Legge - 23/08/1988 - n. 400 art. 17 - Regolamenti.

Francesco Caringella

Regolamenti.

1. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato che deve pronunziarsi entro novanta (1) giorni dalla richiesta, possono essere emanati regolamenti per disciplinare (1):

a) l'esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari (2);

b) l'attuazione e l'integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;

c) le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge;

d) l'organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge;

[e) l'organizzazione del lavoro ed i rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti in base agli accordi sindacali. ] (3).

2. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato e previo parere delle Commissioni parlamentari competenti in materia, che si pronunciano entro trenta giorni dalla richiesta, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l'esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l'abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari (4).

3. Con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere. Tali regolamenti, per materie di competenza di più ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge. I regolamenti ministeriali ed interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo. Essi debbono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri prima della loro emanazione (5).

4. I regolamenti di cui al comma 1 ed i regolamenti ministeriali ed interministeriali, che devono recare la denominazione di "regolamento", sono adottati previo parere del Consiglio di Stato, sottoposti al visto ed alla registrazione della Corte dei conti e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.

4-bis. L'organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri sono determinate, con regolamenti emanati ai sensi del comma 2, su proposta del Ministro competente d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri e con il Ministro del tesoro, nel rispetto dei princìpi posti dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con i contenuti e con l'osservanza dei criteri che seguono:

a) riordino degli uffici di diretta collaborazione con i Ministri ed i Sottosegretari di Stato, stabilendo che tali uffici hanno esclusive competenze di supporto dell'organo di direzione politica e di raccordo tra questo e l'amministrazione;

b) individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, centrali e periferici, mediante diversificazione tra strutture con funzioni finali e con funzioni strumentali e loro organizzazione per funzioni omogenee e secondo criteri di flessibilità eliminando le duplicazioni funzionali;

c) previsione di strumenti di verifica periodica dell'organizzazione e dei risultati;

d) indicazione e revisione periodica della consistenza delle piante organiche;

e) previsione di decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell'ambito degli uffici dirigenziali generali (6).

4-ter. Con regolamenti da emanare ai sensi del comma 1 del presente articolo, si provvede al periodico riordino delle disposizioni regolamentari vigenti, alla ricognizione di quelle che sono state oggetto di abrogazione implicita e all’espressa abrogazione di quelle che hanno esaurito la loro funzione o sono prive di effettivo contenuto normativo o sono comunque obsolete (7).

(1) Vedi, ora, l'art. 17, comma 27, l. 15 maggio 1997, n. 127 che dimezza tale termine.

(2) Lettera integrata dall'art. 11, l. 5 febbraio 1999, n. 25.

(3) Lettera abrogata dall’articolo 74, comma 1, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n.29 come modificato dall’articolo 38, comma 1, del D.Lgs. 23 dicembre 1993, n. 546. Abrogazione riconfermata dall’articolo 72, comma 1, lettera l), del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

(4) Comma integrato dall'articolo 5, comma 1, lettera a), della legge 18 giugno 2009, n. 69.

(5) Per l'attuazione del presente comma vedi il D.M. 31 marzo 2006, n. 165 e il D.P.C.M. 20 luglio 2007, n.152 .

(6) Comma aggiunto dall'art. 13, l. 15 marzo 1997, n. 59.

(7) Comma aggiunto dall'articolo 5, comma 1, lettera b), della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Inquadramento

Lo Statuto Albertino conteneva una disciplina, seppur scarna, dedicata al potere regolamentare, l'art. 6 dello statuto, infatti, recitava «il Re fa i decreti ed i regolamenti necessari per l'esecuzione delle leggi, senza sospenderne l'efficacia o dispensarne». Talché, mentre risultava espressamente costituzionalizzata la figura dei regolamenti c.d. esecutivi, per altro verso, si soleva indicare con i regolamenti governativi indipendenti quelli non collegati direttamente ad alcuna legge, ma emanati in virtù dei poteri direttamente conferiti dalla Costituzione al Re (Cammeo).

Per lungo tempo, la migliore dottrina ritenne che la manifestazione più significativa e tipica dei regolamenti indipendenti fosse rappresentata dai regolamenti di organizzazione: il potere di predisporre, in via autonoma, le regole necessarie per la propria organizzazione era senza dubbio fondato, per il potere esecutivo, sull'esigenza di adempiere alle proprie finalità e di crearsi gli organi nelle cui funzioni questo scopo si realizza. Non esistendo una sfera riservata, in materia di organizzazione, all'esecutivo monarchico, i rapporti tra legge e regolamento, in tale materia, erano improntati alla prevalenza della fonte legislativa ed erano, quindi, ispirati al principio di preferenza della legge e non a quello della riserva di regolamento. Per ciò che concerne il fondamento della potestà regolamentare del Governo, la dottrina dell'epoca era sostanzialmente divisa tra chi fondava tale potestà sulla discrezionalità amministrativa e chi, invece, riteneva sempre e comunque necessaria una previa autorizzazione legislativa. Per altro verso, tale dottrina escludeva esplicitamente una potestà regolamentare praeter legem, poiché si riteneva che ogni rapporto della vita sociale doveva essere necessariamente disciplinato non già dall'Esecutivo, ma, eventualmente, mediante il ricorso all'analogia e ai principi generali, ai sensi dell'art. 3 delle preleggi (Crisafulli, 233).

La potestà normativa regolamentare dell'esecutivo ricevette una compiuta disciplina ad opera della l. n. 100/1926 , con la quale si stabilì tra l'altro che, con la stessa forma necessaria per l'emanazione dei regolamenti di esecuzione e delle norme necessarie per disciplinare l'uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo, potevano essere adottati i regolamenti per disciplinare l'organizzazione dei pubblici uffici (Modugno, 238).

Già prima facie ci si accorge che l'intento di tale legge non fu quello di innovare, bensì di disciplinare quanto si era già affermato in via di prassi; essa, infatti, ripropose categorie di regolamenti già note, o perché elaborate dalla dottrina – come quelle dei regolamenti indipendenti e di organizzazione – o perché già previste dallo Statuto, come i regolamenti di esecuzione. A ben vedere, solo la categoria dei regolamenti delegati non venne espressamente disciplinata, per cui si ritenne di farvi rientrare tutti quei regolamenti che traevano il loro fondamento in un'attribuzione legislativa di competenza, potendo il Legislatore, di volta in volta, autorizzare la fonte subordinata ad assumere determinati contenuti e spiegare specifici effetti.

La l. n. 100/1926 fu accolta positivamente dalla unanime dottrina, sia da quella di stampo autoritario, favorevole all'ampliamento delle facoltà dell'Esecutivo, sia da quella moderata, che vi scorgeva un disegno di razionalizzazione all'interno delle fonti del diritto, fondato sulla divisione più delle funzioni che dei poteri. Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana ed il quadro di riferimento radicalmente mutato, si pose il problema della sopravvivenza delle norme di cui alla l. n. 100/1926. In particolare, ci si interrogò sulla portata della riserva di legge di cui all'art. 97 Cost. in tema di organizzazione dei pubblici uffici, materia nella quale, come si è detto, era tradizionalmente ammesso l'intervento regolamentare, anche in delegificazione (Cheli, 56 e ss.).

Ma, com'è noto, almeno fino all'entrata in vigore della l. n. 400/1988, l'interpretazione prevalente sostenne la sopravvivenza della l. del 1926 e la natura meramente relativa della riserva di legge ex art. 97 Cost.; in questo contesto si affermò, quindi, che la potestà regolamentare in tema di organizzazione dei pubblici uffici avrebbe assunto il ruolo di normazione di dettaglio, nell'ambito dei principi e dei criteri fissati dalle fonti primarie.

La l. n.400/1988 costituisce la prima attuazione della previsione costituzionale di cui all'art. 95,ultimo comma, dellaCostituzione, colmandosi, così, un vuoto normativo che durava ormai da quarant'anni (Lupo). La normativa de qua, ha introdotto una nuova classe di regolamenti dell'esecutivo che ha sopravanzato quella dettata dalla l. n. 100/1926 tenendo conto sia dei risultati dell'elaborazione dottrinale sia del mutato contesto ordinamentale determinato dall'avvento di una costituzione rigida. Ciò nonostante, molte delle critiche dottrinarie sono state riformulate nei confronti della nuova classificazione, permanendo il problema di fondo della idoneità della l. n. 400/1988 in virtù del suo rango primario e nell'ambito della gerarchia delle fonti a regolare la materia degli atti normativi (Caringella, 120).

Essa, all'art. 17, primo comma, affronta, in maniera organica e sistematica, la materia regolamentare, sostituendosi alla disciplina dettata dallal. n.100/1926. In base a tale articolo, i regolamenti si distinguono, innanzitutto, in governativi, emanati con decreto del Presidente della Repubblica e ministeriali o interministeriali, emanati cioè da singoli Ministri o di concerto tra più Ministri, i quali, per espressa previsione legislativa, non possono contenere discipline contrastanti con i regolamenti governativi. Tuttavia, il maggior pregio della legge in questione è sicuramente quello di aver proceduto ad una diversificazione, sotto il profilo contenutistico, dei regolamenti che possono ora definirsi di esecuzione, di attuazione e di integrazione, di organizzazione e indipendenti.

Il sistema delle fonti del diritto

L'analisi dell'istituto dei regolamenti richiede un inquadramento dell'istituto nel sistema delle fonti del diritto (Caringella, 120).

Le fonti del diritto sono gli atti e i fatti idonei a produrre le norme giuridiche che nel loro complesso costituiscono il diritto oggettivo, ossia l'ordinamento giuridico.

Come emerge dalla stessa definizione, nell'ambito delle fonti di produzione possono distinguersi due categorie: le fonti-atto (o atti normativi) e le fonti-fatto (o fatti normativi).

Le prime sono manifestazioni di volontà espressamente rivolte alla produzione di norme giuridiche, provenienti da un organo dello Stato-apparato o di altro soggetto a ciò legittimato dalla Costituzione o da altra fonte sulla produzione. Di regola, esse trovano formulazione in un testo scritto.

Le seconde, al contrario, hanno carattere prevalentemente non scritto e si risolvono in uno o più accadimenti o comportamenti oggettivi. Tipica fonte-fatto è la consuetudine, fondata sul ripetersi di un determinato comportamento per un certo lasso temporale e con la convinzione della sua giuridica necessità. A differenza di quanto avviene nel diritto internazionale dove, come si è visto, la consuetudine assume un ruolo di assoluta centralità, nell'ordinamento italiano, come in tutti i moderni ordinamenti nazionali, le fonti del diritto sono essenzialmente fonti-atto, mentre la consuetudine ha una rilevanza secondaria e marginale, essendo ammissibile solo praeter legem o secundum legem, mai contra legem.

Il nostro ordinamento, come tutti gli ordinamenti giuridici moderni, è caratterizzato dal pluralismo delle fonti del diritto.

Il carattere pluralistico del sistema delle fonti pone due ordini di problemi: l'esatta individuazione degli atti (o dei fatti) effettivamente qualificabili come fonti normative e, in secondo luogo, la determinazione dei rapporti fra le stesse, ossia la determinazione dei criteri atti a risolvere le antinomie fra le norme giuridiche dalle stesse prodotte.

Quanto al primo profilo, soccorrono due criteri, il criterio formale e il criterio sostanziale.

Il criterio formale consiste nella qualificazione espressa dell'atto come avente natura normativa a opera di un'altra norma dell'ordinamento, ossia delle cd. fonti sulla produzione del diritto. Spetta, infatti, a ogni ordinamento positivo determinare, mediante la scelta degli organi e delle procedure per la formazione delle norme, quali siano le fonti di produzione. Peraltro, le norme sulla produzione, preordinate all'estrinsecazione delle fonti di produzione, sono esse stesse norme che producono diritto e, dunque, fonti di produzione, nella misura in cui selezionano i soggetti e gli atti abilitati a innovare l'ordinamento e le modalità attraverso cui l'innovazione deve avvenire.

In proposito, l'art. 1 delle disposizioni preliminari al Codice civile contiene un elenco di fonti del diritto (leggi, regolamenti, norme corporative e usi) evidentemente incompleto e non più attuale. Per un verso, è ormai del tutto anacronistica la menzione delle norme corporative, abrogate con la soppressione dell'ordinamento corporativo; per altro verso, esso non include atti che già al momento della sua entrata in vigore erano senz'altro considerati fonti del diritto (bandi militari e ordinanze exartt. 216 e 217 TULPS) e fonti a esso sopravvenute quali, in primis, la Costituzione, le fonti degli enti territoriali e le fonti sovranazionali (europee e internazionali).

Il criterio sostanziale valorizza, invece, il contenuto intrinseco dell'atto che per avere natura (sostanzialmente) normativo deve possedere i caratteri della astrattezza, della generalità e della innovatività.

L'astrattezza ricorre allorché le disposizioni contenute nell'atto siano suscettibili di indefinita ripetibilità e applicabilità a fattispecie concrete, a differenza delle previsioni degli atti non normativi che non disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici ma specifici rapporti giuridici sorti in concreto, esauriti i quali l'atto cessa di produrre i propri effetti.

La generalità attiene all'indeterminabilità sia ex ante che ex post dei destinatari dell'atto. Come si avrà modo di ribadire nel prosieguo, se l'indeterminabilità a priori è da sé sola idonea a distinguere le fonti del diritto, come atti produttivi di norme giuridiche, dai provvedimenti amministrativi individuali, è il requisito della indeterminabilità dei destinatari anche a posteriori che realmente connota e contraddistingue le fonti del diritto, distinguendole degli atti amministrativi generali (come, emblematicamente, i bandi di gara e di concorso). Questi ultimi, infatti, hanno destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinati a posteriori; e ciò per la circostanza che, conformemente alla propria natura amministrativa, non sono destinati a regolare una serie indeterminata di casi, bensì un caso, una vicenda particolare e determinata, esaurita la quale vengono meno anche i loro effetti.

Infine, quale diretto corollario dei predetti caratteri di astrattezza e generalità, l'innovatività, ossia l'idoneità dell'atto a modificare l'ordinamento giuridico. In proposito, peraltro, si riscontra una divergenza di opinioni. Secondo una prima tesi, particolarmente apprezzata nella giurisprudenza costituzionale, l'innovatività consiste nell'attitudine dell'atto a modificare l'ordinamento in modo stabile e definitivo, con la conseguenza che non posseggono tale carattere gli atti abilitati soltanto a derogarvi (si considerino ad esempio le ordinanze di necessità e urgenza). Secondo una diversa ricostruzione invece, anche gli atti che contengono precetti temporanei, che innovano cioè la disciplina vigente per un periodo circoscritto, hanno carattere normativo, essendo sufficiente che il contenuto abbia carattere generale e astratto.

I descritti criteri, formale e sostanziale, assumono diverso peso con riguardo alle fonti primarie (leggi e atti aventi forza di legge) e a quelle secondarie (e a fortiori a quelle cd. terziarie).

Con riguardo alle prime, l'orientamento prevalente della dottrina e della giurisprudenza (anche costituzionale) ritiene che sia necessario e sufficiente il solo criterio formale.

Per un verso, sono fonti primarie solo quelle qualificate come tali dalla Carta Costituzionale e adottate mediante la procedura di approvazione prefigurata dalla Carta medesima; per altro verso, il rispetto di siffatta procedura è da sé solo sufficiente ai fini della qualificazione dell'atto come normativo, senza che sia necessario (pur se normalmente è così) che esso abbia un contenuto generale e astratto. Le fonti primarie sono, dunque, un rigido numerus clausus quanto al nomen , mentre sono atipiche con riferimento al contenuto. Ciò ha consentito alla Corte Costituzionale di ritenere ammissibili le cd. leggi-provvedimento, che si caratterizzano per un contenuto puntuale e concreto, sostanzialmente amministrativo.

Altrettanto non vale – secondo i più – per le fonti secondarie espressione del potere normativo (o di autonomia normativa) attribuito dal Legislatore alle Amministrazioni centrali (Governo, Ministri) o periferiche (Regioni, Province, Comuni).

Come affermato della Corte Costituzionale già con la sentenza 3 giugno 1970, n.79, nell'ambito di un sistema di fonti organizzato gerarchicamente, le fonti di rango primario e, in particolare, la legge, possono innovare il quadro delle fonti a livello secondario. Queste ultime, pertanto, pur nel rispetto dei limiti individuati dai principi di legalità e di riserva di legge, rappresentano uno spettro in continua evoluzione, aperto a nuove specie e modelli stabiliti dalla legge. In quanto atti soggettivamente amministrativi (adottati ciò dalla Amministrazione), ai fini della loro qualificazione come fonti normative idonee ad innovare stabilmente l'ordinamento giuridico assume rilievo determinate il criterio sostanziale, ossia il loro contenuto generale e astratto. Rinviando, sul punto, al successivo par. 7.1., occorre sin d'ora rilevare, infatti, come proprio i requisiti sostanziali di generalità e astrattezza del contenuto dell'atto valgano a differenziare le fonti del diritto secondarie dagli atti amministrativi generali che tali caratteri non hanno.

Sono, infine, connotate da intrinseca atipicità le fonti cd. terziarie (tipiche del diritto amministrativo) che ricomprendono atti di natura non regolamentare, spesso privi di un pieno ed effettivo valore cogente o, comunque, di una diretta rilevanza giuridica esterna, quali le linee guida, le raccomandazioni e le norme interne alle singole pubbliche amministrazioni, vedi infra.

Il regime giuridico comune degli atti normativi

La qualificazione, sulla base degli esposti criteri, di un atto come normativo comporta l'applicazione di un insieme di regole e principi per essi specificamente valevoli, costituenti un vero e proprio regime giuridico comune a tutte le fonti del diritto, estensibile anche ai regolamenti amministrativi, e in particolare a quelli governativi e ministeriali di cui all'art. 17 della l. n. 400/1988 (Caringella, 1, 123).

In primo luogo, il principio iura novit curia. Mentre, cioè, per ogni altro elemento rilevante ai fini della statuizione sulla singola controversia (fatti storici, atti giuridici non normativi, quali atti negoziali o amministrativi) trovano applicazione le generali regole in materia di onere probatorio ex art. 2697 c.c., le norme giuridiche applicabili alla fattispecie concreta si presumono conosciute dal giudice e non sono, pertanto, oggetto di alcun onere dimostrativo in capo alla parte che abbia interesse alla loro applicazione.

In secondo luogo, il principio ignorantia legis non excusat. Le norme giuridiche derivanti da fonti del diritto riconosciute si presumono conosciute non solo dal giudice chiamato a statuire sulla controversia ma anche dai singoli consociati, che non possono addurre a giustificazione del proprio comportamento antigiuridico l'ignoranza della norma stessa. Peraltro, a seguito della storica pronuncia della Consulta 24 marzo 1988, n. 364 , in materia penale e, per estensione, nell'ambito di tutto il diritto punitivo-sanzionatorio (anche amministrativo), la presunzione di conoscenza della legge, un tempo reputata assoluta e insuperabile, ha oggi carattere pacificamente relativo, ritenendosi scusabile l'ignoranza della norma giuridica invincibile e inevitabile per l'homo eiusdem generis et qualitatis.

In terzo luogo, il regime del ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione. Solo la violazione di norme derivanti da fonti legali è censurabile in Cassazione se compiuta dalle autorità giurisdizionali in atti di esercizio delle loro attribuzioni (art. 111, comma 7 Cost., art. 360, comma 1 c.p.c. e art. 606, comma 1 c.p.p.). Del pari, l'invalidità degli atti amministrativi per violazione di legge o incompetenza (art. 21-octies l. n. 241/1990: vedi il relativo commento) è sindacabile dal G.A. solo in caso di contrasto con norme poste da fonti del diritto riconosciute.

Ancora, sul piano ermeneutico, le fonti del diritto sono soggette a un proprio specifico apparato di regole interpretative (di cui agli artt. 12 ss. disp. prel.) che va tenuto distinto da quello valevole per l'interpretazione dei negozi giuridici quali atti di autonomia privata (artt. 1362 ss. c.c.). Pur essendo accomunate dal fine di accertare il corretto significato da attribuire a un insieme di parole, l'interpretazione di un atto normativo e quella di un negozio giuridico sono attività fra loro profondamente diverse. Mentre, infatti, l'interpretazione contrattuale mira ad accertare e chiarire il significato di un atto di autonomia privata secondo l'intento dei suoi autori, l'interpretazione di un atto normativo tende a individuare il contenuto precettivo di una regola dell'ordinamento secondo la sua funzione sociale, ossia il senso di una volontà impersonale traslata in un testo scritto.

Infine, il principio di irretroattività delle norme giuridiche che trova esplicita codificazione nell'art. 11, comma 1 disp. prel.c.c. ai sensi del quale la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Tale disposizione, secondo unanime orientamento, enuncia un principio generale dell'ordinamento, valevole non solo per la legge in senso tecnico, ma altresì per tutte le altre fonti del diritto: le attività dei soggetti devono essere valutate e qualificate a livello giuridico, sulla base di norme in vigore al momento dello svolgimento della condotta e non sulla base di norme non conosciute da detti soggetti, poiché sopravvenute rispetto a quel tempo.

La ratio del principio di irretroattività delle norme giuridiche riposa nei principi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela del legittimo affidamento del cittadino che si autodetermina in funzione del quadro normativo attualmente esistente e deve poter ragionevolmente confidare sulla stabilità dello stesso.

Occorre peraltro precisare che il principio di irretroattività delle norme giuridiche non ha la medesima forza in tutti gli ambiti dell'ordinamento.

In materia penale, esso ha rango costituzionale trovando esplicito riconoscimento nell'art. 25, comma 2Cost. ai sensi del quale «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».

Per effetto dell'influenza della CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il principio di irretroattività ha oggi rango costituzionale anche con riguardo al diritto amministrativo sanzionatorio, ogni qual volta le sanzioni formalmente amministrative risultino avere carattere sostanzialmente penale alla luce dei cd. criteri Engel (vedi commento all'articolo 1 della legge n. 689/1981).

