo osti ad una norma che non sospenda il decorso del termine di decadenza e di prescrizione entro il quale poter proporre domanda di rimborso dei tributi contrastanti con l'unione europea.

Medesime questioni si pongono con riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale

Ulteriore questione è se la decadenza dell'Amministrazione finanziaria sia o meno rilevabile d'ufficio.

Decadenza dal diritto al rimborso decorrente dal versamento

Con riferimento al termine di decadenza, la disciplina del rimborso d'imposta di cui all'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 concerne l'ipotesi in cui il relativo versamento non sia dovuto ab origine mentre, quando il diritto alla restituzione sia sorto solo in data posteriore a quella del suo pagamento, trova applicazione l'art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, avente carattere residuale e di chiusura del sistema, secondo il quale l'istanza di rimborso può essere presentata entro due anni dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione (cfr. Cass. V, n. 12919/2019).

Qualora sussista la giurisdizione del giudice tributario, il rapporto sottostante viene attratto alle regole proprie di tale modello, fra cui la norma di chiusura citata di decadenza biennale del diritto alla restituzione a far data dal versamento.

Infatti: "Alla domanda di rimborso o restituzione del credito maturato dal contribuente si applica, in mancanza di una disciplina specifica posta dalla legislazione speciale in materia, la norma generale residuale di cui all'art. 21, comma 2, proc. trib., prevedente il termine biennale di decadenza per la presentazione dell'istanza”. (Cass. ord. sez. VI - 4, n. 1543/2018)

La questione del rapporto tra versamento e contrarietà della norma impositiva al diritto europeo è stata già più volte esaminata dalla Corte di cassazione e dalla Corte di Giustizia: in particolare con la sentenza n. 13087 del 2012 la Cassazione ha ricordato che "la Corte di giustizia nella sentenza del 10 settembre 2002 C- 216/99 e C-222/99, ha chiarito (ancora una volta) che il diritto comunitario non vieta a uno Stato membro di opporre alle azioni di ripetizione di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario un termine nazionale di decadenza che deroghi al regime ordinario dell'azione di ripetizione dell'indebito tra privati, assoggettata a un termine più favorevole, purché detto termine di decadenza si applichi allo stesso modo alle azioni di ripetizione di tali tributi basate sul diritto comunitario e a quelle basate sul diritto nazionale e, inoltre, non renda in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario" (cfr. Cass. 4670 del 2012, 5480 e 18276/2004, per l'imposta su operazioni di raccolta di capitali; S.U. 3458/1996, Cass. 7178/2004 e 10665/2003, per la tassa societaria d'iscrizione nel registro imprese).

La ragione per cui viene accordata la preferenza al dies a quo del termine decadenziale decorrente dal versamento risiede nel fatto che colui il quale abbia effettuato il versamento relativo ad una imposta ritenuta contrastante con una direttiva comunitaria ha la possibilità di formulare la domanda di rimborso anche prima che alla direttiva stessa venga data attuazione nello Stato italiano purché essa direttiva sia incondizionata e precisa e sia trascorso un tempo ragionevole dalla sua emanazione (Cass. 18276/2004).

In tale ipotesi, infatti, il giudice nazionale ha il potere-dovere di disapplicare la norma interna e riconoscere la fondatezza della pretesa di rimborso anche se il legislatore nazionale abbia emanato norme incompatibili con la direttiva (cfr. C. G., sent. 22 giugno 1989, C-108/88, 30 e 31; e specificamente in materia tributaria Cass. 18276/2004 e Cass. S.U. 3458/1996).

Il predetto termine, di decadenza, decorrente dalla «data del versamento», quanto ai versamenti diretti, opera anche nel caso in cui l'imposta sia stata pagata sulla base di una norma successivamente dichiarata in contrasto con il diritto dell'Unione europea da una sentenza della Corte di giustizia.

L'efficacia retroattiva di detta pronuncia - come quella che assiste la declaratoria di illegittimità costituzionale - incontra il limite dei rapporti esauriti, ipotizzabile allorché sia maturata una causa di prescrizione o decadenza, trattandosi di istituti posti a presidio del principio della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche. (Cass. Sez. UU., Sentenza n. 13676 del 16/06/2014; Cass. n. 19606/2018 ; Cass.n. 7390/2019).

In materia tributaria, inoltre, non è applicabile la disciplina prevista per l'indebito di diritto comune, proprio perché per il rimborso di imposte non dovute vige un regime speciale basato sull'istanza di parte, da presentare, a pena di decadenza dal relativo diritto, nel termine previsto dalle singole leggi di imposta, o, in mancanza di queste, dalle norme sul contenzioso tributario (Cass. n. 21979/2020).

Quindi, nel caso di una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea che, con effetto retroattivo analogo a quello di una sentenza di illegittimità costituzionale, dichiari la norma nazionale in contrasto con una direttiva comunitaria self executing o con un regolamento comunitario, non muta il dies a quo della decadenza del diritto al rimborso, individuato dalla “data del versamento” o da quella in cui “la ritenuta è stata operata e non dalla pronuncia della Corte di Giustizia.

