L'ex moglie può richiedere il risarcimento danni per violazione dei doveri coniugali?
08 Giugno 2022
Tizio e Caia dopo tre mesi dal matrimonio, si lasciano. Tizio se ne va di casa, dicendo di non sopportare più la partner. Già durante il viaggio di nozze, vi erano problemi nel senso che Tizio si rifiutava di avere rapporti sessuali con Caia per paura che la stessa rimanesse incinta. Caia vorrebbe il risarcimento del danno per violazione dei doveri coniugali, trovandosi a 28 anni già con un matrimonio fallito alle spalle. La donna da quando il marito è andato via di casa soffre di attacchi di panico e teme che Tizio abbia una relazione extraconiugale, anche se non è in grado di provarlo. Può Caia chiedere il risarcimento del danno ex art. 2059 per violazione dei doveri coniugali (se si, in che misura) e il mantenimento?
Il quesito formulato pone la necessità inquadrare la questione ,alquanto dibattuta e complessa, della risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dei doveri matrimoniali, ovvero il c.d. “danno endofamiliare” ricomprendente tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, che derivano dai comportamenti e dalle condotte di un proprio familiare, volontariamente lesive della dignità, dell'onore e della reputazione o di un altro diritto fondamentale della persona, garantito dalla Costituzione. La violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio ex art. 160 c.c. può non solo giustificare la pronuncia di addebito in sede di separazione ma, qualora vi sia una lesione di beni essenziali alla vita, può determinare anche un danno ingiusto, con conseguente risarcimento secondo lo schema della responsabilità aquiliana (Cfr. Cass. civ. 1 giugno 2012, n. 8862; Cass. civ. sent. n. 5866/1995). È importante, tuttavia, chiarire preliminarmente, sulla base delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità, quali siano gli effettivi presupposti che devono sussistere affinché l'azione risarcitoria possa essere legittimamente esperita, non potendo operare alcun automatismo tra violazione dei doveri coniugali e illecito aquiliano. Infatti, non qualsiasi violazione dei doveri coniugali implica tout court anche la configurazione di un illecito endofamiliare. Nella giurisprudenza, attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., prevale l'orientamento che riconosce la risarcibilità del danno derivante dalla violazione dei doveri coniugali sempreché tale violazione sia avvenuta tramite condotte idonee a determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona. Non è dunque l'inadempimento in sé al dovere coniugale fonte di risarcimento, ma il fatto che tale inadempimento abbia leso un bene costituzionalmente protetto. Inoltre, il danno lamentato deve essere specificatamente allegato e provato non potendosi considerare in re ipsa. A tal riguardo, appare importante ricordare una pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. n. 18853/2011) secondo cui non ogni violazione dei doveri derivanti dal matrimonio è sufficiente di per sé ad integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge che l'abbia compiuta. Tale responsabilità ricorre solo “laddove risulti che la violazione dei doveri coniugali abbia provocato, nell'ambito della sfera del soggetto danneggiato, la lesione di interessi meritevoli di tutela risarcitoria …per le sue modalità, abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell'offesa, …. si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto”. La giurisprudenza di legittimità è intervenuta anche di recente ribadendo tale principio nella sentenza Cass. 23 febbraio 2018 n. 4470 secondo cui “i doveri derivanti dal matrimonio hanno natura giuridica e la relativa violazione, ove comporti una lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad una autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c.”. Il danno endofamiliare va riconosciuto, quindi, nel pieno rispetto dei principi relativi al danno-conseguenza, sulla base delle risultanze probatorie acquisite ed accuratamente esaminate, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. Il che vuol dire che la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale può essere riconosciuta solo quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale. Fatte tali doverose premesse e venendo al quesito in esame, non vi è dubbio sul fatto che i comportamenti assunti da Tizio durante la breve convivenza matrimoniale con la moglie Caia possano giustificare l'eventuale domanda di addebito nel giudizio di separazione da parte di Caia. Sotto il profilo della responsabilità civile un'eventuale azione risarcitoria di quest'ultima dovrà, invece, necessariamente essere valutata con la dovuta prudenza per le seguenti ragioni: - Quanto al rifiuto di Tizio di intrattenere rapporti sessuali con Caia, si precisa che nel nostro ordinamento non viene espressamente riconosciuto il “diritto al rapporto sessuale” e non si può imporre o esigere una prestazione sessuale al partner. L'imposizione, infatti, costituisce in linea generale una