Al di fuori del diritto punitivo-sanzionatorio (sia esso penale o amministrativo), e cioè nel diritto civile e nei restanti settori del diritto amministrativo, la regola dell'irretroattività non ha, invece, rango costituzionale, trovando esplicitazione solo nel predetto art. 11 delle Preleggi, ossia in una disposizione di legge ordinaria, come tale senz'altro suscettibile di deroga da parte di successive norme di pari rango primario.

Cionondimeno, come posto in rilievo dalla dottrina, si tratta pur sempre di un principio generale dell'ordinamento giuridico, di talché le deroghe allo stesso devono ritenersi di natura eccezionale. Ne consegue che le stesse devono essere esplicite (l'efficacia retroattiva della norma deve cioè essere chiara ed espressa, non potendo essere ricavata in via meramente interpretativa) e sorrette da un'adeguata causa giustificatrice, mirando a tutelare interessi di rango almeno pari a quelli tutelati dal principio generale di irretroattività.

Un'ipotesi «generale» di norma retroattiva è rappresentata dalle norme di interpretazione autentica, mediante le quali il medesimo organo che ha emanato una determinata disposizione normativa interviene a chiarirne il corretto significato. Limitandosi a individuare il significato di un testo previgente senza innovarlo, la norma di interpretazione autentica è fisiologicamente retroattiva.

La possibilità di produrre effetti (pur se di carattere meramente esegetico) su fattispecie antecedenti, ha imposto l'adozione di cautele da parte della Corte Costituzionale, volte a prevenire abusi da parte del potere legislativo, finalizzati a far retroagire, sotto l'etichetta dell'interpretazione autentica, norme che in realtà innovano l'ordinamento e non si limitano a chiarire il significato di un precedente atto normativo. In proposito, la Consulta ha più volte chiarito che i requisiti necessari affinché una norma di interpretazione autentica possa definirsi effettivamente tale ed essere, così, legittimamente retroattiva sono: a) l'esistenza di un dubbio interpretativo in ordine al corretto significato da attribuire a un previgente testo normativo; b) l'individuazione, da parte della norma interpretativa, di uno tra i possibili significati ragionevolmente desumibili dal tenore letterale della disposizione interpretata (ex multis,Corte cost. n.311/2009;Corte cost. n.78/2012;Corte cost. n.210/2013;Corte cost. n.73/2017).

I rapporti tra le fonti del diritto: i criteri di risoluzione delle antinomie

Nell'ambito di un sistema di fonti pluralistico, occorrono criteri ordinatori grazie ai quali risolvere eventuali antinomie normative (Celotto, 25 e ss.).

Il primo e principale criterio di risoluzione delle antinomie è quello gerarchico.

Il nostro sistema delle fonti è, infatti, strutturato gerarchicamente: le fonti non hanno tutte lo stesso rango, ma si collocano in diversi livelli di una scala gerarchica, per cui ciascuna di esse incide sull'ordinamento con le potenzialità giuridiche connesse al proprio grado, con la forza attiva (capacità di innovare) e passiva (capacità di resistere all'abrogazione) che contrassegna quel livello. In base, dunque, al criterio gerarchico, in caso di contrasto tra due norme, quella di rango superiore prevale su quella di rango inferiore che non ha la forza né di modificarla né di abrogarla (lex superior derogat legi inferiori).

La prevalenza della norma superiore su quella inferiore si esprime, talora, in termini di invalidità (e, in specie, di annullamento) della norma inferiore, talaltra, in termini di mera inefficacia della stessa. Si determina invalidità nei rapporti tra fonti primarie e Costituzione: la Consulta, allorché accerta la contrarietà di una norma di legge rispetto alla Carta fondamentale, provvede ad annullarla, dichiarandone l'illegittimità costituzionale. L'incostituzionalità della legge è, dunque, un vizio strutturale che la colpisce come «atto». Al di fuori dei rapporti tra fonti primarie e Costituzione, e, in specie, nei rapporti tra fonti primarie e fonti secondarie, la prevalenza delle prime si esprime, invece, più propriamente, in termini di inefficacia. La fonte secondaria contrastante non è invalida sul piano pattizio, bensì, ab origine inidonea a produrre effetti giuridici e, così a innovare l'ordinamento: la sua capacità creatrice è inibita dalla resistenza opposta dalla fonte gerarchicamente superiore.

Rispetto a fonti dello stesso livello gerarchico, i conflitti antinomici possono essere risolti in base al criterio cronologico e al criterio di specialità.

In base al criterio cronologico, in caso di contrasto fra due norme, deve prevalere quella posteriore (lex posterior derogat priori). La prevalenza della norma nuova sulla vecchia si esprime attraverso la abrogazione, ossia la cessazione di efficacia della norma giuridica precedente.

In proposito, occorre precisare che, in ossequio al generale principio di irretroattività, l'effetto abrogativo prodotto dal nuovo atto sulla norma precedente, in mancanza di disposizioni contrarie (eccezionalmente derogatorie rispetto al principio di irretroattività), opera ex nunc e, dunque, solo per il futuro. La vecchia norma – benché abrogata dal giorno dell'entrata in vigore della successiva incompatibile e, come tale, inidonea a disciplinare i rapporti giuridici sorti dopo quella data – continuerà a regolare i rapporti giuridici anteriori.

L'art. 15 delle Preleggi elenca tre tipologie di abrogazione:

abrogazione espressa: la norma posteriore esplicitamente dispone l'abrogazione di una o più disposizioni previgenti o parti di esse, specificamente individuate (si scrive: «sono abrogate le seguenti disposizioni...», e segue l'elenco degli atti, degli articoli e/o dei commi oggetto di abrogazione). L'esplicita previsione abrogativa ha, dunque, effetto erga omnes;

abrogazione tacita: l'effetto abrogativo non è esplicitato dalle disposizioni normative sopravvenute, ma emerge in sede di interpretazione, dal riscontro dell'antinomia contenutistica tra le nuove disposizioni e quelle previgenti. Essendo rimesso all'attività interpretativa del giudice (e, più in generale dell'interprete), l'accertamento dell'antinomia e l'affermazione del conseguente effetto abrogativo sulla norma anteriore hanno effetti solo inter partes: le conclusioni di un giudice in ordine alla sussistenza del contrasto e l'individuazione di quale norma sia in vigore e quale sia, invece, abrogata non vincolano gli altri giudici che, nei casi loro devoluti, potranno giungere a diverse conclusioni;

abrogazione implicita, per nuova regolamentazione dell'intera materia: è in tutto simile all'abrogazione tacita. Manca, infatti, una disposizione che dichiari esplicitamente l'abrogazione delle disposizioni previgenti, ma è l'interprete che, dall'intervenuta riforma di una certa materia, trae un argomento per sostenere che le vecchie disposizioni che disciplinavano quella materia debbano ritenersi abrogate. Anche questa forma di abrogazione, dunque, opera sul piano dell'interpretazione. La differenza tra abrogazione tacita e abrogazione implicita sta essenzialmente nel fatto che, mentre la prima, basandosi su un contrasto tra singole norme, porta di solito a ritenere abrogate una o più disposizioni, la seconda, basandosi sul fatto che la disciplina della materia è stata riformata, porta, di regola, a ritenere abrogata uno o più interi testi normativi. Non sempre, peraltro, il risultato dell'abrogazione implicita è così netto, perché, ad esempio, la nuova normativa può riformare solo una parte della materia disciplinata dalla normativa precedente, sicché sta all'interprete – ancora una volta – valutare se la vecchia disciplina resti in vigore per la parte non riformata o sia stata comunque abrogata, senza la produzione di nuove norme (Bin, Pitruzzella).

In base al criterio di specialità, in caso di contrasto fra due norme, deve prevalere la norma speciale su quella generale, anche se questa è successiva (lex specialis derogat legi generali; lex posterior generalis non derogat legi priori speciali). Tale criterio, pertanto, per le fonti dello stesso rango gerarchico, impedisce il funzionamento di quello cronologico, nel caso in cui la fonte anteriore presenti tutti i connotati della fattispecie generale con l'aggiunta di elementi di specialità.

A differenza di quanto vale per il criterio cronologico (e, dunque, per l'abrogazione) e per quello gerarchico, la preferenza per la norma speciale non si esprime né in termini di inefficacia della norma generale né in termini di invalidità della stessa. Le norme in conflitto rimangono entrambe valide ed efficaci, l'interprete opera solamente una scelta circa la norma da applicare in concreto; l'altra norma semplicemente «non è applicata».

Nei paragrafi che seguono, si procederà all'analisi delle diverse tipologie delle fonti dell'ordinamento, con particolare riferimento a quei profili che più direttamente interessano il diritto amministrativo. Seguendo l'ordine gerarchico, il sistema delle fonti del diritto è così riassumibile:

1. Principi supremi dell'ordinamento costituzionale e diritti fondamentali della persona umana (cd. controlimiti);

2. Consuetudini internazionali (art. 10 Cost.) e diritto europeo (artt. 11 e 117, comma 1 Cost.);

3. Costituzione e leggi costituzionali;

4. Diritto internazionale pattizio, tra cui la CEDU (art. 117, comma 1 Cost.);

5. Fonti primarie: leggi (statali e regionali) e atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi);

6. Fonti secondarie, i regolamenti in particolare;

7. Fonti terziarie (consuetudini nazionali e, secondo alcuni la soft law delle Linee Guida ANAC).

Le fonti secondarie: profili generali e criteri di identificazione

Nel sistema gerarchico delle fonti del diritto amministrativo, la locuzione «fonti secondarie» indica un insieme variegato ben più complesso rispetto alla formula accolta dalle disposizioni preliminari al codice civile, che riducono il livello «secondario» ai regolamenti del Governo e delle «altre autorità», tra cui le autorità amministrative indipendenti (Caringella, 141).

In realtà, le fonti in esame costituiscono un fenomeno eterogeneo e articolato, tale da non consentire un discorso unitario; invero, in alcuni casi, dette fonti hanno ben poco in comune e, a volte, mancano persino dello stesso criterio della «secondarietà», dal momento che molte di esse risultano essere di grado inferiore al secondo (Chieppa).

In ogni caso, si tratta di atti formalmente (o soggettivamente) amministrativi, in quanto provengono da una P.A., ma sostanzialmente normativi, giacché, dal punto di vista funzionale, sono in grado di innovare l'ordinamento con prescrizioni generali e astratte.

In virtù della loro complementarietà rispetto alle fonti primarie, non possono derogare e tantomeno contrastare con le norme costituzionali e con tutti gli atti legislativi ordinari. Esse non hanno, dunque, forza o valore di legge, ma solo forza normativa.

La differenza tra fonti normative secondarie e atti amministrativi generali

La natura formalmente (o soggettivamente) amministrativa delle fonti normative secondarie pone il problema della corretta distinzione delle stesse rispetto agli atti (sostanzialmente) amministrativi e, nello specifico, a quella particolare categoria di atti amministrativi che sono gli atti amministrativi generali (ossia quegli atti formalmente e sostanzialmente amministrativi, pur se destinati a una generalità di consociati).

Rinviando a quanto detto al par. 2, basta qui ricordare che la distinzione tra le due tipologie di atti, lungi dal costituire oggetto di un mero dibattito teorico, presenta rilevantissime conseguenze pratiche sul piano della disciplina applicabile (Cons. St., Ad. plen., n. 16/2021; Cons. St., sez. norm., par. n. 582/2021; e Cons. St., sez. norm., par. 164/2021). Solo agli atti qualificabili come fonti normative secondarie è, infatti, applicabile il regime giuridico comune a tutte le fonti del diritto, riassuntivamente composto dai principi iura novit curia e ignorantia legis non excusat, dalla ricorribilità in Cassazione in caso di loro violazione (art. 360, n. 3 c.p.c.), illegittimità per violazione di legge del provvedimento amministrativo a esse contrario (mentre l'inosservanza dell'atto amministrativo generale costituisce figura sintomatica di eccesso di potere), dalla applicazione delle regole di interpretazione dettate dagli artt. 12 ss. delle disp. prel. al Codice civile (mentre agli atti amministrativi generali, come ai provvedimenti, si applica la disciplina del codice civile per l'interpretazione dei contratti exartt. 1362 ss. c.c.).

Ulteriori differenze specifiche di regime fra fonti normative secondarie e atti amministrativi generali concernono, poi, la tutela processuale e il procedimento. Quanto alla prima, l'atto normativo, a differenza dell'atto amministrativo generale, può essere disapplicato dal G.A. e dalla stessa P.A. in ossequio al principio di gerarchia delle fonti non estensibile ai provvedimenti amministrativi. Quanto alla seconda, basti rilevare che l'art. 17 l. n.400/1988 prevede per i regolamenti governativi e ministeriali un preciso iter di formazione, diverso dal procedimento amministrativo descritto in termini generali dalla l. n. 241/1990.

La l. n.241/1990 ha, invece, uniformato il trattamento riservato ad atti normativi e atti generali, per quel che riguarda l'esonero dall'obbligo di motivazione (art. 3, comma 2) e la non applicabilità delle garanzie partecipative (art. 13) nonché in tema di limitazione all'accesso (art. 24, comma 1, lett. c).

Nessuna differenza intercorre, inoltre, sotto il profilo della verifica di legittimità costituzionale. Anche per gli atti normativi secondari, infatti, nonostante il carattere di fonte del diritto, si esclude il sindacato di costituzionalità della Corte delle leggi, essendo quest'ultimo limitato dalla Costituzione alle leggi e agli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, in virtù del disposto dell'art. 134 Cost. Pertanto, il controllo di costituzionalità dei regolamenti, come degli atti amministrativi generali, resta affidato al sindacato del giudice del caso concreto, con l'arma aggiuntiva della disapplicazione da parte del G.A.

Orbene, a differenza di quanto si è detto con riguardo alle fonti primarie, per la cui identificazione l'indirizzo consolidato della Consulta ritiene necessario e sufficiente il solo criterio formale, per le fonti normative secondarie la giurisprudenza è ormai da tempo giunta a riconoscere l'irrinunciabilità del criterio sostanziale. L'identificazione di tali fonti e, soprattutto, la loro distinzione rispetto agli atti amministrativi generali, si basa sulla generalità, astrattezza e innovatività delle prescrizioni contenute nell'atto.

Rinviando alla descrizione che di tali requisiti si è data in precedenza, occorre qui indugiare sul carattere della generalità che si profila come elemento almeno parzialmente comune agli atti amministratavi generali, essendo anche questi ultimi diretti a una moltitudine indistinta di destinatari. Anche sotto questo profilo, tuttavia, come già evidenziato in precedenza, è possibile rilevare un tratto distintivo. Invero, i destinatari degli atti normativi secondari (al pari dei destinatari delle leggi), visto il connotato dell'astrattezza di cui si dirà, non sono determinabili neanche a posteriori; viceversa, quelli degli atti amministrativi generali sono in genere indeterminabili solo a priori, mentre in un momento successivo possono essere agevolmente individuati. Si pensi, ad esempio, a un bando di gara o di concorso, procedure nelle quali i partecipanti al momento della pubblicazione del bando non sono determinabili, ma lo diventano successivamente «in quanto l'atto generale è destinato a regolare non una serie indeterminata di casi, ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare, una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti» (Cons. St., Ad. plen., n.9/2012).

In definitiva, la linea di confine tra atti amministrativi generali e fonti normative secondarie (quali i regolamenti) risulta essere la seguente:

gli atti amministrativi generali sono espressione di una mera potestà amministrativa, funzionale alla cura concreta di interessi pubblici, i cui destinatari, pur non essendo determinati necessariamente nel provvedimento, di certo sono determinabili successivamente;

i regolamenti (fonti normative secondarie), invece, rappresentano l'estrinsecazione della potestà normativa dell'amministrazione, secondaria rispetto a quella legislativa (rispetto alla quale svolgono una funzione attuativa o integrativa), ma comunque innovativa dell'ordinamento, recando precetti connotati da generalità e astrattezza (Caringella, 144).

Esempi tipici di atti amministrativi generali sono il bando di gara, nell'ambito dei procedimenti relativi all'affidamento di contratti pubblici, e il bando di concorso, nell'ambito delle procedure concorsuali. Si tratta di atti privi del carattere della astrattezza perché esauriscono i loro effetti con l'atto di aggiudicazione o con l'approvazione della graduatoria finale.

Si può ora passare alla rassegna delle principali fonti secondarie: i regolamenti amministrativi, con articolare riguardo a quelli governativi di cui all'articolo 17 in esame.

Il fondamento della potestà regolamentare

Il fondamento della potestà regolamentare ha assunto connotazioni differenti a seconda del periodo storico di riferimento. In particolare, nelle monarchie costituzionali, in cui il potere legislativo si contrapponeva a quello esecutivo, la potestà regolamentare si configurava come potere originario e naturale della P.A.: autolimitazione della discrezionalità dell'amministrazione che, non essendo soggetta alla legge, si dava da sola regole uniformi a cui assoggettare la sua azione (Caringella, 145).

La situazione cambia radicalmente con l'avvento dello Stato di diritto, nel quale il fondamento della potestà regolamentare, in ossequio al principio di legalità e alla garanzia dei diritti del cittadino rispetto all'invadenza del potere esecutivo, è da rinvenire nella legge.

Più in particolare, l'orientamento oggi prevalente accoglie – anche per la potestà regolamentare – un'accezione forte del principio di legalità intesa in senso sostanziale: non è, cioè, sufficiente un'autorizzazione legislativa «in bianco» (cd. legalità formale), ma occorre che la legge definisca puntualmente l'organo competente, le materie, i criteri e limiti entro i quali il potere regolamentare può essere esercitato.

Non può, pertanto, condividersi quella minoritaria impostazione dottrina per la quale, a seguito della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, la potestà regolamentare rinverrebbe direttamente nella Costituzione il suo fondamento, senza necessità di alcuna intermediazione del legislatore ordinario. L'art. 117,comma 6Cost., infatti, si occupa solo del criterio di riparto della potestà regolamentare tra i diversi livelli di governo, ferma, pur sempre, nel rispetto del principio di legalità sostanziale, l'esigenza di una legge che detti le necessarie norme procedimentali e sostanziali per consentirne e legittimarne l'esercizio (Sorrentino).

Il regolamento adottato dalla P.A. in assenza della necessaria copertura legislativa è invalido. Secondo alcuni, il regolamento è semplicemente illegittimo per violazione di legge o per incompetenza; secondo altri, invece, esso è affetto da radicale nullità sotto il profilo della carenza di potere, insanabile e rilevabile ex officio senza necessità d'impugnazione nei termini a pena di decadenza. Quest'ultima tesi prospettata, appare convincente, proprio perché riesce a cogliere il deficit radicale di legittimazione.

L'individuazione nella legge del fondamento del potere regolamentare pone il problema di tracciare il rapporto tra principio di legalità e riserva di legge, anch'esso concorrente a disciplinare l'esercizio della potestà regolamentare.

Come noto, infatti, per talune materie considerate di particolare delicatezza, la Costituzione impone che la disciplina venga dettata (almeno per le sue linee essenziali) per via legislativa, escludendo in tutto o in parte che la stessa venga regolata da fonti gerarchicamente sottordinate rispetto alla legge. In particolare, la riserva è assoluta quando una certa materia può essere disciplinata solo ed esclusivamente dalla legge (riserva assoluta formale) o da atti aventi forza di legge (riserva assoluta materiale), senza alcuno spazio per l'intervento di fonti di rango inferiore; la riserva è, invece, relativa quando l'intervento della fonte regolamentare non è escluso del tutto, ma limitato a profili di dettaglio, richiedendosi che la legge detti a monte le linee essenziali e generali della disciplina della materia.

L'istituto della riserva di legge si declina, pertanto, in un duplice aspetto: come limite al potere esecutivo, ponendo un divieto per le fonti regolamentari d'intervenire in tutto o in parte nella disciplina di una certa materia (aspetto negativo); come vincolo al potere legislativo, imponendo al legislatore di disciplinare compiutamente (o comunque nei profili essenziali) quella medesima materia (aspetto positivo).

Sia il principio di legalità che l'istituto della riserva di legge nascono dalla stessa matrice storico-ideale, essendo fondati sul primato del Parlamento come organo rappresentativo della comunità statale (Sorrentino), ma hanno tuttavia oggetti e finalità diversi.

La riserva di legge disciplina un rapporto tra fonti del diritto, e, in specie tra fonti primarie e fonti secondarie, escludendo che il regolamento possa in tutto (riserva assoluta) o in parte (riserva relativa) concorrere alla disciplina di una certa materia. Al contrario, il principio di legalità disciplina il rapporto tra legge e attività della Pubblica Amministrazione, imponendo che quest'ultima – sia essa normativa o sostanzialmente amministrativa – sia sempre, necessariamente autorizzata dalla legge. La ratio del principio di legalità non è, dunque, quella di regolare il concorso delle fonti nella disciplina di una determinata materia, ma, piuttosto, quella di assicurare un uso regolato, non arbitrario, contrattabile e «giustiziabile» del potere pubblico. Così, mentre la riserva di legge è un precetto «interdittivo» (esclusione del regolamento dall'ambito delle possibili fonti di regolazione di una certa materia), il principio di legalità esprime un precetto «autorizzativo» o «permissivo», stabilendo che il potere pubblico della P.A. può legittimamente incidere sulla sfera giuridica dei cittadini solo in forza di una previa abilitazione legislativa.

Ne discende un diverso ambito di applicabilità dei due istituti, più ampio per il principio di legalità rispetto a quello della riserva di legge.

Nei settori coperti da riserva relativa di legge, quest'ultima, di fatto, finisce per assorbire il principio di legalità: la prescrizione che il legislatore non si limiti ad attribuire all'amministrazione un certo potere normativo, ma debba altresì formulare le scelte fondamentali e caratterizzanti di una certa disciplina, finisce per inglobare la garanzia del principio di legalità sostanziale (Sorrentino).

La mancanza della previsione di una riserva di legge non fa, tuttavia, venire meno l'operatività del principio di legalità che ha carattere generale ed esprime una generale «preferenza» dell'ordinamento per la legge, quale necessario e inderogabile fondamento democratico dell'attività della Pubblica Amministrazione. Nelle materie prive di riserva di legge, il legislatore, se opta per delegare alla fonte regolamentare la disciplina del settore, incontra sempre e comunque il vincolo del principio di legalità. Ne consegue che tali materie non possono, per ciò solo, essere disciplinate da fonti regolamentari senza una legge che, a tutela del cittadino contro l'esercizio del potere esecutivo, ne disciplini i presupposti, i limiti, i contenuti essenziali e i procedimenti di adozione.