Il termine di decadenza per il rimborso delle imposte sui redditi decorre sempre dal versamento anche nel caso in cui l'imposta sia stata pagata sulla base di una norma successivamente dichiarata in contrasto con il diritto dell'Unione europea da una sentenza della Corte di giustizia, in quanto l'efficacia retroattiva di detta pronuncia incontra sempre il limite dei cosiddetti “rapporti esauriti”, ovvero di quei rapporti per i quali sia maturata una causa di prescrizione o decadenza.

La previsione del termine biennale di decadenza di cui all'art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, applicabile in assenza di una specifica disposizione, non ha come conseguenza quella di privare gli interessati al rimborso della possibilità di fruire dell'applicazione effettiva del diritto comunitario, né di porli in una situazione meno favorevole di quella in cui si troverebbero se domandassero il rimborso di diritti o imposizioni contrari al diritto interno, per cui inutile appare il rinvio pregiudiziale, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (vedi Cass. 13959/2016, in tema di rimborso della tassa sui marmi nel Comune di Carrara).

Ad esempio, la Corte di Giustizia ha preso in esame espressamente la questione relativa alla normativa nazionale contemplante la previsione dell'obbligo del contrassegno S.I.A.E. e la sua compatibilità con la Direttiva 98/34/CE (ed anche con la precedente Direttiva 83/189/CE), ed ha concluso nel senso che le disposizioni nazionali, configurando “regole tecniche”, dovevano essere previamente comunicate alla Commissione Europea, con inopponibilità del relativo obbligo ai privati, in mancanza di detta previa comunicazione, inopponibilità che si estende necessariamente all'obbligo di pagamento del tributo per ogni supporto commercializzato, ancorché esulante dal campo di applicazione della Direttiva. (Cass. n. 12847/2019).

La decisione della Corte di Giustizia, quindi, non ha rimosso alcun ostacolo alla tutela, ma ha chiarito che in caso di norma interna contrastante con il diritto comunitario, il giudice nazionale è tenuto a disapplicarla.

Quindi non è necessario il previo intervento del giudice amministrativo in ordine al denunciato contrasto tra la norma interna ed il diritto europeo, stante il principio di primauté del diritto unionale - come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale ed europea - ed al sindacato assegnato ai singoli giudici i quali ben possono disapplicare la norma interna incompatibile.

Tanto è desumibile anche dall'ultimo comma dell'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 ai sensi del quale le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all'oggetto dedotto in giudizio, salva l'eventuale impugnazione nella diversa sede competente.

Inoltre, ai sensi degli artt. 4 e 5 l. n. 2248 del 1865, all. E., il potere di disapplicazione del regolamento illegittimo è esercitabile nella totalità delle controversie affidate alla giurisdizione del giudice ordinario e ricomprende il sindacato sulla conformità dell'atto normativo ad una disposizione del diritto dell'Unione che abbia effetto diretto sulla controversia (vedi Cass. 12847/2019 cit, in controversia avente ad oggetto la domanda di ripetizione di indebiti versamenti in favore della SIAE proposta innanzi al giudice ordinario, nonché Cass. n. 41122/2021, in tema di sanzioni amministrative relative all'abusiva riproduzione di opere d'ingegno, vedi anche Cass. pen. 21579/2008, n. 23678/2016, n. 55009/2018 in tema di sanzioni penali).

l potere di disapplicazione del giudice tributario, in quanto espressione del più generale potere di conoscere incidentalmente ogni questione da cui dipende l'esito della controversia, ai sensi dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, si collega a tutte le questioni pregiudiziali esterne, non comprese nella giurisdizione del giudice tributario, ovvero agli atti impugnabili dinanzi giudici diversi.

Tale interpretazione trova conforto nei principi, condivisi anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell'Ue, di certezza del diritto e delle situazioni giuridiche soggettive, cui gli istituti della prescrizione e della decadenza ne costituiscono presidio.

Peraltro il termine di decadenza per la presentazione dell'istanza dì rimborso decorre dal versamento dell'acconto o del saldo, a seconda del motivo per cui è stato effettuato il versamento in misura eccedente il dovuto. Il termine di 48 mesi dal saldo è applicabile solo se il relativo diritto derivi dall'eccedenza delle somme rispetto al tributo che in quel momento risulti dovuto oppure se viene determinato diversamente sia l'an che il quantum d'imposta.

Si fa riferimento invece alla data dell'acconto, qualora già al momento del versamento la somma risulti, in tutto o in parte, non dovuta (Cass. n. 20057/2006).