La mancanza dell'investitura legislativa del potere regolamentare determina, secondo alcuni, l'illegittimità del regolamento emanato dall'amministrazione per violazione di legge o per incompetenza, secondo altri la nullità dell'atto stesso sotto il profilo della carenza di potere, insanabile e rilevabile ex officio senza necessità d'impugnazione nei termini a pena di decadenza.

Caratteri generali dei regolamenti

I regolamenti amministrativi, come tutte le fonti secondarie, sono atti formalmente amministrativi, in quanto emanati da organi del potere esecutivo, ma sostanzialmente normativi, in quanto contenenti norme destinate ad innovare l'ordinamento giuridico in modo subordinato al rispetto delle fonti primarie. Con tale dizione si intende fare riferimento ai regolamenti esterni, forieri di effetti giuridicamente rilevanti al di fuori dell'organizzazione amministrativa, non già ai regolamenti interni, per contro rientranti nella mera sfera dell'organizzazione dell'apparato pubblico.

Caratteri generali dei regolamenti sono: la generalità, intesa come indeterminabilità dei destinatari e, quindi, idoneità alla ripetizione nell'applicazione della norma, l'innovatività quale capacità di concorrere alla costituzione ed innovazione dell'ordinamento giuridico, l'astrattezza, intesa quale capacità di regolare una serie indefinita di casi.

La natura della potestà è difficilmente identificabile in quanto presenta i caratteri sia della funzione legislativa (dal punto di vista del contenuto), sia di quella amministrativa (dal punto di vista soggettivo e formale) (Carlassare, 612).

La Costituzione italiana, peraltro, non fornisce una disciplina esauriente della fonte regolamentare.

Essa non viene che citata in modo piuttosto generico agli articoli: 64, comma 1 con riguardo ai regolamenti che possono essere adottati da ciascuna Camera del Parlamento; 87, comma 5 in cui, tra le funzioni del Presidente della Repubblica è citato quello di emanare i regolamenti; 117, comma 6, così come modificato dall'art. 5 della l. cost. n. 3/2001, specificando che la potestà regolamentare dello Stato riguarda le materie di legislazione esclusiva, salva delega delle Regioni e che, in tutte le altre materie, la potestà regolamentare è delle Regioni (Cintioli, 204).

Limiti al potere regolamentare

Per quanto attiene l'esame dei limiti che presiedono all'esercizio del potere regolamentare: al pari di ogni altra fonte secondaria le norme regolamentari non possono mai derogare o contrastare con la Costituzione con i principi in essa contenuti (Caringella, 147).

Non possono derogare, contrastare con leggi ordinarie salvo che sia una legge ad attribuire loro il potere, in un determinato settore e per un determinato caso, di innovare anche nell'ordine legislativo. Non possono mai regolare le materie riservate dalla Costituzione alla legge ordinaria e costituzionale. Neppure una legge ordinaria può attribuire tale potere e questo per la semplice ragione che neppure la fonte primaria può contrastare con la Costituzione.

Non possono contrastare con le fonti unionali: basta al riguardo ricordare il principio di primazia del diritto comunitario su quello nazionale, con conseguente disapplicazione delle norme interne incompatibili principio che a fortori viene in rilievo ove la norma interna non armonizzabile con il dato comunitario sia una norma secondaria. Non possono mai derogare al principio di irretroattività della legge. Non possono contenere sanzioni penali per il principio della riserva di legge in materia penale. I regolamenti emanati da autorità inferiori non possono mai contrastare con regolamenti emanati da autorità gerarchicamente superiori, in particolare i regolamenti ministeriali ed interministeriali sono subordinati a quelli governativi. Fra questi sussiste un rapporto di competenza secondo il quale il regolamento governativo non può di norma appropriarsi di materie che la legge ha rimesso al potere regolamentare di un ministro.

I regolamenti statali: procedimento di formazione e classificazione dei regolamenti governativi

Il potere regolamentare dell'Esecutivo rinviene il fondamento generale della propria disciplina nellal. n.400/1988 (modificata dalla l. n. 69/2009).

Tale legge, all'art. 17, nel disciplinare organicamente il procedimento di formazione dei regolamenti statali, distingue, innanzitutto, tra regolamenti governativi, regolamenti ministeriali e regolamenti interministeriali.

I regolamenti governativi sono adottati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri; i regolamenti ministeriali e interministeriali sono, invece, adottati dai singoli Ministri nelle materie di competenza ovvero di concerto tra due o più Ministri. Entrambi devono essere preceduti dal parere obbligatorio ma non vincolante del Consiglio di Stato e, prima della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, sono sottoposti al visto e alla registrazione da parte della Corte dei Conti. Molte leggi prevedono, inoltre, un'ulteriore fase procedimentale costituita dal parere parlamentare, di regola espresso dalle Commissioni parlamentari competenti per materia (parere previsto in generale per i regolamenti di organizzazione dei ministeri dallo stesso art. 17, comma 4-bis della l. n. 400/1988).

Quanto ai regolamenti governativi, dal punto di vista contenutistico e funzionale, l'art. 17 individua una pluralità di tipologie che occorre ora passare in rassegna, con l'avvertenza che, spesso, uno stesso regolamento contiene disposizioni riconducibili a plurime differenti tipologie, sicché, in tali casi, le distinzioni di cui si dirà vanno riferite alle singole disposizioni regolamentari, anziché all'intero atto normativo (Tarli Barbieri).

Al comma 1, la norma in commento elenca i casi in cui è possibile utilizzare i regolamenti cui corrispondono diverse tipologie di atti: esecutivi, attuativi-integrativi, indipendenti e di organizzazione (Labriola, 240).

I regolamenti esecutivi (art. 17, comma 1, lett. a)

Alla lett. a) del comma 1 è previsto che i regolamenti possono essere utilizzati per disciplinare «l'esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari». Sono, questi, i cosiddetti regolamenti «esecutivi» in quanto la loro è una funzione «servente» nei confronti di altre disposizioni poste da fonti di rango primario (leggi, decreti legislativi e regolamenti comunitari). Trattasi, quindi, di regolamenti necessari per curare l'esecuzione di una legge che essi presuppongono e alla quale si ricollegano.

La mancata inclusione, fra le norme suscettibili di esecuzione regolamentare (accanto alle leggi ed ai decreti legislativi), dei decreti legge, pare essere stata suggerita dal limitato vigore temporale di tali atti (specie dopo la bocciatura della prassi della reiterazione da parte della Corte costituzionale) e dalla considerazione delle difficoltà operative cui tale pratica darebbe luogo. Quanto alla novità, introdotta dalla l. n. 25/1999 (l. comunitaria 1998), dei regolamenti attuativi di regolamenti comunitari, va ricordato anche che, ai sensi dell'art. 4 della l. n. 86/1989, lo strumento regolamentare può essere utilizzato ai fini dell'adeguamento a direttive comunitarie. Sul punto è stato osservato che, mentre i regolamenti di recepimento di regolamenti comunitari, attesa la completezza contenutistica e precettiva di dette ultime norme, hanno carattere esecutivo, i regolamenti di trasposizione di direttive, visto il carattere fisiologicamente incompleto delle direttive (salve quelle dettagliate), sono annoverabili nell'ambito dei regolamenti integrativi (Caringella, 148).

Regolamenti attuativi ed integrativi di leggi e decreti legislativi recanti norme di principio (lett. b)

Si accorda all'esecutivo espressamente la potestà regolamentare ad emanare regolamenti di «esecuzione e di integrazione» superando la discussa limitazione alla normazione di dettaglio.

Parte della dottrina, tuttavia, li ritiene ancora assimilabili ai regolamenti di esecuzione, mentre, secondo altra parte sarebbero qualificabili come regolamenti indipendenti, in quanto diretti a disciplinare compiutamente materie in ordine alle quali il legislatore si è limitato alla fissazione dei principi fondamentali al fine di determinare l'ambito di applicazione del potere regolamentare attribuito al Governo.

Secondo una terza posizione dottrinaria, trattasi di un tertium genus di regolamenti, inquadrabile in una posizione di equidistanza tra i regolamenti indipendenti e quelli esecutivi (cfr. Cons. St., sez. atti norm., parere 23 ottobre 2000, n. 239/99;Trib. Sup. Acque 23 gennaio 2002, n.8).

La dottrina ha contribuito a definire l'ambito di applicazione di tali regolamenti delineando la discussa linea di confine con i regolamenti esecutivi: mentre quest'ultimi sono intesi a specificare il contenuto della legge o a prescriverne modalità attuative, senza possibilità di ampliarne il contenuto o innovarne la disciplina, i regolamenti di attuazione sono volti a disciplinare l'attuazione e l'integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio e hanno forza innovativa, pur nel rispetto di norme di principio contenute nelle leggi che sono chiamati ad attuare e dei principi generali posti a livello normativo generale) (Cintioli, 204). La norma pone, inoltre, un limite di carattere generale in caso di materie riservate alla competenza legislativa regionale. Si richiede, in altri termini, che la legge della quale il regolamento de quo debba fornire la disciplina attuativa ed integrativa non possa essere una legge cornice ex art. 117 Cost., altrimenti opinando, specie dopo la riforma di cui alla l. cost. n.3/2001, si realizzerebbe un'illegittima invasione, inibita alle fonti di rango primario che devono arrestarsi alla soglia dei principi fondamentali, da parte di atti regolamentari statali nei settori di competenza legislativa concorrente delle Regioni nelle materie di cui all'art. 117 Cost. (Caringella, 149).

Regolamenti su materie non regolate da leggi o atti aventi forza di legge, non oggetto di riserva (lett. c)

Il tipo di regolamento ivi previsto è quello «indipendente», ovvero che può disciplinare «le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forze di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge». Tali regolamenti incontrano un duplice limite: 1) uno generale rappresentato dal fatto di non poter disciplinare materie coperte da riserva di legge; 2) l'altro, particolare, in quanto manca, per quelle materie, una disciplina legislativa. Il problema posto da questi regolamenti attiene la possibilità della legge di ridisciplinare in futuro la materia, costringendo il regolamento a lasciarla di nuovo ad una norma primaria.

Questo tipo di regolamento è stato ritenuto confliggente con i precetti costituzionali sotto un duplice profilo: innanzitutto perché «non sarebbero neppure configurabili nella natura delle cose, stante la loro oggettiva incompatibilità con il «principio di completezza; in secondo luogo perché contrasterebbero con il “principio di legalità”» (Cheli, 63).

All'uopo è stato osservato dal Consiglio di Stato, sezione consultiva atti normativi, che il principio secondo cui il potere regolamentare deve sempre trovare nella legge la propria legittimazione risponde a regole di stretta tipicità e può essere derogato solo con riferimento ai regolamenti c.d. liberi, previsti dal comma 1 lett. c). In altri termini il Consiglio sembra orientarsi nel senso della non necessità di una previsione legislativa legittimante il singolo regolamento, essendo sufficiente, ai sensi dell'art. 17 in parola l'ammissibilità costituzionale di una simile forma di regolamento in settori non coperti da riserva di legge (Patroni Griffi, 687).

Per converso, la dottrina prevalente sembra porre in modo più incisivo il problema della tipicità anche per i regolamenti indipendenti, osservando che all'attività normativa dell'esecutivo si applica il principio di legalità inteso come conformità in senso formale il quale impone che ogni manifestazione di attività normativa trovi il proprio fondamento in una legge generale che indichi l'organo competente e le materie in ordine alle quali esso può esercitarla.

La previsione costituisce una autorizzazione generale al Governo ad emanare regolamenti indipendenti, che intervengono cioè in materie non disciplinate dalla legge, salvi i limiti della riserva di legge assoluta e relativa. Nella vigenza della l. del 1926 in questa categoria la dottrina ricomprendeva tutti i regolamenti «che non si riannodano ad alcuna legge e che sono emanati in virtù dei poteri direttamente conferiti al Re dalla Costituzione». Con l'avvento della Costituzione, la dottrina ha affrontato il problema della compatibilità di tale categoria di regolamenti con il «principio di legalità», in relazione al fondamento legislativo del loro intervento. Si discute tutt'oggi se il principio di legalità sia soddisfatto da una mera attribuzione di potestà normativa nelle materie non legificate o se siano necessarie ulteriori indicazioni di carattere sostanziale quanto all'oggetto ed al modo di disciplina. Parte della dottrina ha inteso il principio di legalità in senso rigoroso, richiedendo, cioè, che ogni manifestazione del potere normativo dovesse avvenire a fronte di una esplicita autorizzazione legale che definisse anche i contenuti della disciplina. L'autonoma iniziativa dell'esecutivo che non trovi nella legge agganci di carattere sostanziale contraddirebbe non solo il principio di legalità ma anche l'art. 97 Cost., ove intervenga in materie coperte da riserva «relativa» di legge, e l'art. 101 Cost., nella parte in cui dispone l'esclusiva soggezione del giudice alla legge (Caringella, 150).

Di contrario avviso la dottrina maggioritaria, secondo la quale sarebbe sufficiente una generica attribuzione della potestà regolamentare affinché il regolamento indipendente possa essere emanato. Si ritiene, infatti, che regolamenti indipendenti siano suscettibili di distinzione solo quantitativamente (e non qualitativamente) rispetto ai regolamenti di esecuzione: mentre questi ultimi intervengono in un settore già disciplinato compiutamente dalla fonte legislativa, i regolamenti indipendenti regolano una materia non disciplinata dalla legge.

Anche dopo la riforma del 1988, si registra, ad opera di parte della dottrina, l'obiezione di una dubbia legittimità costituzionale in quanto la mancata fissazione, ex art. 17, comma 1, di qualsivoglia limite all'esercizio del potere regolamentare determinerebbe la possibilità di uno sconfinamento del Governo nel campo riservato al potere legislativo che si profila come potenzialmente in contrasto con le garanzie a difesa del cittadino. Non vi è dubbio, infatti, che la norma possegga potenzialità espansive di gran lunga superiori rispetto alla configurazione iniziale dei regolamenti indipendenti, che addirittura erano qualificati come species dei regolamenti esecutivi.

Basti considerare due eventuali conseguenze. In primo luogo sarebbe sufficiente che una semplice legge abroghi senza minimamente sostituire l'intera disciplina legislativa per aprire ipso facto il campo alla regolamentazione governativa, ossia per dare la stura ad una delegificazione non corredata dalle garanzie di cui all'art. 17 comma 2, prima di tutte la necessità di una norma di legge ad hoc che autorizzi la delegificazione e ne fissi i principi. In secondo luogo l'estrema labilità definitoria delle materie non disciplinate da legge potrebbe condurre il governo a ritagliare nuove materie da quelle preesistenti connotandole di particolare specificità ed autonomia, aprendo autonomamente nuovi spazi per esercitare la potestà regolamentare. Di qui la necessità di un utilizzo cauto e prudente di tale strumento. Tale dottrina non manca, tuttavia, di rilevare come la sostanziale inesistenza, nel nostro ordinamento, di settori connotati dall'assenza di disposizioni legislative, considerato il disposto dell'art. 12 disp. sulla legge in generale in tema di analogia legis et juris, venga a scongiurare, sia pure solo in parte, i rischi prospettati (Caringella, 150).

V. anche infra.

Regolamenti concernenti il funzionamento e l'organizzazione di pubbliche amministrazioni (lett. d)

Detti regolamenti diretti a disciplinare l'organizzazione degli uffici amministrativi erano già previsti dalla l. n. 100/1926 sia pure con esclusione di taluni settori specificamente individuati (es. ordinamento di comuni Province, università, ecc.). Con l'avvento, secondo la prevalente dottrina, della Costituzione repubblicana la materia della organizzazione di pubblici uffici è stata fatta oggetto di riserva relativa di legge (art. 97 Cost.: vedi il relativo commento), ad eccezione per il numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei Ministeri riservate dall'art. 95 Cost. (vedi il relativo commento) in modo assoluto alla legge. Ne è derivato che, per quanto attiene alle materie di cui all'art. 95 Cost., i regolamenti di organizzazione non sono più annoverabili tra i regolamenti indipendenti. L'espressa menzione trova giustificazione, più che nell'omaggio alla tradizione, in risposta alla volontà di configurare un modello di ripartizione delle competenze tra legge e regolamento che ritagli una riserva della amministrazione in campo organizzativo (Caringella, 151).

Tuttavia, stante il tenore dell'espressione utilizzata, la suddetta volontà non trova corrispondenza nella norma priva di qualsiasi autonomia qualificatoria. Lal. n.59/1997, aggiungendo un comma 4-bis all'art. 17 l. n. 400/1988, ha, tuttavia, introdotto una nuova figura di regolamenti in materia di organizzazione e disciplina degli uffici dei Ministeri, da emanare nel rispetto dei principi di cui ald.lgs. n.29/1993 (poi d.lgs. n. 165/2001) e con i contenuti e l'osservanza dei criteri fissati nel comma stesso. La norma richiama la disciplina dei regolamenti di delegificazione. Secondo avvertita dottrina, si tratta tuttavia di un richiamo meramente formale.

La fissazione di principi, contenuti e criteri direttivi, infatti, viene formulata in modo estremamente generico, per cui la discrezionalità nell'orientare le scelte del Governo attribuendo dei limiti alla delegificazione viene dismessa dal Parlamento ed attribuita al Governo stesso. Inoltre, manca del tutto nel comma in esame un'abrogazione espressa delle norme previgenti, che resta conseguentemente affidata al regolamento stesso.

Si è, dunque, affermato, non senza qualche fondamento, che la previsione costituisce «una vera e propria riserva di regolamento» che prevede una competenza permanente dei regolamenti governativi dotati di un effetto delegificante in una materia vastissima e coperta, se non da riserva assoluta (che impedirebbe in radice l'impiego di regolamenti di delegificazione ex art. 17, comma 21, l. n. 400/1988), sicuramente da riserva relativa di legge (Caringella, 151).

È stato, poi, posto in risalto, come non sussiste alcun rapporto di gerarchia tra i regolamenti governativi di cui all'art. 17,comma 1 l. n.400/1988 ed i regolamenti di delegificazione di cui al comma 2 della medesima disposizione (Paladin, 343).

È pacifico, infine, salvi i dubbi che possono residuare per i regolamenti di delegificazione ed i testi unici delegificati che i termini indicati dalla legge per l'esercizio del potere regolamentare, diversamente da quanto accade per i poteri legislativi delegati ai sensi dell'art. 76 Cost.non sono perentori e ciò in quanto se il legislatore ha inteso demandare alla normazione secondaria il completamento o lo snellimento della procedura non è concepibile che la disciplina stessa resti lacunosa e la legge rimanga di fatto inapplicabile solo perché l'autorità non ha rispettato il termine.

I regolamenti di delegificazione (comma 2)

L'analisi di tali regolamenti non può prescindere da una sia pur breve introduzione sull'istituto della «delegificazione» che ha, in pratica, consentito il ricorso allo strumento in esame.

La pubblica amministrazione è stata interessata da un processo di trasformazione che ha coinvolto il sistema dell'amministrazione statale a partire dagli anni Novanta, nell'ambito del quale, come rilevato in dottrina, si è verificata una stretta connessione tra delegificazione e semplificazione. In particolare, la delegificazione è stata definita come strumento principale della politica di semplificazione ove trova il suo più importante campo di manifestazione di fonte legislativa. Viene ad essere invece disciplinata, a partire da un certo momento, mediante l'impiego di una fonte regolamentare, abrogandosi la disciplina legislativa contemporaneamente all'entrata in vigore della disciplina regolamentare di essa, o restringendola alla semplice indicazione di una serie di principi al cui perseguimento la disciplina regolamentare deve essere orientata (Pizzorusso, 492).

Attraverso questo fenomeno, dunque, la disciplina di alcune materie, comunque non coperte da una riserva di legge, viene trasferita da una fonte primaria ad una secondaria, appunto il regolamento, permettendo così al Governo di svolgere un'attività diretta in ambito normativo (Pizzorusso, 493).

Si è, altresì, rilevato come al concetto di delegificazione, quale trasferimento del potere normativo, ne è stato contrapposto uno più ampio inteso come «trasferimento della competenza normativa (o del suo esercizio) su materie determinate dalla legge statale ad altra fonte». Per adempiere a questa funzione sono state individuate tre tecniche: il decentramento legislativo, sia a livello interno (Governo-Parlamento), sia esterno, cioè nei confronti della potestà legislativa regionale o di altre fonti di autonomia territoriale; la deregulation cioè la rinuncia da parte dello Stato a disciplinare materie o attività, in quanto ritenute non più meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento; la «deburocratizzazione» intesa come un recupero del potere dell'amministrazione pubblica di autoorganizzarsi attraverso lo snellimento delle procedure amministrative e il rafforzamento degli strumenti regolamentari interni (Modugno, 233).

Pertanto, l'attribuzione della disciplina di una materia dal Parlamento al Governo è solo uno dei modi per attuare la delegificazione (De Muro, 185).

Lo scopo principale della delegificazione è stato, quindi, quello di diminuire le materie disciplinate dalla legge e di adottare, per alcune, una disciplina più organica e più facilmente gestibile, sia al momento della sua applicazione, sia nel caso in cui si dovesse intervenire di nuovo nella stessa materia delegificata. Oltre a questo motivo, lo strumento della delegificazione è stato ed è tuttora utilizzato anche per contrastare l'uso eccessivo della decretazione d'urgenza da parte del Governo e l'elevato numero di leggi emanate nel nostro ordinamento dal Parlamento (Niccolai, 6).

Delegificazione però, non significa necessariamente diminuzione del numero di norme emanate. Ed infatti, di primo acchito si potrebbe qualificare tale fenomeno come «neutro» poiché ad una legge si sostituisce un regolamento, non riducendo così, né il numero di fonti, né il numero di norme presenti nell'ordinamento. A ben vedere, invece, si nota come la delegificazione potrebbe anche paradossalmente innescare un processo inflattivo nella produzione normativa, perché la produzione delle norme viene semplificata (Tarli-Barbieri, 105).

La delegificazione ha, quindi, coinvolto il sistema delle fonti regolatrici dell'organizzazione ministeriale, permettendo così al Governo di adottare, in questo ambito, appositi regolamenti (Lupo, 407).

Ebbene, dal punto di vista delle fonti che disciplinano la delegificazione in generale, la legge principale che ha proposto un vero e proprio modello, anche se non sempre rispettato, è proprio la n. 400 del 23 agosto 1988. Alla base di questa legge c'è l'obiettivo di voler razionalizzare il sistema delle fonti in modo da determinare un migliore rapporto fra la produzione normativa del Parlamento e del Governo, lasciando all'organo legislativo le decisioni di principio e all'esecutivo le disposizioni più particolari. Con tale normativa, infatti, si riconosce, in ragione della delegificazione, la potestà regolamentare del Governo, disegnando un modello cui potersi rifare qualora ai regolamenti governativi spetti normare una materia in quel momento disciplinata dalla legge o da altre fonti primarie (Cheli, 56-57).

L'art. 17, per quanto già rilevato, intende la delegificazione come un istituto che attribuisce al Governo il potere generalizzato di emanare norme di rango secondario, per la maggior parte regolamenti, sulla base di una legge delega posta dal Parlamento.

Attraverso questo atto legislativo, viene indicato, come osservato, lo schema costituzionalmente idoneo per l'ammissibilità di tale operazione, ponendo come presupposti: a) una legge che individua la materia che sarà sottoposta al processo delegificatorio; b) il divieto di intervenire in materie coperte da riserva assoluta di legge; c) l'imputazione dell'effetto abrogativo delle fonti previgenti all'atto legislativo che prevede la delegificazione.

Il comma 2 dell'art. 17 disciplina i regolamenti di delegificazione: si contempla per la prima volta la facoltà, da parte del legislatore, di autorizzare il Governo all'emanazione di regolamenti diretti a disciplinare materie non coperte da riserva assoluta di legge, dettando «le norme regolatrici della materia» e disponendo l'abrogazione delle norme legislative vigenti dal momento dell'entrata in vigore di quelle regolamentari. Si tratta di una categoria di regolamenti (c.d. delegati o liberi) di elaborazione dottrinale prima della l. del 1988, estremamente controversa in ordine alla stessa definizione ed ampiezza. Sono regolamenti che, per effetto di una legge intesa alla fissazione di criteri direttivi, vanno a sostituirsi, abrogandola, ad una legge preesistente (Zagrebelsky, 208).

La categoria, assai controversa in ambito dottrinale, ha ricevuto un avallo legislativo esplicito solo con la l. n. 400/1988 . Si deve soggiungere che la categoria dei regolamenti di delegificazione ha avuto un notevole sviluppo ai fini della semplificazione dei procedimenti amministrativi con l'art. 20 della l. n. 59/1997 (come mod. dalla l. n. 50/1999, che, tra l'altro, ha inserito la delegificazione tra i criteri che presiedono all'adozione dei testi unici).

Giova infine ricordare che un problema particolare è quello dell'ammissibilità dell'adozione di regolamenti di delegificazione da parte delle autorità indipendenti (Caringella, 152). Come osservato, inoltre, i regolamenti governativi adottati ai sensi dell'art. 17, comma 2, sono intesi come fonti maggiormente controllabili dal Governo e, al tempo stesso, più flessibili, rispetto alla legge, e quindi più idonee allo svolgimento del compito di ridisciplinare i procedimenti amministrativi in base ai principi di semplificazione introdotti dalla l. n. 241/1990. Con riferimento a questo fenomeno, si parla infatti di un «duplice effetto» di semplificazione che così si verrebbe ad originare, grazie alla riduzione sia della complessità del procedimento, sia del rango della sua disciplina (Lupo, 15).

Il comma 2 detterebbe, quindi, la disciplina generale della delegificazione o, meglio, «il procedimento utilizzabile per sostituire norme regolamentari a norme legislative nelle materie in cui ciò sia consentito dalla mancanza di riserve assolute di legge». Il regolamento si sostituisce alle disposizioni previste dalle leggi o dagli atti aventi forza di legge precedentemente adottati, in base ad una legge di autorizzazione la quale demanda al regolamento il potere di disporre qualcosa in più di quanto non si possa fare con i regolamenti tipici, ossia il potere di abrogare precedenti disposizioni legislative. Il Parlamento può, quindi, autorizzare il Governo a disciplinare intere materie ma, nello stesso tempo, l'organo legislativo deve dettarne i principi fondamentali, ovvero le norme generali regolatrici, della materia oggetto di delegificazione. All'entrata in vigore del regolamento così formatosi, le norme previgenti che riguardavano quella materia specifica, e che ora risultano in contrasto con il nuovo regolamento, saranno abrogate. Il potere di cui dispone il Governo è di tipo regolamentare e non si realizza una vera e propria delega di poteri normativi; il Governo si limita ad esercitare un potere normativo secondario che, da una parte, è finalizzato ad attuare e sviluppare le norme primarie e, da un altro, è vincolato ad intervenire in uno spazio definito, risultante all'abrogazione delle disposizioni di legge vigenti (Cabras, 322).

I regolamenti di delegificazione possono allora definirsi, alla luce di detto parametro legislativo, come atti normativi secondari ai quali la legge di autorizzazione consente di disciplinare ex novo materie già oggetto di normazione legislativa, dalla quale l'Esecutivo è del pari autorizzato a discostarsi, attraverso un meccanismo complesso che neutralizza le incompatibilità con il dettato costituzionale attraverso i seguenti passaggi: a) il regolamento non può intervenire in una materia coperta da riserva assoluta di legge; b) la legge di autorizzazione deve fissare i criteri che devono presiedere all'esercizio del potere regolamentare dettando le norme generali regolatrici della materia; c) l'effetto abrogativo delle leggi vigenti in materia si riconduce alla stessa legge che autorizza l'esercizio del potere regolamentare, ma si presenta sospensivamente condizionato all'entrata in vigore del regolamento: occorre però che la legge non solo delegifichi le disposizioni vigenti rendendole cedevoli, ma anche che delimiti, nel modo più rigoroso, l'ambito materiale che le norme regolamentari andranno a coprire; d) il regolamento governativo deve essere emanato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Stato (Lupo).

Quanto al limite della riserva costituzionale di legge, occorre distinguere tra riserva assoluta e relativa.

Ove la riserva sia assoluta, è inibita in toto la delegificazione. In caso di riserva relativa, per converso, la delegificazione è ammessa a patto di non incidere su quel minimo di livello legislativo inteso a fissare i principi della materia (Caringella, 444).

Infine, deve darsi atto della recente introduzione della tipologia di regolamenti di cui al comma 4-ter, a opera dellal. n. 69 del2009, volti, in specie, al riordino periodico delle disposizioni regolamentari vigenti nonché anche alla ricognizione di quelle che sono state oggetto di abrogazione implicita ed espressa o che sono prive di contenuto normativo o che, addirittura, risultano essere obsolete.

La previsione in esame, si pone, dunque, quale netta espressione dell'opera di semplificazione normativa intrapresa dal legislatore e rivolta in più direzioni, tra cui, procedere alla ricognizione delle norme regolamentari esistenti, consapevole dell'immenso coacervo di disposizioni esistenti nelle più diverse materie e, soprattutto delle difficoltà esegetiche cui vanno incontro interpreti ed operatori alle prese con disposizioni confliggenti.

Il distacco dal modello di delegificazione delineato dall'art. 17, comma 2, della l. n. 400/1988

Come osservato, il modello delineato dal legislatore del 1988, ha subito notevoli alterazioni nella prassi applicativa, registrandosi dei notevoli e costanti scostamenti dalla disciplina legislativa dell'istituto, tanto che, oggi, si ritiene pacificamente fallito il tentativo di disciplinare la delegificazione con legge ordinaria, e ciò nonostante il richiamo al secondo comma dell'art. 17 sia presente tanto nei preamboli dei decreti presidenziali che nelle clausole attributive di potere (Lupo).

Si è, quindi, concretizzata la perplessità manifestata dalla dottrina già all'indomani dell'entrata in vigore della legge n. 400, che aveva fatto notare come il modello di delegificazione delineato dall'art. 17 fosse suscettibile di essere modificato.

Negli anni immediatamente successivi all'entrata in vigore della legge, e fino a tutto il 1992, le poche leggi di delegificazione non hanno tenuto conto del modello di cui all'art. 17, salvo rare eccezioni. E già nelle prime applicazioni del modello di delegificazione previsto dalla l. n. 400/88, vi sono state deroghe, sia sotto il profilo procedimentale che contenutistico. E infatti, già la l. n. 86 del 1989, cd. «legge La Pergola», che prevede, per l'attuazione delle direttive comunitarie, forme di delegificazione della disciplina di rango primario eventualmente vigente nelle materie interessate dalla normativa comunitaria, pur richiamando genericamente l'art. 17, non ha, in realtà, realizzato una delegificazione in attuazione del modello ivi previsto ma, diversamente ha delineato un nuovo modello, per molti aspetti differente da quello generale (Lupo).

Un altro esempio di deroga rispetto al modello di cui alla l. n. 400/1988 è costituito dalla l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, posto che nessuna delle disposizioni di delegificazione ivi previste ha individuato le norme generali regolatrici della materia, né, tantomeno, sono state analiticamente individuate le norme da ritenersi abrogate in seguito all'entrata in vigore dei regolamenti, rimettendo, quindi, l'effetto delegificante direttamente alla fonte secondaria, secondo un canovaccio ormai frequente, nella prassi applicativa dell'istituto (Cheli, 167).

Senonché a far data dalla l. n. 537/1993, si è assistito ad un'ingente opera di delegificazione per la semplificazione di molti procedimenti amministrativi, che viene poi proseguita dalla l. n. 59/1997 e dalle successive leggi annuali di semplificazione (Lupo).

Come rilevato, a tale opera di delegificazione è sotteso un bilanciamento tra i diversi interessi esistenti nell'ambito di ciascun procedimento che vengono rimessi quasi integralmente alla disponibilità governativa e ai suoi rapporti di forza interni, con il solo limite dei pareri (obbligatori ma non vincolanti) del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari, oltre al visto della Corte dei conti. Ciò si verifica in ragione della sussistenza di due presupposti di ordine politico-organizzativo, che accompagnano lo svolgimento di questa opera: essi sono costituiti dalla condivisione di tale politica da parte della quasi totalità delle forze parlamentari (di maggioranza, ma non solo) e dall'esistenza, in seno al Governo, di una struttura, all'origine all'interno del Ministero della funzione pubblica, poi in parte autonomizzatasi con il Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure, che dell'interesse alla semplificazione si fa portatrice, instaurando forme di dialogo permanente con i rappresentanti degli interessi coinvolti (attraverso l'Osservatorio sulle semplificazioni) (Lupo).

È stato, inoltre, osservato come si cerchi di evitare il verificarsi di una tendenza contraria ed opposta rispetto alla delegificazione ossia un ritorno alla rilegificazione, sarebbe, quindi, questa, a ben vedere, la ragione che sta alla base della creazione della legge annuale di semplificazione. In altri termini, quando si registra l'esigenza politica o, talvolta, anche amministrativa di un diverso bilanciamento tra gli interessi coinvolti nei procedimenti amministrativi oggetto di semplificazione, l'ordinamento pone invero assai pochi ostacoli alla spinta a rilegificare la disciplina relativa ai singoli procedimenti o a fasi di tali procedimenti (Crisafulli, 130).

La dottrina si è, inoltre, interessata, degli effetti della delegificazione sulla quantità e sulla qualità delle norme. Ed infatti ciò di cui si è avveduta, per quanto già ribadito, è che la delegificazione non si identifica con la deregulation (ossia con le forme di decentramento normativo a favore di regioni e enti locali). Il processo delegificatorio tende a produrre un numero persino maggiore di norme rispetto a quelle esistenti laddove il medesimo oggetto era in origine disciplinato con legge (statale) (Pizzorusso, 494).

Se ci si limita alla delegificazione in senso stretto, sembrerebbe, come posto in rilievo, che ad una legge si possa sostituire, un regolamento. Diversamente, ad una valutazione più approfondita ci si avvede di come la fonte regolamentare sia più flessibile di quella legislativa, la delegificazione produce, in realtà, un effetto di moltiplicazione delle norme adottate in una data unità di tempo.

Sul piano qualitativo, è evidente che la delegificazione viene a porre tendenzialmente maggiori difficoltà, dal momento che richiede l'articolazione di una disciplina già integralmente legislativa in due atti normativi, caratterizzati perciò da un diverso regime giuridico (invero fin troppo diverso, specie sul piano della sindacabilità giurisdizionale): e ciò specialmente ove si rispetti il modello del comma 2, per effetto del quale, accanto al regolamento, l'oggetto della delegificazione continua ad essere sia pure indirettamente disciplinato anche dalle norme generali regolatrici della materia contenute nella legge delegificante. In questa ottica, si comprende anche meglio lo scopo con cui si è pensata la soluzione, peraltro assai parziale, dei testi unici misti, sorti appunto con l'intento di riunire, in un unico atto, sia le norme primarie sia quelle secondarie relative ad un certo oggetto (Lupo).

L'effetto negativo in termini di qualità dovrebbe peraltro essere compensato da una maggiore accuratezza nella redazione dei testi dei regolamenti, non soggetti alle alterne vicende dell'emendabilità parlamentare.

In proposito, si può osservare in primo luogo che non sempre ciò accade, essendo riscontrabili numerose eccezioni; in secondo luogo, che il parallelo va spesso operato non con leggi parlamentari, ma con decreti legislativi.

La sola delegificazione, non appare in grado di migliorare la qualità né di diminuire la quantità di norme vigenti, semmai spingendo, in vario modo, verso un loro aumento.

Si è, inoltre, evidenziato, come negli ultimi anni, si riscontri un fenomeno esattamente inverso rispetto a quello prima osservato nel corso degli anni ‘90, potendosi perciò parlare di un ritorno della legge o, come affermato dal Consiglio di Stato nel parere n. 2 del 2004, di un passaggio dal regolamento alla legge (Lupo).

Occorre, infine, dare atto di come l'art. 13l. n.59/1997 e l'art. 4d.lgs. n.300/1999 sulla riforma dei Ministeri hanno introdotto una nuova figura eccentrica di regolamenti delegificanti di organizzazione amministrativa (v. nuovo comma 4-bis dell'art. 17) così stabilmente rimettendo alla fonte di rango regolamentare l'organizzazione ministeriale sia pure nel rispetto dei parametri di cui agli artt. 95 e 97 Cost.Trattasi di regolamenti organizzativi delegificanti devianti in modo radicale rispetto al modello generale di cui all'art. 17, comma 2, data la totale assenza di previsione puntuale da parte della legge istitutiva delle norme generali regolatrici della materia e di qualsiasi riferimento volto all'individuazione in sede legislativa delle norme vigenti da abrogare con decorrenza dalla data di entrata in vigore del regolamento. Parte della dottrina ha sostenuto la tesi del comma 4-bis come norma sulla produzione; secondo altra parte, il varo di una norma di autorizzazione generale all'adozione di regolamenti di delegificazione ai fini dell'organizzazione dei Ministeri, che non sia integrata dai requisiti caratterizzanti il modello generale, concreta palese violazione dei principi costituzionali di legalità, di gerarchia delle fonti e di separazione dei poteri. In pratica l'effetto delegificante è riportato direttamente all'emanazione dello stesso regolamento (Caringella, 444).

L'art. 20 della l. n. 59/1997 (c.d. Legge Bassanini) ha previsto la presentazione, da parte del Governo, entro il 31 gennaio di ogni anno, di un disegno di legge relativo ai procedimenti da delegificare e semplificare (c.d. legge annuale di semplificazione). Tale semplificazione va attuata mediante l'emanazione di regolamenti di delegificazione. Sulla scia di tale processo di riforma, il Parlamento ha approvato alcune leggi di semplificazioni: l. n. 50/1999, l. n. 340/2000 e l. n. 229/2003 (Caringella, 152).

I regolamenti regionali: la l. costituzionale n. 3/2001 e il riparto del potere regolamentare tra Stato e Regioni

Il nuovo testo dell'art. 117 Cost. – come risultante dalla riforma costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione attuata con l. cost. n. 3/2011 – oltre a offrire un'adeguata copertura costituzionale al fenomeno regolamentare, ha altresì ridimensionato il potere regolamentare dello Stato, favorendo quello regionale.

L'art. 117, comma 6 dispone, infatti, che il potere regolamentare spetta allo Stato nelle materie che sono di sua competenza esclusiva, mentre nelle altre materie di competenza concorrente o residuale delle Regioni è assegnato alle sole Regioni. E tanto sulla base della considerazione che nelle materie di competenza esclusiva delle Regioni lo Stato non ha alcun potere di intervento (salva la potestà sostitutiva di cui all'art. 120, comma 2 Cost.), mentre nelle materie di competenza concorrente di cui all'art. 117, comma 3 Cost. l'azione statale è limitata alla sola fissazione di principi fondamentali che possono essere individuati esclusivamente dalle leggi e non dai regolamenti statali.

La ratio della scelta costituzionale di limitare a tale stregua l'azione regolamentare dello Stato è data dalla «necessità di sancire un reale adeguamento dei metodi della legislazione alle esigenze delle autonomie e del decentramento richiesto – e finora attuato con scarso successo – dall'art. 5 Cost.».

Il nuovo assetto costituzionale, determinando la conseguenza della riduzione del potere regolamentare, ha rappresentato l'inizio di una stagione di «fuga dal regolamento». Tanto il Legislatore, quanto, a maggior ragione, lo stesso Governo hanno cioè cercato di evitare – per quanto possibile – di fare esplicito riferimento all'esercizio del potere regolamentare o all'art. 17 della l. n. 400/1988, preferendo piuttosto (specie ove fosse in questione una materia suscettibile di essere considerata come di competenza concorrente o esclusiva-residuale delle Regioni) non precisare la natura giuridica dei decreti governativi e ministeriali. In qualche caso, poi, è stato lo stesso Legislatore a qualificare espressamente i decreti come «non aventi natura regolamentare».

Tale prassi è stata, peraltro, più volte stigmatizzata dalla giurisprudenza amministrativa (vedi, Cons. St., Ad. plen., n.9/2012, Cons. St. n.5035/2016 eCons. St., Ad. plen., n.5036/2016), la quale ha chiarito che deve in linea di principio escludersi che il potere normativo dei Ministri e, più in generale, del Governo possa esercitarsi mediante atti di natura non regolamentare, laddove la norma che attribuisce il potere normativo nulla disponga in ordine alla possibilità di utilizzare modelli alternativi e diversi rispetto a quello tipizzato dall'art. 17 l. n. 400/1988. L'atipicità delle fonti secondarie consente, senz'altro, l'introduzione di nuovi modelli di atti normativi di rango secondario, ma ciò deve avvenire a opera della legge, come fonte di rango primario: la deroga al modello prefigurato dall'art. 17l. n.400/1988 e, così, la configurazione di nuovi atti normativi secondari «diversi» dal regolamento, può avvenire legittimamente solo attraverso un'adeguata copertura legislativa che li preveda espressamente e ne definisca la procedura di formazione.

Corte Cost. n. 138/2023  ha  dichiarato illegittima la legge regionale della Campania sulla delegificazione degli apparati amministrativi, rilevando che la stessa, nel dettare le norme generali regolatrici della materia, ha individuato profili parziali e privi di organicità, permettendo al regolamento di delegificazione di invadere spazi in precedenza coperti da norme legislative .Nell'occasione la Corte ribadisce il proprio orientamento, secondo cui nell'ordinamento regionale lo statuto costituisce fonte sovraordinata rispetto alla legge regionale.

Questioni applicative

1) Sono ammissibili regolamenti indipendenti?

La compatibilità costituzionale del modello dei regolamenti è da sempre essere al centro di un articolato dibattito. La questione è evidentemente legata all'accezione del principio di legalità che si intenda accogliere.

Una parte della dottrina ne riconosce la costituzionalità. Taluni giungono a tale conclusione muovendo da un'accezione «blanda» e formale di legalità, per cui sarebbe sufficiente la generica attribuzione di potere regolamentare di cui alla lett. c) dell'art. 17,comma 1 della l. n.400/1988, ovvero, addirittura, la stessa previsione dell'art. 117,comma 6Cost. che – dopo la riforma costituzionale del 2001 – rappresenterebbe il diretto fondamento della potestà regolamentare del Governo e delle Regioni, senza alcuna necessaria intermediazione della legge ordinaria. Altri, invece, ritengono che la fonte della legittimazione in questione sarebbe rinvenibile nella posizione che la Costituzione ha conferito al Governo, non solo come organo di indirizzo, ma anche di normazione, sicché, in questi casi, sarebbe lo stesso ruolo istituzionale rivestito dal Governo all'interno del sistema costituzionale a legittimare una potestà regolamentare indipendente dell'esecutivo.

L'orientamento prevalente e maggiormente condivisibile – come si è visto – abbraccia, tuttavia, un'accezione «forte» del principio di legalità, inteso in senso sostanziale, richiedendo che la potestà regolamentare si fondi su una base legale puntuale, che ne delimiti l'oggetto e ne fissi criteri e modalità di esercizio; base legale di tal specie che giammai potrebbe essere rinvenuta nella generica previsione di cui all'art. 17, comma 1, lett. c), né, tantomeno, nella previsione dell'art. 117, comma 5 Cost. In questo senso, emergono evidenti dubbi di compatibilità in ordine a un'attribuzione generale di potere regolamentare «libero» e indipendente, non accompagnata dall'elaborazione di alcun criterio di disciplina ulteriore. La tesi contraria alla compatibilità costituzionale di tale modello di regolamenti paventa, del resto, il rischio, in essi insito, di un'alterazione dell'ordine fisiologico del sistema delle fonti: i regolamenti indipendenti si atteggiano a fonti secondarie solo virtualmente, nella sostanza dettando l'unica disciplina della materia, senza peraltro condividere il regime degli atti aventi forza di legge. Si osserva, così, che basterebbe una semplice abrogazione (senza sostituzione) per legge della disciplina di una determinata materia, per lasciare campo libero al potere regolamentare del Governo, così determinando una delegificazione priva delle garanzie stabilite – come si vedrà (infra, lett. f).