Quindi possono enunciarsi i seguenti criteri:

  • il principio posto dall'art. 2935 cod. civ., secondo cui la prescrizione "comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere" - il quale è da ritenersi applicabile anche alla decadenza - deve essere inteso con riferimento alla sola possibilità legale, non influendo sul decorso della prescrizione, salve le eccezioni stabilite dalla legge, l'impossibilità di fatto di agire in cui venga a trovarsi il titolare del diritto (Relazione al codice, p. 1198) (Cass. n. 10231 del 1998, che richiama Cass. n. 9151 del 1991);
  • tra gli impedimenti "di fatto" va annoverato anche l'ostacolo all'esercizio di un diritto rappresentato dalla presenza di una norma costituzionalmente illegittima, in quanto chi si ritenga leso da tale limitazione ha il potere di percorrere la via dell'instaurazione di un giudizio e nel corso di tale giudizio richiedere che venga sollevata la relativa questione; se subisce passivamente detto impedimento, non può sfuggire alla conseguenza che il rapporto venga ad esaurirsi;
  • non può essere ravvisato un impedimento "legale", come tale idoneo ad incidere sulla decorrenza della prescrizione o della decadenza, nella presenza di una norma di diritto nazionale incompatibile con il diritto comunitario, posto che - mentre l'accertamento della illegittimità costituzionale di una norma è riservato ad un organo diverso dall'autorità giurisdizionale, con la conseguenza che, quando la questione sia sollevata nel corso di un giudizio, esso deve essere sospeso fino a quando la questione non sia decisa (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23) - il contrasto tra la norma di diritto interno e quella comunitaria può essere rilevato direttamente dal giudice che, sulla base di tale premessa, è tenuto a non darle applicazione, anche quando sia stata emanata in epoca successiva a quella comunitaria (Cass. nn. 10231 del 1998, cit., 7176 del 1999 e succ. conff.; cfr., anche, Cass. n. 18276 del 2004). Tali principi sono stati confermati, sulla base delle stesse ragioni, anche per le ipotesi in cui l'incompatibilità del diritto interno con il diritto comunitario sia stata dichiarata con sentenza della Corte di giustizia (cfr. Cass. nn. 4670 e 13087 del 2012);
  • è consolidato il principio della equiparazione tra tributi dichiarati costituzionalmente illegittimi e tributi dichiarati in contrasto con il diritto comunitario (Cass. nn. 3306 del 2004 e 20863 del 2010). Ciò anche in considerazione del fatto che la Corte di giustizia ha affermato che l'interpretazione di una norma di diritto dell'Unione data dalla Corte nell'esercizio della competenza attribuitale dall'art. 267 TFUE chiarisce e precisa, quando ve ne sia bisogno, il significato e la portata di detta norma, quale deve o avrebbe dovuto essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore: in altri termini, una sentenza pregiudiziale ha valore non costitutivo bensì puramente dichiarativo, con la conseguenza che i suoi effetti risalgono, in linea di principio, alla data di entrata in vigore della norma interpretata (da ult., sentenza 16 gennaio 2014, C- 429/12, cit., punto 30)” (Cass. Sez. U. n. 13676/2014 cit.).
Rilevabilità d'ufficio o ad istanza di parte della decadenza del contribuente

Altra questione concerne la rilevabilità d'ufficio della decadenza del contribuente.

Sulla base di un prevalente orientamento della Corte di Cassazione la decadenza del contribuente (a differenza di quella dell' A.F. che deve, invece, essere tempestivamente dedotta) dall'esercizio di un potere nei confronti dell'amministrazione finanziaria, in quanto stabilita in favore di quest'ultima ed attinente a situazioni da questa non disponibili - perché disciplinata da un regime legale non derogabile, rinunciabile o modificabile dalle parti in forza della dedotta capacità impositiva dello Stato -, è rilevabile anche d'ufficio e, quindi, può essere dedotta, per la prima volta, anche in appello dall'Amministrazione finanziaria, (cfr., ex multis, Cass. ord. n 2008/2010).

Solo il giudice del rinvio non può rilevare l'avvenuta decadenza, non rilevata nelle precedenti fasi del giudizio di merito e di legittimità, del contribuente (Cass. ord. 4 aprile 2011,n. 7657)

Se la decadenza l'ha commessa l'ente impositore, invece, si richiede che il contribuente eccepisca la decadenza fin dal primo grado. Quindi, in forza di tale orientamento, la decadenza dell'amministrazione finanziaria non è rilevabile d'ufficio, mentre quella del contribuente si.

Peraltro tale eccezione deve essere proposta in primo grado e, nel caso di non accoglimento, riproposta in appello dal momento che, in caso contrario, qualsiasi decisione dei giudici sul punto si deve considerare presa oltre i limiti previsti dalla legge. (Cass. ord. 27 gennaio 2012 n. 1154).

Tale soluzione non appare rispettosa del principio di parità delle parti che deve caratterizzare qualunque giudizio, compreso quello tributario.

Merita, quindi, riflessione ai fini di un revirement della giurisprudenza l'orientamento isolato della S.C. che prevede che “il termine di decadenza stabilito a carico dell'ufficio tributario ed in favore del contribuente per l'esercizio del potere impositivo ha natura sostanziale e non appartiene a materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto tale decadenza non concerne diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma incide unicamente sul diritto del contribuente a non vedere esposto il proprio patrimonio, oltre un certo limite di tempo, alle pretese del Fisco.” (Cass., ord., 9 gennaio 2015, n. 171).

Quindi la soluzione rispettosa del principio della parità delle parti, quantomeno in ambito processuale impone che la decadenza del contribuente, al pari di quella dell'A.F. non possa essere rilevata d'ufficio, ma solo ad istanza di parte nei limiti fissati dalla normativa processuale.

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