Le criticità del dibattito sull'ammissibilità dei regolamenti indipendenti sono, peraltro, stemperate dalla sua scarsa rilevanza pratica, attesa l'evidente difficoltà di rinvenire materie del tutto sprovviste di disciplina legislativa. Anzi, secondo taluno, il presupposto operativo di tali regolamenti (ossia l'assenza di qualsiasi regolamentazione da parte della legge) sarebbe per definizione inconfigurabile in concreto, atteso che in forza del principio kelseniano di completezza dell'ordinamento, sarebbe sempre possibile assicurare, quanto meno a livello di principi generali, la copertura di una materia mediante fonti primarie e/o costituzionali.

2) Le ordinanze libere sono normative o amministrative?

L'attitudine delle ordinanze di cui trattasi a derogare, seppure in via provvisoria, alla disciplina di rango primario (necessitas non habet legem) nelle materie non soggette a riserva assoluta di legge, ha determinato un importante dibattito in merito alla relativa natura giuridica.

Originariamente è prevalsa la tesi della natura normativa, la quale si fonda sul fatto che esse hanno contenuto generale e astratto e possono derogare a norme di legge, anche se per periodi circoscritti di tempo. Ciò nondimeno, i sostenitori della tesi in esame hanno precisato che esse non hanno propriamente valore di legge, dato che resta la loro sottoposizione al sindacato giurisdizionale del G.A.

Su altro versante, differente dottrina ha riscontrato il carattere non normativo delle ordinanze, le quali vengono pensate come atti di natura formalmente e sostanzialmente amministrativa. Simile assunto si fonda sulla considerazione che la temporaneità delle statuizioni, che hanno carattere concreto e incidono in modo immediato sulle specifiche situazioni che disciplinano, è incompatibile con il carattere normativo, ossia con l'idoneità ad incidere stabilmente nell'ordinamento giuridico.

Si registra anche una tesi intermedia che afferma la necessità di procedere a un riscontro concreto della natura giuridica delle ordinanze. Secondo tale impostazione esse hanno carattere normalmente amministrativo, perché sono adottate per la soluzione di un problema circoscritto e sono prive dei connotati della generalità e astrattezza, e solo straordinariamente normativo, nei casi in cui impongano prescrizioni che, ancorché provvisorie, hanno carattere astratto, generale e innovativo. In questo secondo caso le ordinanze sarebbero soggette alla disciplina propria degli atti normativi secondari.

T.A.R. Catanzaro. n. 2409/2021, ha ritenuto illegittima l'ordinanza contingibile e urgente (nella specie emanata dal Presidente della Regione Calabria in materia di rifiuti, con l'introduzione a regime di una gestione emergenziale dei rifiuti), in assenza, dell'individuazione di un termine finale di efficacia, e in mancanza del requisito di contingibilità, cioè degli ordinari rimedi predisposti a livello normativo o impossibilità di farvi ricorso in termini generali. 

Ha chiarito il Tar che la ristretta area entro cui il potere di  ordinanza contingibile e urgente può essere esercitato ne consente la configurazione quale extrema ratio.  Il potere di ordinanza extra ordinem si articola pertanto su indefettibili e concomitanti presupposti, rappresentati: “a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza); b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità); c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle leggi” (ex multis, Cons. St. V, n. 3369/2016), cosicché “solo in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale” (Cons. St. V, n. 1189/2016).

Sulla stesssa lunghezza d'onda, T.A.R. Friuli 154/2021 ha reputato illegittima l'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 54, comma 4, del T.U.E.L. adottato sul riscontro di una situazione di pericolo (integrata dall'esistenza di una grande quantità di rifiuti plastici ad elevato rischio di combustibilità, abbandonati all'interno di un capannone, nel caso in cui la riscontrata urgenza e indifferibilità dell'intervento sia stata accentuata al fine di giustificare il ricorso al rimedio atipico ed eccezionale, quale modalità più lineare ed economica per tentare una risluazione della problematica.

3) I piani regolatori urbanistici sono atti nomativi o amministrativi?

Il piano regolatore è lo strumento con il quale la p.a. definisce l'assetto urbanistico ed edilizio del proprio territorio. È composto da prescrizioni che, da un lato, mirano ad individuare le vocazioni delle aree omogenee del territorio; dall'altro, identificano le aree dedicate alla costruzione di opere o di impianti pubblici o di interesse pubblico (Cacciari).

A causa della funzione programmatico-pianificatoria del territorio e, quindi, la previsione di norme generali e astratte destinate a trovare attuazione solo per via dell'adozione dei piani attuativi, una tesi, attualmente minoritaria, predilige la natura regolamentare dei piani regolatori. Secondo questo orientamento, il piano regolatore generale non può essere impugnato immediatamente, ma solo congiuntamente all'atto applicativo, il solo in grado di incidere sulla sfera giuridica dell'interessato.

Altra impostazione, ritiene, invece, la natura di atti amministrativi generali, innanzitutto perché il piano regolatore contiene un gran numero di prescrizioni concrete e di vincoli immediatamente efficaci e poi perché i destinatari sono determinabili a posteriori. Il piano, in questo caso, deve essere impugnato immediatamente in quanto la prescrizione urbanistica incide immediatamente sull'interesse del proprietario a realizzare un utilizzo dell'area di sua pertinenza non consentito dalla disciplina di piano, ovvero incide sull'opposto interesse dei proprietari vicini a che non venga consentito un utilizzo dell'area invece ammesso dal piano regolatore.

È prevalente l'orientamento che riconosce natura mista al piano regolatore generale. Questa impostazione, accolta dalla dottrina dominante nonché dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, comprende appunto i piani in esame tra gli atti c.d. misti, distinguendo tra clausole di carattere normativo, contenenti prescrizioni astratte di carattere programmatico, e clausole aventi carattere provvedimentale in quanto contenenti prescrizioni concrete e dal contenuto precettivo (Cons. St. II, n.5298/2019).

Detta differenziazione produce effetti anche dal punto di vista dell'individuazione dell'interesse al ricorso, in quanto, nel primo caso, trattandosi di prescrizioni normative non immediatamente lesive, esse dovranno impugnarsi congiuntamente all'atto applicativo, mentre per le clausole aventi contenuto immediatamente lesivo si ha l'onere di impugnazione immediata entro il termine decadenziale.

4) Che caratteri presentano le linee guida ANAC?

Le fonti secondarie, nella più moderna concezione normativa, hanno conosciuto un rinnovato protagonismo, con specifico riferimento alla espansione di strumenti di regolazione flessibile o di c.d. soft law nel nostro ordinamento giuridico (variamente denominati linee guida, dichiarazioni di principi, risoluzioni, raccomandazioni, libri di vari colori, prassi, programmi d'azione). Sono gli sviluppi delle tertiary rules della lex mercatoria, che si connotano in funzione della debolezza della base legale (generica, assente o successiva, a seconda che si tratti di atti no law, para-law o pre-law), della prescrittività temperata, della minore rigidità del vincolo, del carattere non auto-applicativo e della necessità di una procedura di consultazione (volta all'individuazione e all'analisi delle more frequently asked questions).

Invero, il sistema delle fonti del diritto amministrativo basato sulla distinzione tra leggi e regolamenti, nonché sull'ulteriore linea di demarcazione tra regolamenti e atti amministrativi generali, è stato oggetto, negli ultimi anni di una vera e propria destrutturazione, dovuta alla necessità di una regolazione più flessibile, veloce e meno formale. Un tertium genus di fonti, caratterizzato da una forte atipicità e da una significativa elasticità, che segna il passaggio dal principio dura lex sed lex al principio soft law but law.

Tale fenomeno è stato descritto come «fuga dal regolamento», il quale ha come principale esempio le linee guida dell'ANAC, espressamente previste dal codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50/2016 che, nella versione originaria, contemplava tali atti tra gli strumenti di attuazione e integrazione della nuova normativa in tema di contratti pubblici. I successivi decreti correttivi hanno, tuttavia, previsto il progressivo superamento to di tale modello in favore del ritorno al regolamento governativo unico (vedi, da ultimo, sulle linee guida ANAC in tema di affidamento in house, Cons. St., sez. norm., par. n. 7164/2021).

Le linee guida vincolanti adottate dall'ANAC non assumono valenza normativa (a differenza di quelle recepite con decreto ministeriale o governativo), ma rivestono il ruolo di atti amministrativi generali appartenenti al genus degli atti di regolazione delle Autorità amministrative indipendenti, sia pure connotati in modo peculiare.

Gli atti di regolazione delle Autorità indipendenti si distinguono per il fatto che il principio di legalità assume un significato diverso rispetto ai normali provvedimenti amministrativi. E invero, la legge, a causa dell'elevato tecnicismo dell'ambito di intervento, si limita a definire lo scopo da perseguire lasciando un ampio potere (implicito) alle Autorità di sviluppare le modalità di esercizio del potere stesso.

La dottrina ha suggerito di riconoscere alle linee guida una vera e propria natura di atti normativi extra ordinem.

Una simile qualificazione giuridica delle linee guida vincolanti, ha suscitato, però, non poche perplessità di tipo sistematico e ordinamentale, soprattutto in assenza di un fondamento chiaro per un'innovazione così diretta del nostro sistema delle fonti.

Pertanto, il Consiglio di Stato ha ritenuto preferibile optare per l'alternativa interpretazione che combina la valenza certamente generale dei provvedimenti in questione con la natura del soggetto emanante (l'ANAC), la quale si configura a tutti gli effetti come un'Autorità amministrativa indipendente, con funzioni (anche) di regolazione. In quest'ottica, le linee guida (e gli atti a esse assimilati) dell'ANAC appaiono logicamente collegate alla categoria degli atti di regolazione delle Autorità indipendenti, che non sono regolamenti in senso proprio ma atti amministrativi generali e, appunto, «di regolazione».

Si tratta quindi di un vero e proprio tertium genus, che prende le distanze tanto dal regolamento quanto dall'atto amministrativo generale.

Una ricostruzione di tal fatta, consente di chiarire una serie di problemi dal punto di vista applicativo. In primo luogo, essa non pregiudica, ma, al contrario, riconferma, gli effetti vincolanti ed erga omnes di tali atti dell'ANAC.

Inoltre, tale elaborazione consente di rendere sicure anche per questi provvedimenti dell'ANAC tutte le garanzie procedimentali e di qualità della regolazione già oggi pacificamente valide per le Autorità indipendenti, in considerazione della natura ‘non politica', ma tecnica e amministrativa, di tali organismi, e della necessità di pareggiare la maggiore flessibilità del ‘principio di legalità sostanziale' con un più forte rispetto di criteri di «legalità procedimentale».

In particolare, le importanti garanzie procedimentali da osservare scupolosamente sarebbero da sintetizzarsi nel modo seguente: l'obbligo di sottoporre le delibere di regolazione a una preventiva fase di consultazione, che costituisce ormai una forma partecipazione al decision making process dei soggetti interessati e che ha anche l'aggiuntivo scopo di procurare ulteriori elementi istruttori/motivazionali rilevanti per la definizione finale dell'intervento regolatorio; l'esigenza di dotarsi – per gli interventi di impatto significativo – di strumenti quali l'analisi di impatto della regolazione-AIR e la verifica ex post dell'impatto della regolazione-VIR; la necessità di adottare tecniche di codificazione delle delibere di regolazione tramite la concentrazione in «testi unici integrati» di quelle sulla medesima materia.

Infine, la qualificazione delle linee guida vincolanti come atti amministrativi generali e di regolazione autorizza la giustiziabilità di tali atti innanzi al G.A., affermata chiaramente già dalla legge delega (lett. t), non con lo strumento della disapplicazione, ma con quello dell'impugnazione secondo le stesse coordinate valevoli per i bandi di gara (impugnazione immediata in caso di immediata lesività, doppia impugnativa in caso contrario).

Come abbiamo anticipato nel precedente paragrafo il c.d. «Decreto Sblocca Cantieri» (d.l. 32/2019 come convertito in l. n. 55/2019) ha disposto la progressiva «estinzione» del sistema delle Linee guida vincolanti.

Una delle scelte del nuovo Codice che aveva maggiormente colpito osservatori e commentatori era proprio quella costituita dalla rinuncia a dotarsi di un regolamento attuativo, con la previsione dell'abrogazione del d.P.R. n. 207/2010, e della sua sostituzione con strumenti di regolazione più leggeri e «flessibili», nella cui predisposizione un ruolo essenziale era stato attribuito proprio all'ANAC (Greco).

I gravi problemi interpretativi che l'inedita formula normativa sopra riportata ha suscitato con riguardo all'inquadramento delle linee-guida dell'ANAC nel sistema delle fonti, anche in considerazione del loro dichiarato surrogare la tradizionale fonte regolamentare, non è mai stata accettata di buon grado dagli operatori che vi hanno scorto non già una semplificazione ma un motivo di ulteriore incertezza.

5) Le linee guida vincolanti ANAC sono atti amministrativi i generali con funzione regolatoria o veri regolamenti amministrativi?

La giurisprudenza maggioritaria reputa che caratteri di flessibilità, atipicità, settorialità e tecnicità escludano la qualificazione di dette linee guida alla stregua di regolamenti (atti rigorosamente tipici e caratterizzati da scelte di valore) e ne impongano la sussunzione nel più elastico spettro degli atti generali di indirizzo regolatorio (Cons. St., par. n. 164/2021;Cons. St. n.584/2021).

La dottrina (Caringella, 182) contesta tale ricostruzione, osservando che a favore della matrice schiettamente regolamentare di tali atti depongono i seguenti rilievi:

a) è pacificamente irrilevante il criterio onomastico, ossia il nomen non regolamentare;

b) è stata superata la concezione governativa dei regolamenti, con conseguente ammissibilità, a fronte di adeguata base legale, di atti normativi di enti diversi, quali le autorità indipendenti;

c) la Costituzione non prevede un numero chiuso ma un sistema aperto delle fonti regolamentari, lasciando spazio alla discrezionalità della legge quanto a denominazione, procedure e autorità legittimate;

d) il carattere flessibile di tali linee guida non toglie che esse siano vincolanti in quanto non si limitano a fissare obiettive ma pongono in essere precetti cogenti ( soft law but law );

e) tali precetti, che non a caso hanno lo stesso ambito oggettivo del regolamento governativo unico di cui al precedente codice, contengono scelte politiche di valore, connotate da generalità, astrattezza e innovatività.

In particolare, un attento studioso (Morbidelli, 273) ha rilevato che in senso contratio alla natura regolamentare non si può valorizzare il carattere atipico delle loinee guida. D'altra parte non occorrono denominazioni o procedure ad hoc, considerato che non v'è un numerus clausus del potere regolamentare, né una tipizzazione: quest'ultima sotto il profilo del nomen e della procedura è riscontrabile solo con riguardo ai regolamenti governativi e ministeriali di cui alla l. 400/1988. Secondo un comune convincimento il fatto che nelle norme attributive del potere non si faccia uso del termine regolamento, non è un fattore escludente della capacità di porre norme giuridiche, come si ricava anche dalla acquisita non rilevanza di tutte quelle disposizioni di legge che qualificano atti normativi espressamente come “atti non aventi contenuto regolamentare”, in quanto tale qualificazione è sempre cedevole di fronte alle sostanza delle prescrizioni inserite nell'atto. In altre parole il nomen (e di riflesso l'assenza dello stesso) non è decisivo (c.d. non decisività del criterio “onomastico”)  Del resto conosciamo da tempo le circolari-regolamento, cioè atti etichettati come circolari e che invece hanno, per caratteristiche oggettive dei contenuti, natura regolamentare. Lo stesso vale per le direttive che possono avere natura di atto normativo secondario in considerazione del loro contenuto (e non della funzione che rivestono), come pure possono rivestire natura normativa le ordinanze contingibili ed urgenti.

La natura regolamentare non è contraddetta neanche sulla base del rilievo che le autorità sprovviste di legittimazione democratica non potrebbero porre norme di diritto, salva l'eccezione delle autorità amministrative indipendenti, in quanto queste sono istituzionalmente incaricate di dettare regole solo tecniche e settoriali. La ragione viene rinvenuta nel rilievo per cui senza legittimazione democratica non è possibile limitare la sfera giuridica dei cittadini: ma a tal fine soccorre la riserva di legge, in quanto il regolamento ha solo una funzione di esecuzione e al più di integrazione, ferma restando la coerenza con la fonte primaria. E del resto è sempre stato incontestato che, ove vi sia una specifica attribuzione da parte della legge, anche gli enti pubblici non territoriali dispongono di potere normativo.

Quanto alla affermata distonia rispetto alla “concezione governativa” del potere regolamentare, tale tesi trascura che il sistema delle fonti è chiuso solo a livello di fonti legislative e costituzionali e che pertanto non si pone alcun problema di ammissibilità dell'esercizio della potestà regolamentare da parte di enti pubblici non territoriali, in quanto espressione di autonomia non costituzionalmente garantita bensì rimessa alla legge ordinaria: si tratta di un potere non garantito, ma neppure vietato dalla Costituzione. Quanto all'argomento per cui la materia non imporrebbe l'affidamento ad una autorità diversa dal Governo, si tratta di una valutazione di opportunità, e in ogni caso l'affidamento ad ANAC trova radice e giustificazione proprio nella ragionevole esigenza di avvalersi dell'esperienza acquisita attraverso la complessa rete di poteri di controllo, segnalazione, proposta etc. di cui tale Autorità è innervata.

Quanto infine al rilievo, avanzato dal Consiglio di Stato, secondo cui la natura non regolamentare delle linee guida consente di non imbattersi nei limiti che il sesto comma dell'art. 117 Cost. pone all'esercizio del potere regolamentare statale, a prescindere dal fatto che la materia dei contratti pubblici attiene alla tutela della concorrenza ed all'ordinamento civile , sicché il problema della competenza regionale non si pone in radice, è agevole osservare come l'argomento in questione in definitiva sia analogo a quello impiegato per fuggire dal regolamento: si cambia il nomen ma non la sostanza. Si potrebbe aggiungere, visto che la tesi appena ricordata giustifica invece i poteri regolamentari delle autorità indipendenti sulla base del loro carattere tecnico, e di rimando sull'assenza di discrezionalità amministrativa, che pure le linee guida di ANAC hanno carattere tecnico, in quanto devono esplicitare criteri e regole operative in materia di contratti pubblici. E anche laddove, nelle linee guida non vincolanti, si usano termini quali “è opportuno”, “è preferibile” etc., siamo comunque di fronte a valutazioni dettate dalle c.d. best practices e dall'adozione di specifiche interpretazioni giuridiche: dunque siamo di fronte ad espressioni della tecnica. Non solo, e anzi soprattutto, non va dimenticato che il potere regolamentare delle autorità indipendenti viene giustificato anche sulla base delle garanzie che le autorità assicurano attraverso la loro indipendenza e imparzialità, in una al rilievo che si tratta di potere necessario per l'espletamento della propria missione, tutte caratteristiche che sono appunto riscontrabili anche nel caso di specie.

In definitiva l'Autore, pur consapevole della fragilità della distizione tra atti amminsitartivi generali e regolamenti, reputa che nella specie si sia al cospetto di veri e propri regolamenti.

La problematica della distinzione si pone soprattutto per quegli atti che se da un lato si rivolgono ad una generalità di destinatari, dall'altro hanno anche effetti provvedimentali (“chiudono la fattispecie”, come si diceva un tempo): es. i provvedimenti prezzi o le tariffe o gli strumenti urbanistici che appunto si proiettano nel tempo. Con riferimento agli atti di regolazione ANAC la linea di discernimento risulta, di contro, meno problematica in quanto è acclarato che l'atto amministrativo generale appartiene pur sempre alla categoria dei provvedimenti, in quanto finalizzato alla cura concreta di un interesse pubblico attribuito dalla legge alla pubblica amministrazione tanto che esaurisce la sua efficacia con la sua applicazione. Non è invece decisivo l'argomento per cui i regolamenti, a differenza degli atti amministrativi, si caratterizzano per la possibilità di innovare (sia pure a un livello inferiore rispetto agli atti legislativi) l'ordinamento giuridico. Questo è un posterius, cioè un effetto della riconducibilità entro la categoria atto normativo e dunque l'argomento è tautologico: ma non è certo un criterio rivelatore, che invero è dato dalla “idoneità ad introdurre definitivamente nell'ordinamento giuridico regole o precetti destinati ad esser applicati ad una serie indefinita di rapporti”.

Lo stesso criterio tracciato dalla giurisprudenza, che fa leva sul requisito della indeterminabilità dei destinatari sia a priori che a posteriori come tipico degli atti normativi, e invece della indeterminabilità solo a priori, ma non a posteriori dell'atto amministrativo generale, si collega al rilievo che l'atto amministrativo (generale o no che sia) ha ad oggetto una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno i suoi effetti. Ma tale oggetto non è ravvisabile nelle linee guida, destinate appunto ad avere reiterata applicazione con riguardo a tutti gli episodi di vita che rientrino nelle fattispecie disegnate dalle stesse linee guida. Mentre nell'atto amministrativo generale “la causa fondante” è rappresentata dal concreto perseguimento dell'interesse pubblico programmaticamente circoscritto e temporalmente definito. È vero che non si può escludere che una linea guida (non obbligatoria) possa avere ad oggetto uno specifico contratto particolarmente rilevante per importo o per complessità o per le traversie in cui è incorso, ma allora tale linea guida non avrebbe carattere generale, talché più propriamente, ad onta del nomen, dovrebbe essere considerato espressione del potere di vigilanza. Se mai, potrebbe essere qualificata atto amministrativo generale una linea guida destinata a regolare transitoriamente una situazione (es. appalti più urgenti post-terremoto), perché in tal caso vi sarebbe la cura concreta e immediata dell'interesse pubblico e la determinabilità a posteriori: ma appunto si tratterebbe di un caso eccezionale.

6) Le linee guida non vincolanti dell'ANAC sono soft law e no law?

Oltre alle linee guida vincolanti dell'ANAC, il nuovo Codice dei contratti pubblici prevede altresì linee guida non vincolanti. Nello specifico, gli appena citati atti, non avendo portata cogente, sono assimilabili alle circolari interpretative (Cons. St. I, parere 17 ottobre 2019, n. 2627;T.A.R. Lazio, I, 15 luglio 2019, n.9335). Esse, comunque, generano l'effetto giuridico di indirizzare l'attività e i comportamenti degli operatori del settore e, in particolare, della pubblica amministrazione, che può discostarsi da un atto non vincolante, ma a tal fine ha l'obbligo di motivare per evitare di incorrere nel vizio di eccesso di potere.

È pacifica la non impugnabilità immediata di tali atti, che hanno il precipuo scopo di supportare l'amministrazione per favorire comportamenti omogenei delle stazioni appaltanti da cui è possibile discostarvisi (Caringella, 183).

La dottrina (Morbidelli, cit.), muivendo dall'assunto che le linee guida per obiettivi non hanno per definizione natura regolamentare né sono qualificabili come atti amministrativi generali (salvo casi eccezionali) analziza la sofventa invocata la “categoria” della soft-law, categoria che appartiene a una sorta di nouvelle vague del diritto e che si caratterizza per l'estrema latitudine di impiego, che nasce nel diritto internazionale e finisce per indicare una panoplia di atti non giuridicamente vincolanti o comunque non tipizzati (denominati ad es., dichiarazioni di principi, risoluzioni, carte, buone prassi, raccomandazioni, codici di condotta, linee guida, programmi d'azione, etc.) che ha avuto ed ha invero un ruolo non secondario nell'edificazione di un diritto uniforme a livello transnazionale. Ha poi avuto una serrata consolidazione e anzi un florilegio di manifestazioni nel diritto europeo, tanto che se ne sono individuate tre sottocategorie: la pre-law (strumenti preparatori di atti giuridici vincolanti quali Libri bianchi, Libri verdi, piani di azione); la post-law (strumenti di interpretazione di atti vincolanti quali linee guida, codici di condotta, orientamenti, comunicazioni interpretative, migliori pratiche); la para-law (strumenti alternativi ad atti vincolanti quali dichiarazioni, raccomandazioni, pareri, conclusioni).

Si parla, non di rado, categoria di atti lato sensu normativi, il cui carattere differenziale consta nella carenza di efficacia immediatamente vincolante  oppure “strumento non vincolante”  oppure ancora diritto privo di coercibilità in senso tradizionale.

Visto il carattere non decisivo del richiamo a un concetto ambiguo e generico come la soft law, l'A. reputa che le linee guida non vincolanti possono essere ricondotte a un istituto ben noto da tempo, come la direttiva. Questo non solo per ragioni “letterali” (la legge delega parla espressamente di atto di indirizzo), quanto per la ragione che ANAC è titolare del potere di regolazione del settore “contratti pubblici”, per il che dispone di tutta una serie di poteri anche di controllo e di vigilanza nei confronti delle stazioni appaltanti e dei soggetti esecutori di contratti pubblici, tanto da dar luogo ad un “sistema ordinamentale” o comunque ad un legame organizzativo che per definizione si innerva tramite lo strumento della direttiva.

Se mai, l'impiego del termine soft-law può essere giustificato sotto un altro aspetto, rappresentato dal fatto che la regolazione (sia normativa, sia attraverso atto di indirizzo) ha carattere flessibile, il che significa che la regolazione deve essere strutturata in maniera tale da adeguarsi il più possibile alle evoluzioni tecnologiche, sociali, economiche in continuo divenire.

Resta il fatto che pure a concentrare l'indagine in ordine agli effetti giuridici della direttiva “regolatoria”, le risposte non possono essere univoche per la ragione che la nozione di direttiva è contrastata sia nella struttura che negli effetti, tanto che uno dei più profondi studiosi del tema ha concluso nel senso che il termine direttiva non corrisponde ad una categoria dogmaticamente decantata. E infatti si disquisisce se la direttiva debba dettare solo principi, metodi ed obiettivi o assumere anche carattere dettagliato e puntuale e dunque direttamente prescrittivo, come pure si discute se abbia efficacia vincolante o se è derogabile previa adeguata motivazione, o se deve riguardare i singoli atti oppure solo il complesso dell'attività del destinatario, né mancano tesi intermedie. Va tuttavia tenuto presente che il dibattito in punto di effetti delle direttive amministrative ha di solito avuto come punto di riferimento le direttive ministeriali rivolte agli enti di gestione, che di necessità incontravano il limite del carattere imprenditoriale di tali enti; situazione come tale non accostabile alle direttive emanate nei confronti di soggetti che operano in regime amministrativo. Fatto è (come già si è rilevato a proposito delle linee guida in generale) che non è perseguibile una soluzione buona per tutte le fattispecie di direttiva, nel senso che non è possibile dare luogo ad una definizione univoca del regime giuridico della direttiva (anche se invero la tesi prevalente è nel senso della sua obbligatorietà salvo adeguata motivazione secondo il criterio tracciato da Bachelet  e che viene definito dell'obbligo condizionato sulla scorta della terminologia impiegata da Bobbio. Occorre infatti riferirsi allo specifico diritto positivo, alla struttura e formulazione della direttiva nonché alla tipologia del rapporto che lega l'autore della direttiva con il destinatario.

Nella specie le direttive provengono da un organismo tecnico, sono dettate da ragioni tecniche e/o di esatta interpretazione della legge, e sono dirette a soggetti inseriti nel perimetro della regolazione. Un altro dato ordinamentale di rilievo è ravvisabile nella previsione legislativa della impugnabilità (v. art. 213, comma 2, d.lgs. n. 50/2016). Il significato di tale disposizione non può che essere quello del carattere lesivo di ogni categoria di atti di regolazione anche a prescindere da atti applicativi, per la ragione che comunque determinano obblighi. Non è però agevole stabilire di che genere di obbligo si tratti.

È evidente che il tradizionale iuris vinculum è riscontrabile solo nelle linee guida ad efficacia normativa. D'altra parte lo stesso diritto positivo ci dà una indicazione precisa: le direttive in questione non sono vincolanti. Ma il vincolo costituisce nel caso di specie, attese la generalità e l'astrattezza, la cifra di identificazione del valore normativo. In altre parole, il non vincolante vuol dire sì non normativo, ma non vuol dire né irrilevante né privo di effetti anche giuridici. La presenza di Autorità di regolazione, infatti, determina di per sé un rapporto organizzativo che del resto ha plurime declinazioni ove si pensi a tutti i poteri di vigilanza, di controllo, di collaborazione, di segnalazione, di consulenza di cui l'Autorità è titolare. Dal rapporto organizzativo derivano conseguenze in punto di obblighi dei soggetti inseriti in tale rapporto. Tali effetti però non sono univoci, ma sono diversi a seconda di come le linee guida sono formulate, o meglio, di come sono formulate le singole puntuazioni delle linee guida. Se esse si limitano a suggerimenti o inviti, il che è ricavabile attraverso il ricorso a formule del tipo “è opportuno”, “è preferibile”, etc., non v'è dubbio che possono non essere osservate sulla base di adeguate motivazioni, tanto più percorribili quanto più le direttive siano mirate ad obiettivi (es. contenimenti di spesa, apertura alla concorrenza, preparazione più accurata dei documenti di gara) che a specifici atti o a procedure da seguire o requisiti o presupposti da richiedere. Se invece costituiscono solo esplicazioni interpretative della legge (o di linee guida vincolanti), o nella parte in cui hanno tale configurazione, hanno l'efficacia persuasiva delle circolari interpretative. Opera cioè il principio già messo in luce da tempo con riguardo alla circolari del CSM: quando non si limitino alla riproduzione di atti già dotati di una loro propria efficacia normativa e sia ad esse che deve aversi riguardo come fonte regolatrice di una fattispecie, esercitano l'efficacia normativa che è propria dei precedenti, cioè un'efficacia persuasiva che può essere sempre messa in discussione sulla base dei ragionamenti che l'hanno giustificata. Se invece sono puntuali nel dettare “regole dell'arte” espunte dalle migliori pratiche non lasciando alcun margine valutativo, allora la piena osservanza si impone di per sé non tanto in virtù di forza normativa, ma per il principio di soggezione al regolatore, competente a indicare le regole tecniche. Esse infatti assumono comunque valenza di canoni oggettivi di comportamento per gli operatori del settore, la cui violazione integra quantomeno una ipotesi di negligenza. Salvo ancora una volta che non si dimostri che tali indicazioni tecniche sono contra legem, o che siano inidonee e dunque non adattabili al caso concreto poiché può avvenire che la norma tecnica, ove messa a contatto con le circostanze di fatto e dunque calata nella concretezza perda le originarie connotazioni di validità generale o di probabilità statistica, proprie della razionalità scientifica: quest'ultimo rilievo trova conferma nell'avviso del Consiglio di Stato, il quale ha osservato che l'amministrazione potrà non osservare le linee guida non vincolanti, laddove la peculiarità della fattispecie concreta giustifichi una deviazione dall'indirizzo fornito dall'ANAC.

7) Quali sono gli effetti giuridici delle linee guida non vincolanti?

La dottrina migliare (Morbidelli cit.) reputa, quindi, che anche le linee guida non regolamentari sono produttive di effetti giuridici. Se non altro perché costituiscono parametri di legittimità dei provvedimenti conseguenziali , salvo naturalmente che vi siano i presupposti per non osservare il parametro stesso, nei termini appena ricordati. E comunque è un effetto giuridico anche l'obbligo di motivazione per discostarsene, effetto messo in luce più volte dal Consiglio di Stato. Effetto che in dottrina è stato definito “obbligatorietà condizionata” o “limitata”: il che significa che le prescrizioni della direttiva sono da osservare a meno che non sia possibile dimostrare che vi sono ragioni per non osservarle. Anche se si tratta di effetti a geometria variabile dipendenti dalla struttura e dalla “ragion per cui” della linea guida. E soprattutto effetti giuridici non “di ultima istanza”, non solo perché soggette al sindacato giurisdizionale, ma soprattutto perché direttamente disapplicabili da parte dei destinatari, ove, assumendosene le conseguenti responsabilità, li ritengano contra legem o non pertinenti o non adattabili al caso di specie, secondo il criterio dell'obbligatorietà condizionata più sopra ricordato (a differenza di quello che avviene nei confronti delle norme secondarie disapplicabili solo dal giudice, oltre che ovviamente impugnabili, ma mai disapplicabili dai destinatari).

8) Si può parlare di “effetti esistenziali” delle linee guida direttive?

L'A., infine, si sofferma sugli effetti “esistenziali” delle linee guida, o meglio geli “indirizzi esistenziali”, riprendendo la terminologia introdotta da Lavagna  e ripresa da Guarino.  Si richiama all'uopo la teoria dell'indirizzo politico “esistenziale” che mette in luce gli effetti sul piano concreto di atti privi in sé di effetti giuridici diretti come ad es. le mozioni, le risoluzioni, gli stessi disegni di legge. Sicché a prescindere dalle riserve che tale teoria suscita, riserve del resto che investono la stessa nozione di indirizzo politico ), essa è espressiva della produzione di effetti sul piano concreto pur in assenza di un vinculum iuris, e come tale accostabile alle linee guida non vincolanti, anche se nel nostro caso gli effetti c.d. esistenziali consistenti nella influenza derivante dalla autorevolezza della autorità di regolazione si affiancano a sicuri effetti giuridici. La rilevazione di quelli che ho definito effetti esistenziali è del resto coerente con i risultati cui giunge in un recentissimo e approfondito studio M. Ramajoli , laddove osserva che la soft regulation (in cui fa rientrare atti come quelli in esame) è definibile come cripto-hard , dato che in fondo detta vincoli fattualmente molto stringenti nei confronti dei soggetti regolati.

In questa lettura esistenziale, le linee guida sono comandi, sia – come è evidente – quando assumono veste di regolamento, ma sia anche quando sono vestite da consigli. Senonché anche i comandi vestiti da consigli vanno pur sempre interpretati: di qui l'esigenza primaria che siano chiari e puntuali, e inoltre che non siano troppo articolati, perché l'eccesso di regolazione (per di più in combinato con l'eccesso di normazione) reca con sé sovrapposizioni, antinomie e oscurità, talché si avrebbe proprio l'effetto contrario a quello divisato, che è quello di contribuire alla stabilità e alla certezza.

9) Quale è stato il tradizionale strumento processuale per sindacare i regolamenti illegittimi?

Facendo leva sul carattere di atti soggettivamente amministrativi proprio dei regolamenti, l'orientamento tradizionale non ha mai dubitato che gli stessi siano suscettibili di sindacato da parte del G.A. secondo le regole processuali generalmente valevoli per gli atti e i provvedimenti amministrativi. Anche per i regolamenti, dunque, il modello del sindacato è sempre stato tradizionalmente individuato solo e necessariamente in quello impugnatorio-caducatorio.

Il carattere impugnatorio del giudizio amministrativo implicava allora che il potere demolitorio del G.A. dovesse essere azionato dal soggetto interessato entro i termini perentori di decadenza previsti dal legislatore.

Tuttavia, la vocazione normativa dei regolamenti rende del tutto eccezionale l'ammissibilità di un'impugnativa diretta e immediata degli stessi. Essa sarà possibile solamente laddove il regolamento assuma, ancor prima dell'adozione dei provvedimenti attuativi, una dimensione lesiva tale da determinare l'insorgere dell'interesse a ricorrere nel soggetto agente.

A tal fine, dottrina e giurisprudenza distingevano due tipologie di regolamenti: regolamenti volizione-azione e regolamenti volizione-preliminare (Così, da ultimo, Cons. St. III, n.4464/2020).

I primi sono solo nominalmente dei regolamenti, in quanto, contravvenendo alla loro naturale struttura – analogamente a quanto accade nelle leggi-provvedimento – contengono statuizioni precise e puntuali in grado di incidere in via immediata sulla sfera giuridica dei destinatari dell'attività provvedimentale.

Avendo riguardo ai criteri sostanziali di identificazione degli atti normativi fondati su generalità, astrattezza e innovatività, si tratti di «falsi regolamenti» e, dunque, di veri e propri provvedimenti puntuali. Il loro regime impugnatorio è, quindi, il medesimo dei provvedimenti amministrativi: l'interessato ha l'onere di impugnare immediatamente e direttamente il regolamento, senza attendere il provvedimento attuativo. La mancata impugnazione del regolamento entro il termine di decadenza impedisce anche l'impugnazione degli atti applicativi, laddove questi ultimi siano impugnati non per vizi propri, ma per vizi derivati dal regolamento.

I regolamenti volizione-preliminare sono, invece, veri e propri regolamenti, anche dal punto di vista contenutistico. Essi sono caratterizzati da un contenuto generale e astratto e, come tali, non realizzano un'immediata incisione della sfera giuridica del destinatario. Sarà, dunque, il successivo provvedimento di attuazione a incidere sulle situazioni soggettive dei singoli, rendendo attuale la lesione. Il termine per l'impugnazione decorrerà, quindi, dal momento dell'adozione del relativo atto applicativo.

Nel caso in cui in giudizio si faccia valere un vizio proprio del provvedimento attuativo, non mutuato dal regolamento volizione-preliminare, oggetto dell'impugnazione potrà essere il solo atto applicativo. Al contrario, laddove il provvedimento applicativo mutui il vizio dal regolamento, al fine di evitare che l'atto presupposto continui, nonostante la sua illegittimità, a produrre effetti, l'interessato sarà tenuto a impugnare congiuntamente sia il provvedimento attuativo che il regolamento che ne è il presupposto. Tramite, quindi, il meccanismo della doppia impugnativa sarà rispettato il principio dell'attualità della lesione e della coerenza interna del gravame.

Infine, per quanto concerne i regolamenti misti, ovverosia quelli contenenti tanto prescrizioni di carattere programmatico quanto statuizioni immediatamente lesive, il regime dell'impugnazione varierà a seconda della natura delle disposizioni oggetto di contestazione.

In definitiva, secondo l'impostazione tradizionale, seguita dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato dagli inizi degli anni Cinquanta fino al 1992, l'unica forma di tutela avverso un regolamento illegittimo fosse quella di tipo impugnatorio sin qui descritta: gli atti normativi della pubblica amministrazione devono essere impugnati avanti al G.A. immediatamente o congiuntamente all'atto applicativo a seconda che si tratti di regolamenti direttamente lesivi (c.d. regolamenti volizione-azione) ovvero di regolamenti che producono un pregiudizio solo per effetto dell'intervento delle statuizioni che traspongono in concreto il precetto normativo (c.d. regolamenti volizione-preliminare). Era, invece, recisamente esclusa la possibilità per il G.A. di procedere alla disapplicazione del regolamento illegittimo, pure non ritualmente impugnato.

A sostegno della tesi ostile alla disapplicabilità dei regolamenti da parte del G.A. non tempestivamente impugnati si adducevano plurime argomentazioni:

a ) in primo luogo, la mancanza di una previsione normativa espressa che attribuisca al G.A. il potere di disapplicazione, sulla falsa riga di quanto previsto per il G.O. agliartt. 4-5L.A.C., nonché la non estensibilità analogica al G.A. di tali norme, sulla base dell'assunto secondo cui la disapplicazione costituisce un minus rispetto all'annullamento e quindi è concessa al G.O. proprio in virtù della mancanza del più pregnante potere di annullamento posseduto dal G.A. All'opposto, la disapplicazione è ammessa in caso di giurisdizione esclusiva del G.A. qualora l'oggetto del giudizio riguardi posizioni di diritto soggettivo, non vertendo il giudizio sull'atto, ma sul rapporto e sulla spettanza del bene della vita e non rilevando in questo caso i termini di decadenza;

b ) secondariamente si è valorizzata la necessità di rispettare i termini perentori per l'impugnazione degli atti amministrativi a cui i regolamenti sono equiparati. L'onere d'impugnazione nei termini verrebbe, invece, eluso se, attraverso la disapplicazione, il ricorrente ottenesse l'utilità equivalente a quella che sarebbe derivata da un'impugnativa tempestiva, con una sorta di «rimessione in termini» dello stesso;

c ) infine, si sono richiamati i principi generali della domanda e della certezza giuridica. Il principio della domanda, di cui all'art. 112 c.p.c., impedirebbe al giudice di verificare d'ufficio la ricorrenza dei vizi di legittimità del regolamento senza che questi siano stati oggetto di specifici motivi di censura. Il principio di certezza, invece, contrasterebbe con una soluzione che, a fronte dell'illegittimità del regolamento, decreti l'ultra-vigenza e l'applicazione permanente del provvedimento attuativo.

10) Quali ragioni hanno portato all'avvento della tesi della disapplicabilità dei regolamenti illegittimi?

L'orientamento tradizionale contrario alla disapplicazione dei regolamenti è stato oggi definitivamente superato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, a far data dalla storica decisione Cons. St. V, n. 154/1992.

Le argomentazioni sulla base delle quali si è affermato il radicale mutamento di indirizzo sono le seguenti:

a ) in primo luogo, si respinge ogni forma di equiparazione dei regolamenti agli atti amministrativi. Contrariamente all'indirizzo tradizionale, fondato sulla valorizzazione del profilo formalmente amministrativo del regolamento (in quanto proveniente da una P.A.), si osserva che ciò che rileva è la natura sostanziale dell'atto regolamentare che è essenzialmente normativa. Ne consegue che, come per tutte le fonti del diritto, anche per i regolamenti devono trovare applicazione i principi fondamentali, ricavabili dalle preleggi, dello iura novit curia e di gerarchia delle fonti (artt. 3 e 4).

In base al principio iura novit curia, l'autorità giudiziaria, nel risolvere le controversie a essa sottoposte, è tenuta alla cognizione ufficiosa dell'intero quadro normativo, individuando la norma da applicare al caso, a prescindere da qualunque prospettazione della parte nel ricorso.

In presenza di un'antinomia tra fonti del diritto di grado diverso – quali sono legge e regolamento – il criterio di cui essa deve fare applicazione per procedere all'individuazione della norma corretta da applicare è quello gerarchico: nel conflitto tra una fonte di rango superiore (la legge) e una di rango inferiore (il regolamento), la prima deve prevalere sulla seconda. Non consentire al giudice di disapplicare, anche in assenza di un'espressa impugnazione, l'atto regolamentare contra legem significherebbe sovvertire l'ordine gerarchico tra fonti sancito dalle disposizioni preliminari al codice civile e dalla Costituzione.

Invero, non si tratta nemmeno di procedere alla disapplicazione del regolamento, quanto, più propriamente, alla diretta applicazione della legge, sul presupposto della radicale inapplicabilità del regolamento con essa contrastante. In conformità a quanto si è detto, in generale, al par. 3 circa la qualificazione giuridica della fonte contrastante con altra di rango gerarchicamente superiore, il regolamento illegittimo, infatti, è ab origine inidoneo a produrre effetti giuridici e, così a innovare l'ordinamento, perché la sua capacità creatrice è inibita dalla resistenza opposta dalla fonte gerarchicamente superiore. Non vi è, dunque, tecnicamente, alcun effetto suscettibile di disapplicazione, bensì, piuttosto, l'obbligo del giudice di risolvere la controversia applicando direttamente e unicamente la legge.

b ) In secondo luogo, una spinta verso la generale ammissibilità della disapplicazione (rectius: inapplicabilità) deriva, in questo senso, anche dal diritto europeo. Il principio di «primauté» del diritto europeo consente, infatti, al giudice nazionale di non applicare la norma interna contrastante con quella europea. Se ciò vale per le leggi, a maggior ragione non può negarsi che altrettanto debba valere per il regolamento contrario a una norma europea.

c ) Si rileva, poi, che il richiamo al principio della domanda, quale motivo assuntamente ostativo al riconoscimento del potere di disapplicazione, è del tutto inconferente. La tecnica della disapplicazione non viola in alcun modo la necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il regolamento, infatti, non verrà disapplicato per profili estranei all'oggetto del giudizio sì come delineato dalle parti con i propri atti difensivi, ma solo per vizi dalle stesse dedotti o rilevati in giudizio in relazione ai motivi d'impugnazione rivolti all'indirizzo dell'atto applicativo.

d ) Infine, non ha valore dirimente nemmeno il riferimento all'esigenza di certezza giuridica. La disapplicazione del regolamento in sede giudiziale funge, infatti, da stimolo all'esercizio del potere di autotutela da parte della P.A., così posta in condizione di eliminare la disposizione regolamentare riscontrata illegittima dal giudice e dallo stesso solo disapplicata. Del resto, sempre sul piano della certezza giuridica, a favore del potere di disapplicazione muove la posizione di eventuali terzi controinteressati. L'annullamento erga omnes determinerebbe, infatti, un effetto sproporzionato rispetto alle istanze di tutela del ricorrente e inoltre potrebbe provocare anche la caducazione di atti applicativi favorevoli a soggetti non intervenuti in giudizio.

Nelle pronunce successive, l'orientamento favorevole alla disapplicazione (rectius: inapplicabilità) del regolamento illegittimo è stato ribadito e precisato dal Consiglio di Stato (cfr. ex plurimis, Cons. St. n.799/1993;Cons. St. n.4778/2013; Cons. St. n. 2014/2013; da ultimo, Cons. St., Ad. plen. 16/2021).

In particolare, la giurisprudenza ha chiarito che la disapplicazione può operare sia in bonam partem (portando all'accoglimento del ricorso) che in malam partem (conducendo al respingimento del ricorso).

La disapplicazione è in malam partem nel caso in cui tra provvedimento attuativo impugnato e regolamento vi sia un rapporto di cd. antipatia: il provvedimento risulta in contrasto con una disposizione regolamentare, a sua volta contrastante con la legge. Eliminata l'interposizione regolamentare, il provvedimento risulta, quindi, conclusivamente, conforme alla legge e il ricorso proposto avverso lo stesso dovrà essere respinto.

La disapplicazione è, invece, in bonam partem nel caso in cui tra provvedimento attuativo impugnato e regolamento vi sia un rapporto di cd. simpatia: il provvedimento è conforme al regolamento, il quale, tuttavia, contrasta con la legge. In tal caso, il giudice, verificata l'illegittimità del regolamento, lo considera tamquam non esset e accoglie il ricorso accertando la diretta contrarietà alla legge del provvedimento impugnato. Una parte della giurisprudenza (cfr. Cons. St. n.222/1996) ritiene, peraltro, che non vanga in gioco, propriamente, un'ipotesi di disapplicazione del regolamento quanto, piuttosto, un'invalidazione dell'atto applicativo a seguito della trasmissione del vizio proprio, a monte dell'atto pregiudiziale.

11) La disapplicazione si aggiunge o sostituisce l'annullamento?

Infine, ci si è chiesti se la disapplicazione del regolamento – una volta ammessa – debba considerarsi l'unico strumento di tutela approntato dall'ordinamento a favore del privato, o se, invece, essa concorra con il rimedio caducatorio, atteggiandosi a meccanismo rimediale alternativo rispetto a quest'ultimo (Caringella, 163).

Due gli orientamenti formatisi sul punto.

Parte della giurisprudenza ritiene che la tecnica della disapplicazione si aggiunga a quella caducatoria, sì che, il privato, ove ritenga di aver interesse, potrà pur sempre chiedere l'annullamento del regolamento.

In questo senso muoverebbero due diversi ordini di ragioni. In primo luogo, si rimarca la superiore intensità della tutela eliminatoria, che – si afferma – sarebbe maggiormente satisfattiva per l'interessato, ponendolo al riparo dalla reiterazione di nuovi atti attuativi. In secondo luogo, occorrerebbe mantenere in capo al G.A. strumenti processuali atti a eliminare i regolamenti illegittimi, il che, nel quadro di una giurisdizione imperniata ormai sul rapporto e tesa al riconoscimento del bene della vita anelato dal privato, si traduce in un arricchimento del sindacato del giudice amministrativo e delle tecniche di tutela a sua disposizione.

Opposto, preferibile orientamento reputa, invece, che i due rimedi non siano tra loro concorrenti ma si pongano in un rapporto di reciproca esclusione.

Più in particolare, allorché venga in gioco un regolamento cd. volizione-azione – che, come detto, è solo nominalmente un regolamento, ma ha la portata di vero e proprio provvedimento puntuale e concreto – la tutela sarà solo ed esclusivamente quella dell'annullamento con onere di immediata impugnazione.

Allorché, invece, ricorra un regolamento cd. volizione-preliminare – ossia un atto nominalmente e sostanzialmente regolamentare – l'unico strumento è quello della disapplicazione (rectius: inapplicazione), e ciò in ragione della natura normativa del regolamento che impone che la sua cognizione sia effettuata, come per tutte le fonti del diritto, non in via principale, ma unicamente in via incidentale. In questa prospettiva, dunque, lo schema della doppia impugnazione non è più praticabile dinnanzi al G.A., che non potrà mai provvedere all'annullamento del regolamento illegittimo, ma, conformemente alla sua natura normativa e ai conseguenti principi di iura novit curia e di gerarchia delle fonti, potrà solo considerarlo tam quam non esset decidendo la causa in diretta applicazione della legge.

Né può affermarsi che la tutela disapplicatoria sia meno satisfattiva per il ricorrente, lasciandolo esposto al rischio della reiterazione di ulteriori atti applicativi. In forza dell'effetto conformativo del giudicato, infatti, il provvedimento con cui la P.A. desse reiteratamente applicazione al regolamento riconosciuto incidentalmente illegittimo, è da ritenere nullo e improduttivo di effetti. Certamente, il regolamento non annullamento ma semplicemente disapplicato potrà costituire il presupposto per l'adozione di successivi atti applicativi nei confronti di altri soggetti (non interessati dalla forza conformativa del giudicato reso inter alios); ma ciò è del tutto coerente con la configurazione del processo amministrativo quale giudizio di giurisdizione soggettiva, volto a tutelare la posizione giuridica del ricorrente, non già l'interesse oggettivo e generale alla legittimità dell'agire amministrativo.

12) I bandi di gara e di concorso sono disapplicabili?

Prendendo le mosse dal nuovo orientamento favorevole alla disapplicazione dei regolamenti e argomentando dalla natura normativa dei bandi e dalla conseguente esigenza sostanziale di apprestare un meccanismo invalidante delle norme di grado inferiore contrarie ai precetti superiori dell'ordinamento, alcune non recenti pronunce hanno esteso l'istituto della disapplicazione anche alla tutela di posizioni giuridiche soggettive connesse all'applicazione di bandi di gara e di concorso.

L'evoluzione giurisprudenziale, di cui si è fatto portatore il T.A.R. Lombardia, III, n. 354/1997, prende le mosse dalla distinzione tra disapplicazione «normativa e provvedimentale». La «disapplicazione provvedimentale» va riferita a singoli atti non normativi incidenti su diritti soggettivi ed è, quindi, possibile all'interno della sola giurisdizione esclusiva, con gli stessi poteri del giudice ordinario ex art. 5 della l. n. 2248/1865, all. E. La «disapplicazione normativa» invece, prescinde dalle posizioni soggettive in gioco e riguarda più in radice la rilevabilità d'ufficio dell'obiettiva esistenza di un atto normativo in contrasto con una superiore disposizione di legge, secondo i principi di gerarchia delle fonti. Seguendo l'elaborazione del T.A.R. Lombardia si dovrebbe, dunque, sostenere che la mancata impugnazione del bando (non immediatamente lesivo) congiuntamente all'atto applicativo non osta all'annullamento di quest'ultimo, potendo il giudice amministrativo disapplicare l'atto normativo presupposto, vale a dire il bando di gara.

L'orientamento patrocinato dai giudici milanesi ha destato perplessità soprattutto con riferimento al presupposto concettuale della natura normativa del bando di gara.

Secondo i giudici meneghini, infatti, la natura normativa del bando dipende dalla sua funzione, quale lex specialis, di dettare la disciplina di gara previamente determinata e indifferentemente applicabile alla generalità dei concorrenti non ancora puntualmente individuati. Esso, quindi, ha natura normativa «anche se la sua rilevanza e i suoi effetti sono limitati al solo ordinamento interno della pubblica amministrazione che lo ha emanato» (Caringella, 169).

Si è replicato, da parte della dottrina e della giurisprudenza successive, che non è sufficiente ricavare la natura normativa dei bandi dal fatto di essere dei provvedimenti ad alto contenuto precettivo rivolti alla generalità degli amministrati, in quanto il bando di gara non presenta il carattere dell'innovatività tipico delle fonti normative, anche secondarie, esaurendo i suoi effetti limitatamente alla procedura singola, e dell'astrattezza, dal momento che non ha attitudine alla ripetizione indefinita.

Si è già ricordato, in precedenza, che il bando di gara è un atto amministrativo generale che provvede a regolare una determinata procedura di gara rivolgendosi a soggetti che si specificheranno ex post in virtù della partecipazione alla stessa. Pertanto, attesa la sua natura sostanzialmente e formalmente amministrativa, il bando di gara (al pari del bando di concorso e degli atti amministrativi in generale) non può non soggiacere al principio generale in tema di perentorietà del termine d'impugnazione. Per tali atti la disapplicazione (provvedimentale e non normativa) è possibile, ex art. 5 L.A.C., solo da parte del G.O. o, secondo l'opinione dominante, ove si verta in tema di diritti soggettivi, a opera del G.A. in sede di giurisdizione esclusiva. Non è dunque estensibile ai bandi l'orientamento giurisprudenziale dominante che opta per la disapplicazione dei regolamenti, laddove siano in concreto ravvisabili dei profili di illegittimità degli stessi.

Si deve rimarcare infatti che la tesi della disapplicazione dei regolamenti poggia sull'applicazione dei principi delle preleggi in tema di gerarchia delle fonti, principi che a loro volta postulano la qualificazione in senso tecnico di un atto come fonte del diritto, non certo la sua vocazione in senso lato normativa o regolatoria, quale può essere quella che un bando esplica nei confronti di una specifica gara o procedura concorsuale.

I tentativi di divergere dall'impostazione classica sono stati respinti sia dall'Adunanza Plenaria che dalla Corte di Giustizia.

L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 1/2003, conferma l'indirizzo giurisprudenziale tradizionale alla stregua del quale non può essere estesa ai bandi la disapplicazione valida esclusivamente per gli atti normativi. Si sono respinti, poi, i tentativi volti in direzioni opposte a dilatare o a restringere i casi d'impugnazione diretta necessaria della lex specialis.

Secondo il Supremo Consesso non sono infatti condivisibili quegli orientamenti che posticipano erroneamente all'atto applicativo la sussistenza di una lesione già prodotta dal bando, sostenendo la necessità di una impugnativa sempre congiunta; né quelli che affermano l'onere di immediata impugnazione del bando anche con riferimento a clausole non immediatamente lesive, determinando un'impropria frammentazione e polverizzazione dell'unico interesse sostanziale protetto dalle procedure concorsuali, vale a dire l'interesse all'aggiudicazione.

In conclusione, nell'ottica seguita dall'Adunanza Plenaria è l'interesse processuale a ricorrere, da tenere nettamente distinto dall'interesse sostanziale, che rappresenta «la migliore guida al fine di individuare con precisione quando effettivamente le maglie dei termini decadenziali debbano ritenersi perigliosamente astringere chi intenda contestare le clausole di un bando di concorso (o di gara)». A ciò si aggiunge poi che la lesione dell'interesse del ricorrente deve essere connotata dai caratteri dell'immediatezza, della concretezza e dell'attualità.

La Plenaria, quindi, giunge ad affermare che «i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento e a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato; a fronte, infatti, della clausola illegittima del bando di gara o del concorso, il partecipante alla procedura concorsuale non è ancora titolare di un interesse attuale all'impugnazione, dal momento che egli non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva, che solo da tale esito può derivare.

Il bando di gara o di concorso, o la lettera di invito, normalmente impugnabili solo congiuntamente all'atto applicativo, conclusivo del procedimento concorsuale, deve, tuttavia, essere considerato immediatamente impugnabile (a pena di decadenza) allorché contenga clausole impeditive (o espulsive-escludenti che dir si voglia) dell'ammissione dell'interessato alla selezione, con la conseguenza che la partecipazione alla gara e la presentazione della domanda non costituiscono acquiescenza e non impediscono la proposizione di un eventuale gravame». Se, dunque, l'immediata lesività deve essere chiara e certa, ne deriva che non sussiste l'onere di immediata impugnazione in presenza di clausole dal contenuto ambiguo (nella specie, la clausola relativa alle modalità di sottoscrizione dei documenti d'offerta). Alle clausole espulsive sono equiparate quelle impeditive della formulazione di un'offerta consapevole e sostenibile.

L'Adunanza Plenaria, invece, non ha affrontato il problema dell'ammissibilità della disapplicazione dei bandi antieuropei, ritenendola irrilevante ai fini della definizione della controversia.

La questione della disapplicazione è stata affrontata dalla Corte di Giustizia, la quale con sentenza 27 febbraio 2003, resa nel procedimento C-327/00, noto come caso Santex, ha definito la fattispecie posta alla sua attenzione dalla III sezione del T.A.R. Lombardia relativa alla disapplicabilità di un bando violativo del diritto europeo che preveda un requisito di partecipazione non posseduto dal ricorrente.

Secondo la Corte di Giustizia «ladirettiva del Consiglio 21 dicembre 1989,89/665/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa una volta accertato che un'autorità aggiudicatrice con il suo comportamento ha reso impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico europeo a un cittadino dell'Unione, leso da una decisione di tale autorità – impone ai giudici nazionali competenti l'obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati sull'incompatibilità del bando di gara con il diritto europeo, dedotti a sostegno di un'impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale incompatibilità».

In tale decisione, quindi, la Corte di Giustizia non ha avallato la tesi che in astratto ammette la disapplicazione normativa del bando di gara ma la riferisce esclusivamente alla norma nazionale sul termine di decadenza, qualora quest'ultima non consenta al giudice nazionale di conoscere l'incompatibilità del bando di gara con il diritto europeo. Resta quindi confermato il principio, conforme al diritto europeo, della legittimità di regimi decadenziali previsti dal nostro sistema giuridico nazionale anche per i vizi europei che affliggano i bandi al pari degli atti amministrativi nel loro complesso; resta tuttavia salva la valutazione dell'incompatibilità, in concreto, dell'applicazione del regime in parola con i principi europei in punto di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale.

Da ultimo, Cons. St. V, 27 gennaio 2022, n. 4869/2021, ha ribadito che:

a) ai fini dell'interpretazione delle clausole di una lex specialis, trovano applicazione le norme in materia di contratti e anzitutto il criterio letterale e quello sistematico, ex artt. 1362 e 1363 c.c. (da ultimo, Cons. St. V, n. 5781/2021; n. 2844/2021; n. 298/2021; III, n. 7345/2020; n. 1322/2021): conseguentemente, le stesse clausole non possono essere assoggettate a procedimento ermeneutico in una funzione integrativa, diretta a evidenziare in esse pretesi significati impliciti o inespressi, ma vanno interpretate secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole utilizzate e dalla loro connessione; soltanto ove il dato testuale presenti evidenti ambiguità, deve essere prescelto dall'interprete il significato più favorevole al privato (Cons. St. VI, n. 1447/2018; V, n. 2709/2014);

b) per consolidata giurisprudenza, la lex specialis di una procedura costituisce un vincolo da cui l'amministrazione non può sottrarsi: per effetto del rigoroso principio formale che assiste la lex specialis, a garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost. (ex multis, Cons. St. V, n. 4441/2015; III, n. 1993/2015; VI, n. 6154/2014), le prescrizioni stabilite in una lex specialis impegnano non solo i privati interessati, ma, ancora prima, la stessa amministrazione, che non conserva margini di discrezionalità nella loro concreta attuazione, né può disapplicarle, neppure quando alcune di queste regole risultino inopportune o incongrue o comunque superate, fatta salva naturalmente la possibilità di procedere all'annullamento del bando nell'esercizio del potere di autotutela (tra tante, Cons. St. V, n. 1604/2020; n. 3859/2016; n. 2201/2014; n. 7217/2010; n. 1652/2010; Ad. plen., n. 9/2014);

c) la violazione dell'autovincolo determina l'illegittimità delle successive determinazioni ( Cons. St. III, n. 11202/2022;

d) i chiarimenti della stazione appaltante sono ammissibili solo se contribuiscono, con un'operazione di interpretazione del testo del bando, rendendone chiaro e comprensibile il significato, ma non quando, proprio mediante l'attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione della  lex specialis , un significato e una portata diversa o maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost. (n. 7/2022). Sull'interpretazione della lex specialis vedi anche Cons. St., V, 9013/2022

13) In quali casi il bando di gara va impugnato immediatamente?

La pronuncia dell' Adunanza Plenaria delConsiglio di Stato n.4/2018, rifiutandosi di recepire impostazioni eversive e innovative, ha riaffermato la nozione tradizionale di interesse a ricorrere, già sposata dalla sentenza n. 1/2003, ancorata all'interesse sostanziale del concorrente a conseguire l'aggiudicazione, e solo subordinatamente e in via strumentale, alla riedizione della gara che non sia riuscito ad aggiudicarsi.

In primo luogo, l'Adunanza Plenaria esclude che possa esistere una mera facoltà di impugnazione degli atti di gara, precisando che la parte, se lesa, «deve avere il dovere, e non soltanto la «facoltà» di proporre l'impugnazione», perché altrimenti la concretezza e attualità dell'interesse a ricorrere andrebbero a scolorire nel concetto di «precauzione» e «cautelatività».

Dopo aver evidenziato la necessità di «una chiara delimitazione delle ipotesi in cui un atto è lesivo, generando l'onere di tempestiva e autonoma impugnazione» la pronuncia afferma che al fine di escludere l'onere di immediata impugnazione delle clausole del bando «non escludenti» appare dirimente quanto dispone l'art. 120,comma 5,c.p.a., laddove prevedendo l'onere di immediata impugnazione del bando solo «in quanto autonomamente lesivo» ha evidentemente conferito «rango legislativo all'impostazione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 29 gennaio 2003 n. 1 », dal momento che un'autonoma lesività del bando può sussistere soltanto nelle ipotesi in cui esso presenti clausole escludenti.

L'Adunanza Plenaria afferma, quindi, così, che l'onere di immediata impugnazione è normativamente circoscritto alle sole ipotesi in cui sussistano delle clausole «escludenti», seppur queste ultime debbano intendersi nel senso ampliativo delineato dall'elaborazione giurisprudenziale successiva all'Adunanza Plenaria n. 1/2003. Ciò implica che, qualora dovessero ravvisarsi «così imperiosi motivi» per ritenere che l'obbligo di impugnazione immediata si estenda a tutte le clausole del bando attinenti alle regole formali e sostanziali della gara, seppur prive di portata escludente (come invero prospettava, e auspicava, l'ordinanza di rimessione) «ciò probabilmente non potrebbe avvenire in via ermeneutica ma dovrebbe passare per il vaglio della Corte costituzionale sulla compatibilità (rispetto ai precetti di cui agli artt. 24 e 97 della Costituzione) dell'inciso del comma 5 dell'art. 120 “autonomamente lesivi”».

Il Collegio confuta, poi, puntualmente «l'interpretazione evolutiva del diritto vivente» prospettata dall'ordinanza di rimessione, esaminando i riferimenti normativi portati a sostegno di essa, e precisando quindi che:

a) per le gare bandite in base alla disciplina del d.lgs. n. 163/2006, non si ravvisano ragioni per rivisitare il consolidato principio secondo il quale le clausole del bando che non rivestono certa portata escludente devono essere impugnate dall'offerente unitamente all'atto conclusivo della procedura di gara, in quanto l'espressa comminatoria di nullità delle clausole espulsive autonomamente previste dalla stazione appaltante sancita dall'art. 46, comma 1- bis, d.lgs. n. 163 del 2006 (reiterata dall'art. 83, comma 8, del vigente d.lgs. n. 50/2016): «a) da un canto rende meramente eventuale il ricorso ad iniziative giurisdizionali in quanto, secondo autorevole giurisprudenza (Cons. St. V, n.974/2013), tali clausole sono passibili di formale disapplicazione da parte della commissione di gara; b) ma soprattutto – a cagione dell'anticoncorrenzialità di simili clausole e della sanzione di nullità che da ciò discende – consente che l'iniziativa giurisdizionale avverso le stesse venga esercitata in qualsiasi tempo: ciò, semmai, va nella direzione contraria (immediata emersione dei vizi del bando) rispetto a quella prospettata a sostegno dell'indirizzo evolutivo; c) non ritiene, quindi, il Collegio che tale disposizione esprima indirizzi a sostegno del superamento del consolidato orientamento in punto di necessità di impugnare le clausole non preclusive della partecipazione unitamente al provvedimento che rende certa e invera la lesione, sino a quel momento unicamente paventata»

b) per le gare bandite in base alla disciplina del d.lgs. n. 50/2016:

- il nuovo potere di legittimazione processuale dell'ANAC introdotto dall'art. 211, commi 1- bis, ter e quater del nuovoCodice protegge «l'interesse pubblico alla concorrenza in senso complessivo (di qui, anche, la limitazione ai «contratti di rilevante impatto» contenuta nella citata disposizione)» differenziandosi nettamente da quello del partecipante alla gara che invece agisce in giudizio «nel proprio esclusivo e soggettivo interesse», che è, primariamente, quello di aggiudicarsi la gara e, solo subordinatamente, quello strumentale alla riedizione della gara che non sia riuscito ad aggiudicarsi. Alla luce di tale evidenza, sottolinea l'Adunanza Plenaria, il suddetto art. 211 non introduce «un mutamento in senso oggettivo dell'interesse (non, come si è prima chiarito, dell'operatore del settore, ma neppure del partecipante alla procedura) a che i bandi vengano emendati immediatamente da eventuali disposizioni (in tesi) illegittime, seppure non escludenti: essa ha subiettivizzato in capo all'Autorità detto interesse, attribuendole il potere diretto di agire in giudizio nell'interesse della legge»;

- l'impugnazione immediata dell'altrui ammissione alla procedura di gara prevista dall'art. 120, comma 2- bisc.p.a. (norma ora abrogata) è una disciplina eccezionale e di stretta interpretazione, attraverso la quale il legislatore dà rilievo a un interesse procedimentale alla corretta formazione della platea dei concorrenti la cui tutela anticipata si giustifica in quanto la maggiore o minore estensione della platea dei concorrenti incide oggettivamente sulla chance di aggiudicazione, il che invece non avviene in riferimento a censure attingenti clausole non escludenti del bando che perseguono semmai la diversa – e subordinata – ottica della ripetizione della procedura, sicché da tale disciplina, appunto eccezionale e derogatoria, non si può trarre «una tensione espressiva di un principio generale secondo cui tutti i vizi del bando dovrebbero essere immediatamente denunciati, ancorché non strutturantisi in prescrizioni immediatamente lesive in quanto escludenti».

L'Adunanza Plenaria conclude quindi ritenendo che, anche con riferimento al vigente quadro legislativo introdotto dal nuovo Codice dei contratti pubblici, debba trovare persistente applicazione l'orientamento secondo il quale le clausole non escludenti del bando vadano impugnate unitamente al provvedimento che rende attuale la lesione (id est: aggiudicazione a terzi), considerato altresì che la postergazione della tutela avverso le clausole non escludenti del bando, al momento successivo ed eventuale della denegata aggiudicazione, secondo quanto già stabilito dalla decisione dell'Ad. plen. n. 1/2003, non si pone certamente in contrasto con il principio di concorrenza di matrice europea, perché non lo oblitera, ma lo adatta alla realtà dell'incedere del procedimento nella sua connessione con i tempi del processo.

Sintetizzando i risultatati raggiunti dall'evoluzione giurisprudenziale in materia, l'Adunanza Plenaria detta il seguente «decalogo» di «clausole immediatamente escludenti»:

a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura;

b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (così l'Ad. plen. n. 3/2001);

c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta;

d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente;

e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all'intero importo dell'appalto);

f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato a essere assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate;

g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza «non soggetti a ribasso».

Da ultimo, con sentenza del Cons. St., Ad. plen., 16 ottobre 2020, n.22, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio della configurabilità della nullità solo parziale del bando, deducibile in sede di impugnazione degli atti applicativi della clausola nulla, da esperire nel termine di decadenza ex art. 120 c.p.a. (conf. Cons. St. V, n. 5834/2018; Cons. St., Ad. plen., n. 9/2014; contra Cons. St. V, ordd. 344 e 2993/2019).

La Plenaria ha nell'occasione ribadito che i bandi di gara, al pari di quelli di concorso, non sono atti normativi, ma atti amministrativi generali. I bandi sono, infatti, privi di contenuto normativo perché non hanno capacità di innovare l'ordinamento giuridico in quanto dettano regole che non sono suscettibili di ripetizione in modo indefinito, essendo riferite solo a un singolo e concreto procedimento. Attraverso il bando – che ha, quindi, funzione regolatoria, ma non natura normativa –, la P.A. fissa preventivamente le regole di svolgimento della singola gara o del singolo concorso. Ne è la controprova la circostanza che i destinatari, pur indeterminabili a priori, diversamente da ciò che accade per le fonti del diritto sono sempre determinabili a posteriori in quanto coincidono con i soggetti che hanno presentato domanda di partecipazione.

Da ultimo, cfr. Cons. St, IV, 15 febbraio 2022, n. 1107, secondo cui la clausola del bando di gara che, ex art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50/ 2016, individua il livello minimo di capacità tecnica dell'impresa offerente ha natura escludente e non è nulla per contrasto col principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto stabilito dalla medesima norma. 

In conformità,  Tar Napoli, sez. III, 22 maggio 2023, n. 3106 ha considerato  inammissibile il ricorso avverso il provvedimento di esclusione dalla gara che si configuri come atto vincolato rispetto a una clausola della lex specialis, non impugnata tempestivamente, e dalla quale replichi il contenuto, senza che la stazione appaltante abbia espresso alcuna valutazione ulteriore al riguardo. Il termine per l'impugnazione di una clausola della lex specialis, direttamente lesiva confermata da un provvedimento di esclusione meramente riproduttivo della stessa, decorre, infatti, dalla conoscenza della lex specialis da parte del concorrente e non dalla comunicazione del provvedimento di esclusione. Se è vero, in linea di principio, che soltanto con l'esclusione dalla gara ovvero con la conclusione della stessa, la lesione dell'interesse del concorrente assume i caratteri della concretezza e dell'attualità, così da consentire la tempestività di una impugnazione della lex specialis unitamente al provvedimento lesivo, tuttavia, la regola della impugnazione congiunta dell'atto presupposto e dell'atto applicativo subisce eccezioni laddove l'atto presupposto arrechi alla parte una lesione immediata.

Conf. Cons-.  St.,  III, 6 ottobre 2023, n. 8718, secondo cu i è ammissibile l'impugnazione immediata del bando volta a contestare l'errata configurazione economico-giuridica del rapporto (concessione di servizi anziché appalto di servizi, nella forma del leasing operativo) e l'assoluta insostenibilità economica della base d'asta proposta (condizioni di non sostenibilità economica oggettivamente impeditive della partecipazione, integranti dunque “clausole escludenti”), poiché incidenti direttamente, con assoluta e oggettiva certezza, sull'interesse delle imprese di settore, in quanto preclusive, per ragioni oggettive e non di normale alea contrattuale, di un'utile partecipazione alla gara.

14) Per impugnare il bando di gara è necessario presentare domanda di partecipazione alla procedura?

Con la citata pronuncia n. 4/2018, l'Adunanza Plenaria ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale (condiviso anche dalla sentenza della Corte cost. n.245/2016) secondo cui l'operatore del settore che non abbia presentato domanda di partecipazione alla gara non è legittimato a contestare le clausole di un bando di gara che non rivestano nei suoi confronti portata «escludente» (i.e. precludendogli con certezza la possibilità di partecipazione). La sentenza ha precisato che tale principio deve essere confermato sia con riferimento alla previgente legislazione in materia di contratti pubblici, che alla luce dell'attuale quadro normativo, in quanto allorché la clausola è escludente, essa è certamente impugnabile anche da chi non abbia proposto domanda di partecipazione alla gara perché in tal caso la lesione è certa, mentre se la clausola non è escludente, si dovrebbe dar luogo a valutazioni (quelle incentrate sulla «altissima probabilità di non conseguire l'aggiudicazione ipotetiche e opinabili»).

In deroga alle coordinate esposte la giurisprudenza della Corte di Giustizia reputa che in taluni casi, eccezionalmente, non sia necessaria la presentazione della domanda di partecipazione per impugnare il bando e gli atti successivi della procedura. Si tratta di casi eterogenei, avvinti dall'eccessività dell'onere partecipativo rispetto al tipo di contestazione (Cons. St. III, 3 febbraio 2017, n.476; vedi anche, da ultimo, T.A.R. Salerno,1/2021 eT.A.R. Bologna,88/2021).

Sono le ipotesi di:

a) impugnazione di una clausola immediatamente espulsiva o escludente (è eccessivo richiedere la partecipazione a una gara dalla quale si sarebbe con certezza esclusi);

b) contestazione di una gara che non avrebbe dovuto essere iniziata, dal momento che il ricorrente vanta un titolo che lo legittima alla proroga del precedente affidamento o al conseguimento di un affidamento diretto (è eccessivo partecipare alla gara di cui si i contesti radicalmente l'ammissibilità);

c) impossibilità di partecipare alla gara per assenza di pubblicità o per esiguità dei termini di presentazione delle domande (è eccessivo pretendere una domanda di partecipazione per definizione inesigibile);

d) contestazione di una gara mancata, gara, alla quale, per definizione, non è possibile partecipare;

e) contestazione di una gara che preveda oneri di partecipazione ex bona fide inesigibili in quanto onerosi, incomprensibili o sproporzionati.

Si tratta, in definitiva, di casi in cui è precluso oggettivamente a un'impresa o a un candidato di prendere parte alla gara o alla procedura concorsuale. In tali ipotesi, invero, la tempestiva presentazione della domanda di partecipazione da parte del ricorrente si qualificherebbe come un mero formalismo giuridico.

Resta allora fermo allo stato, l'orientamento – a parere di chi scrive convincente in quanto coerente con i principi in tema di attribuzione della legittimazione a ricorrere solo al portatore di una posizione differenziata e qualificata rispetto al quisque de populo – secondo cui, salve eccezioni specifiche, la legittimazione a impugnare il bando di gara e, più in generale, gli atti di una procedura concorsuale (negli appalti come nei concorsi pubblici) richiede il requisito indefettibile della presentazione di una rituale domanda di partecipazione. In coerenza con la premessa secondo cui la presentazione della domanda di partecipazione è requisito necessario di legittimazione all'impugnazione, si deve convenire che la partecipazione senza riserve alla procedura non integra acquiescenza, con l'effetto di precludere il successivo ricorso.

Con la sentenza del 28 novembre 2018, resa nella causa C-328/17, pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale effettuato dal Tar Liguria, la Corte di Giustizia ha affermato la compatibilità tra l'indirizzo giurisprudenziale interno – espresso dal giudice rimettente e condiviso dalla Corte Costituzionale – e il diritto europeo, ritenendo che «la partecipazione a un procedimento di aggiudicazione di un appalto può, in linea di principio, validamente costituire, riguardo all'art. 1,paragrafo 3, della dir. n.89/665, una condizione che deve essere soddisfatta per dimostrare che il soggetto coinvolto ha interesse all'aggiudicazione dell'appalto di cui trattasi o rischia di subire un danno a causa dell'asserita illegittimità della decisione di aggiudicazione di detto appalto. Se non ha presentato un'offerta, tale soggetto può difficilmente dimostrare di avere interesse a opporsi a detta decisione o di essere leso o rischiare di esserlo dall'aggiudicazione di cui trattasi (sentenza Corte giustizia UE, 12 febbraio 2004, Grossmann Air Service, C-230/02, EU:C:2004:93, punto 27)».

Sul punto, la CGUE ha quindi richiamato e confermato i principi affermati nella propria precedente sentenza Grossmann considerandoli mutatis mutandis applicabili al caso di specie, ricordando che «sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Italia) sia dalla sentenzan. 245/2016 della Cortecostituzionale risulta infatti che un interesse ad agire può essere eccezionalmente riconosciuto a un operatore economico che non ha presentato alcuna offerta, nelle «ipotesi in cui si contesti che la gara sia mancata o, specularmente, che sia stata indetta o, ancora, si impugnino clausole del bando immediatamente escludenti, o, infine, clausole che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendano impossibile la stessa formulazione dell'offerta».

Tuttavia, evidenzia subito appresso la Corte europea, «poiché è solo in via eccezionale che un diritto di proporre ricorso può essere riconosciuto a un operatore che non ha presentato alcuna offerta, non si può considerare eccessiva la richiesta che quest'ultimo dimostri che le clausole del bando rendevano impossibile la formulazione stessa di un'offerta».

Confermato così tale principio, la Corte di Giustizia non manca però di rilevare che sebbene «il grado di esigenza della prova non sia di per sé contrario al diritto dell'Unione sugli appalti pubblici, non si può escludere che, tenuto conto delle circostanze specifiche del procedimento principale, la sua applicazione possa comportare una violazione del diritto di proporre ricorso che le ricorrenti nel procedimento principale derivano sia dall'art. 1, paragrafo 3, della direttiva n. 89/665 sia dall'art. 1, paragrafo 3, della direttiva n. 92/13».

Sulla base di tale assunto, la Corte di Giustizia ritiene pertanto che spetti solamente al giudice a quo – e non al giudice europeo, che può solo fornire al giudice del rinvio indicazioni utili sulla base degli elementi risultanti agli atti di causa – accertare se, nel caso di specie, vi sia una lesione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, atteso che, tenendo conto delle circostanze specifiche del procedimento principale, non si può escludere che il grado di prova richiesto possa comportare una violazione del diritto di proporre ricorso.

15) Quali sono le problematiche processuali collegate ai controinteressati e alle conseguenze dell'annullamento del bando sulla sorte degli atti di gara?

Altra questione concerne poi l'esistenza, o meno, di controinteressati, laddove la lex specialis si configuri come immediatamente lesiva della sfera giuridica degli aspiranti partecipanti. L'impugnazione del bando, infatti, ove non connessa all'aggiudicazione definitiva o all'atto conclusivo del concorso, non conosce controinteressati, visto che, secondo la tesi prevalente, la mera chance di aggiudicazione – in quanto posizione potenziale e non utilità certa e definitiva – non è sufficiente a radicare una posizione di controinteresse che si acquisisce solo con l'esito positivo della gara (Cons. Giust. amm. reg. Sicilia, 276/2021; chi scrive ha, tuttavia, piena consapevolezza dell'insegnamento della giurisprudenza civile in tema di colpa medica e di procedure concorsuali nel settore privato, in base al quale la chance è in sé un bene, con la conseguenza che i partecipanti, ove siano identificabili con certezza, assumono la veste di contraddittori necessari).

Ulteriore questione oggetto di dibattito in dottrina e in giurisprudenza attiene all'effetto spiegato dall'annullamento del bando di gara sulla sorte degli atti successivi a esso. La tematica si inserisce, a ben vedere, nell'ambito dell'argomento più vasto dell'invalidità derivata, dovendosi stabilire se l'annullamento della lex specialis sortisca un effetto caducante o meramente viziante sugli atti che si collocano in un momento temporale successivo. Allo stato è prevalente in giurisprudenza l'orientamento secondo cui l'eventuale annullamento del bando implica la caducazione automatica degli atti successivi, anche se questi non siano impugnati, visto che il bando integra per l'Amministrazione, come sopra rammentato, un vincolo assoluto rispetto al quale gli atti conseguenti si pongono in una logica di vincolata e passiva attuazione. Alla base di tale opzione vi è anche la preoccupazione di evitare al ricorrente il gravoso onere di dover reagire all'attività della P.A. con ripetute impugnazioni che implica la ricerca spesso faticosa dei controinteressati successivi.

16) Le circolari sono fonti del diritto?

Le circolari rappresentano la fattispecie più controversa di norme interne, in quanto non costituiscono fonti del diritto in senso proprio. In particolare, il fatto di avere come destinatari una pluralità di soggetti e di avere un contenuto sostanzialmente omogeneo e indifferenziato per tutti i soggetti a cui sono indirizzate, ha determinato il sospetto che la circolare fosse un atto generale e astratto avente valenza fondamentalmente normativa. In realtà, la circolare è un atto amministrativo, senza rilevanza esterna, che assurge al rango di norma interna dell'amministrazione (Caringella, 197).

Le circolari, in quanto atti dotati di efficacia soltanto interna nell'ambito della singola amministrazione, non possono derogare le norme di legge e tantomeno essere considerate delle norme regolamentari. Per tale ragione, non possono produrre alcun effetto giuridico nei riguardi dei soggetti esterni alla P.A. e allo stesso tempo non possono essere considerate vincolanti, poiché hanno il solo scopo di svolgere funzioni direttive nell'organizzazione dei procedimenti degli uffici amministrativi.

Secondo la dottrina prevalente, (Sandulli) le circolari sono uno strumento attraverso il quale possono essere comunicati contenuti diversi tra cui le norme interne della P.A., come tali estranee alle fonti normative. Le norme interne, essendo espressione del potere di auto-organizzazione della p.a., impongono prescrizioni destinate a esaurire i loro effetti all'interno dell'apparato amministrativo, senza assumere alcuna rilevanza nell'ordinamento giuridico generale.

Per altro verso, vi è parte della dottrina (Giannini), che ritiene si debba recuperare l'originaria natura delle circolari quali semplici strumenti di comunicazione, distinguendole in base all'oggetto della comunicazione stessa che può essere del contenuto più vario. In base a questa seconda tesi, quindi, non è esatto parlare di una figura autonoma di atto amministrativo.

Anche la giurisprudenza ha affermato che «le circolari non costituiscono atti con valore provvedimentale ma mere direttive di carattere interno alle strutture destinatarie delle singole amministrazioni; pertanto, esse non hanno carattere normativo (rectius: sono prive della forza e del valore tipico di una legge) ma rappresentano lo strumento mediante il quale l'amministrazione fornisce indicazioni in via generale e astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i propri dipendenti e i propri uffici, con la conseguenza che rientrano nel genus degli atti interni all'amministrazione e possono avere diverso contenuto, potendo dettare disposizioni sull'organizzazione degli uffici, dare semplice notizia di determinazioni adottate da organi superiori, e ordini interni, o partecipazioni o diffide» (Cass. I, n.10739/2015; Cons. St. I, par. 2627/2019).

Mentre, non sono rilevabili profili di criticità in ordine all'impugnazione della circolare quando la stessa e l'atto applicativo vadano a incidere sui diritti soggettivi, in quanto sull'interessato non grava l'onere di impugnare né la circolare né l'atto di applicazione, in virtù della possibilità da parte del G.O. di verificare la fondatezza della pretesa attraverso la cognizione incidentale degli atti emanati dalla p.a., lo stesso non può affermarsi nel caso in cui, vengano in rilievo posizioni d'interesse legittimo.

La varietà delle circolari ha posto l'interrogativo in ordine alla loro diretta impugnabilità, indipendentemente dall'impugnazione dell'atto successivo con cui l'organo o l'ufficio ne fa applicazione.

A tal proposito, la giurisprudenza si è orientata nel senso che le circolari amministrative non hanno valore normativo o provvedimentale e non assumono carattere vincolante per i soggetti destinatari dei relativi atti applicativi, che non hanno l'onere di impugnarle, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che detti atti sono illegittimi perché scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere disapplicata. Ne discende, a fortiori, che una circolare amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione, anche in assenza di richiesta delle parti (Cons. St. IV,5664/2017).

17) Che ruolo hanno le regole non scritte nel sistema delle fonti del diritto amministrativo?

La consuetudine è la tipica fonte del diritto non scritta. Essa si sostanzia nella ripetizione di un comportamento da parte di una generalità di persone, con la convinzione che la sua osservanza sia normativamente imposta. La consuetudine consta tanto di un elemento oggettivo quanto di uno soggettivo: l'elemento oggettivo consiste nel ripetersi di un comportamento costante e uniforme per un certo periodo di tempo (c.d. diuturnitas); l'elemento soggettivo, noto come opinio iuris ac necessitatis, consiste nella convinzione che quel comportamento sia giuridicamente necessario (Caringella, 199).

A differenza della consuetudine, la prassi amministrativa, pur essendo anch'essa una regola non scritta, nella scienza giuridica ha avuto un ruolo secondario, difatti, non appartiene alle fonti di diritto, in quanto essa si concreta in un comportamento costantemente tenuto, ma in difetto della convinzione della sua obbligatorietà. Ne discende che la prassi costituisce un utile punto di riferimento per le scelte discrezionali che l'organo amministrativo deve eseguire, pur non avendo valore vincolante, né carattere innovativo per l'ordinamento giuridico come qualunque fonte normativa, in quanto è considerata come parametro cui rapportare la condotta dei pubblici uffici.

La prassi amministrativa è contemplata a livello normativo dalla l. n.69/2009, la quale ha introdotto nel suo art. 23 una disposizione che contiene un esplicito riconoscimento dell'importanza della prassi, intesa come insieme di regole comportamentali prodotte direttamente dagli uffici amministrativi. L'elaborazione e la diffusione delle buone prassi sono considerate ai fini della valutazione dei dirigenti e del personale.

18) Quale modello procedurale va seguito per i regolamenti delle Autorità Indipendenti?

In senso favorevole a tali regolamenti delle A.I., Cons. St., sez. norm., parere n. 583/2021, sul regolamento relativo al testo Unico dei Servizi Media Audiovisivi e Radiofonici. Ecco i passaggi salienti del parere: «L'apparato di attuazione della normativa in esame è rimesso, pressoché integralmente, a regolamenti dell'AGCOM».

Ciò sembra corrispondere a una tendenza ormai consolidata nell'ordinamento italiano, in particolare per i servizi regolati come nel settore in esame, e risulta coerente anche con le prescrizioni rinvenibili in proposito nel diritto dell'Unione europea.

Nondimeno, il suddetto fenomeno dovrebbe suggerire la necessità di presidiare anche quella produzione normativa di livello secondario con i mezzi propri dell'ordinamento. Quei regolamenti, infatti, sono destinati a disciplinare fattispecie che incidono direttamente su posizioni soggettive e sovente daranno consistenza normativa a proposizioni che nella direttiva europea e nel decreto legislativo riservano margini cospicui di adattamento e d'interpretazione, rimettendo di fatto l'effettivo rispetto della delega a tale livello di regolazione. Pertanto, anche sulla scorta di un precedente modello come quello del nuovo Codice dei contratti pubblici del 2016, che rimetteva molte determinazioni attuative a Linee-guida dell'ANAC, la quale, in spirito di leale collaborazione istituzionale e nell'interesse generale dell'ordinamento giuridico, decise di richiedere sempre il parere del Consiglio di Stato su tali linee guida – anche in questo, come in altri casi analoghi, potrebbe rivelarsi opportuna una prassi dello stesso tenore da parte di AGCOM prima dell'adozione dei regolamenti in questione. Una soluzione siffatta, inoltre, risulta coerente con l'orientamento sempre più spiccato della funzione consultiva del Consiglio di Stato come una funzione rivolta non solo al Governo, ma allo Stato comunità: numerosi, infatti, sono stati già i casi di richieste di parere al Consiglio di Stato provenienti da assemblee regionali, organi costituzionali e, appunto, autorità amministrative indipendenti. Il Consiglio di Stato, invero, è il solo consesso indipendente, formato esclusivamente da magistrati, cui siano rimesse valutazioni preventive nel processo di decisione che approda a nuove norme e in tale funzione è d'ausilio alla prevenzione di possibili vizi di legittimità come alla ricerca delle migliori pratiche nelle valutazioni prognostiche sull'applicazione delle norme e sulla tecnica di redazione delle disposizioni, allo scopo di garantire univocità e chiarezza (cfr. Cons. St., sez. norm., par. n. 515/2016)».

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