limitazione dell'autodeterminazione altrui e potrebbe anche sfociare nel reato di violenza sessuale. È però anche vero che la sessualità costituisce allo stesso tempo uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2 Costituzione impone di garantire (Cfr. Cass. civ., sez. I, sentenza 10 maggio 2005 n° 9801). L'astensione dai rapporti sessuali tra coniugi diventa certamente rilevante quando è espressione di un totale rifiuto, disinteresse o addirittura di "repulsione" di un partner nei confronti dell'altro, costituendo chiaro sintomo della mancanza di comunione di affetti. Inoltre, il rifiuto protratto e ingiustificato di condurre una normale e sana vita sessuale per giurisprudenza costante può dare luogo ad un'offesa alla dignità della persona, comportando pregiudizi sul piano personale e psicologico. Del resto, i rapporti intimi nel matrimonio rappresentano uno tra i modi più importanti per manifestare il desiderio affettivo e sessuale verso l'altro e quando si rifiuta di avere rapporti sessuali col proprio coniuge si arriva pian piano a rifiutare la persona nella sua totalità e, così, a ferirla psicologicamente e soprattutto negli affetti. La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che “il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge - poiché, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell'equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner - configura e integra violazione dell'inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall'articolo 143 cod. civ., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale" (Cass. civ. n. 19112/2012; Cass. civ., n. 6276/2005). Nel caso esaminato, tenuto conto che Tizio ha abbandonato Caia dopo appena 3 mesi di matrimonio (lasciando la casa coniugale), si è rifiutato di avere rapporti sessuali con lei già durante il viaggio di nozze e che Caia ha dovuto poi ricorrere anche alle cure di uno psicologo per attacchi di panico, ritengo che ci siano gli estremi per richiedere anche il risarcimento del danno (oltre all'addebito) con separata azione civile, essendo evidente che il rifiuto di Tizio di avere rapporti sessuali, viste le circostanze, sia del tutto pretestuoso e ingiustificato e abbia arrecato alla moglie un senso di profonda frustrazione, di umiliazione e di disagio e quindi una lesione della sua dignità (diritto costituzionalmente protetto). Il rifiuto alla prestazione sessuale rende, del resto, impossibile al partner il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita sul piano affettivo e l'esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato. Su un caso per certi versi assimilabile si è già pronunciata la Cassazione stabilendo che il coniuge che ometta di informare l'altro coniuge prima del matrimonio delle proprie disfunzioni sessuali, tali da impedire l'assolvimento dell'obbligo coniugale, commette un illecito derivante dalla lesione del diritto fondamentale del coniuge a realizzarsi pienamente nella famiglia, nella società ed eventualmente come genitore (Cass. civ. n. 9801/2005). Va poi ricordato che il matrimonio tra Tizio e Caia è a tutti gli effetti qualificabile anche con un matrimonio non consumato e permetterebbe di domandare al giudice immediatamente il divorzio senza passare per la separazione (Cfr. Cass. civ. sent. n. 2815/2006) Se fosse poi un matrimonio concordatario Caia potrebbe anche richiederne la nullità. - Quanto, invece, alla relazione extraconiugale instaurata da Tizio si rileva che la stessa potrebbe giustificare la richiesta di risarcimento del danno da parte della moglie Caia solo se detta relazione si sia tradotta in comportamenti che abbiano leso un diritto costituzionalmente garantito del partner, quale la dignità, la reputazione o addirittura la salute (Cfr. Trib. Milano 7 marzo 2002). Per potersi invocare la tutela risarcitoria non è sufficiente, infatti, la mera violazione del dovere di fedeltà di cui all'art. 143 c.c. (già sanzionata con l'addebito della separazione), ma è necessario che tale violazione si sia realizzata con modalità lesive della dignità e della reputazione del coniuge. Trattandosi, poi, di danni conseguenza Caia dovrà fornire la prova (Cfr. Cass. civ. 4470/2018) che la lesione subita sia conseguenza del comportamento tenuto dal coniuge, ex art. 1223 c.c. Nel caso in esame, tenuto conto della brevissima durata del matrimonio (appena 3 mesi) e del fatto che Caia non sia in grado di fornire la prova del tradimento del marito, ritengo che non ci siano spazi per avanzare, in relazione a tale condotta, una richiesta di risarcimento danni. La relazione extraconiugale è rimasta di fatto "segreta", e quindi non pubblicizzata, tanto da rendersi necessario l'intervento dell'investigatore privato. Non si può, pertanto, ritenere che la violazione del dovere di fedeltà da parte di Tizio sia avvenuta con modalità ingiuriose o disonorevoli, ovverosia tali da ledere la dignità e l'onore di Tizia e quindi diritti costituzionalmente garantiti. Si ricorda al riguardo che per giurisprudenza costante, ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria, la condizione di afflizione indotta nel coniuge dalla violazione del dovere di fedeltà deve superare la soglia della tollerabilità e si deve tradurre, “per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all'onore o alla dignità personale” (Si veda anche Cass. civ. n. 6598/2019; Tribunale Torre Annunziata sez. I, 24 ottobre 2016, n.2643; ). - Per quanto riguarda la misura del risarcimento che potrebbe richiedere Caia si osserva innanzitutto che tale categoria di danno, prima individuata solo in base al dettato dell'art. 2059 c.c., è stata successivamente delineata dalla Corte di Cassazione come “ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente la persona” (Cfr. Cass. civ., sez. III, sentenza 8827/2003 e sentenza 8828/2003) È stato in particolare affermato che “il danno non patrimoniale, alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., costituisce una categoria ampia, comprensiva non solo del cosiddetto danno morale, ovverosia della sofferenza contingente e del turbamento dell'animo transuente, determinati da un fatto illecito integrante un reato, ma anche ad ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, alla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica”. (Cfr. Cass. civ., sez. III, sentenza 18641/2011) In presenza di tali danni sussiste una difficoltà oggettiva ad individuare un criterio certo e preciso di valutazione del valore da indennizzare. Il giudice in questi casi, sulla scorta del combinato disposto degli artt. 1226 e 2056, comma 1, c.c procede, quindi, ad una liquidazione secondo equità. Liquidare in via equitativa un danno non patrimoniale non significa (o non dovrebbe significare) applicare una liquidazione arbitraria: la valutazione equitativa, pur offrendo margini di discrezionalità al giudice, deve fondarsi su criteri di adeguatezza, di proporzione, di prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto e dare adeguatamente conto dei parametri valutativi adottati in sede motivazionale. Per evitare liquidazioni sperequate i maggiori Tribunali italiani (ad esempio Milano e Roma) hanno elaborato in relazione ai più incisivi e ricorrenti ambiti di manifestazione del danno non patrimoniale (danno alla salute, danno da perdita di un congiunto, danno da diffamazione) dei criteri standardizzati (c.d. Tabelle) di liquidazione, così da uniformare e rendere prevedibili le pronunce risarcitorie di ciascun foro, in ossequio al principio di parità di trattamento cui deve essere votato il risarcimento del danno. Nel 2011 la Corte di Cassazione (sentenza n. 12408/2011) ha individuato nella “tabella” elaborata dal Tribunale di Milano un generale “parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono“, così attribuendo alla stessa un rilievo para-normativo e, con esso, la valenza di criterio guida a livello nazionale.
-In ordine alla richiesta di mantenimento che vorrebbe avanzare Caia si segnala che l'assegno di mantenimento dovuto al coniuge in caso di separazione è considerata la proiezione degli obblighi di mantenimento reciproci derivanti dal matrimonio (art. 143 c.c.) nonché estrinsecazione del generale dovere di assistenza materiale, che permane anche dopo la cessazione della convivenza: la separazione, infatti, instaura un regime che tende a conservare quanto più possibile gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, con il tipo di vita di ciascuno dei coniugi (Cass. civ. sez. I, 20 febbraio 2013, n. 4178, cfr. anche Cass. civ., sez I, 16 maggio 2017, n. 12196). L'assegno spetta al coniuge che non solo non è responsabile della frattura coniugale ma che non possiede “redditi adeguati” L'art. 156 c.c. non fornisce alcuna specificazione del concetto ma la giurisprudenza, ormai consolidata, ha precisato che l'inadeguatezza debba essere parametrata al tenore di vita matrimoniale (Cass. civ. sez. VI, 4 dicembre 2017, n. 28938; Cass. civ. sez VI, n. 1° marzo 2017, n. 5251). Il contributo, dunque, spetta al coniuge che con le proprie risorse complessivamente intese (Cass. civ., sez. VI, 4 aprile 2016, n. 6427), dichiarate e non dichiarate fiscalmente (Cass. civ., 2 novembre 2004, n. 21047; Trib. Cagliari, 7 febbraio 2012), non può continuare a godere del pregresso tenore di vita (Cass. civ.,7 luglio 2008, n. 18613; Trib. Milano, 21 novembre 2013). Ai sensi dell'art. 156 c.c., dunque, il giudice, per stabilire se e in quale misura sia dovuto il contributo per il coniuge, deve compiere una serie di passaggi consequenziali: a) verificare la non addebitabilità della separazione al richiedente; b) valutare il tenore di vita in costanza di convivenza, che costituisce il parametro per l'inadeguatezza dei redditi del richiedente; c) accertare, comparativamente, le disponibilità economiche delle parti; d) valutare le altre circostanze che, ex art. 156 comma 2 c.c., ai fini della quantificazione in concreto dell'importo mensile dovuto. Nel caso in esame ritengo che non ci siano i presupposti perché Caia possa rivendicare il diritto al mantenimento dal momento che: - Non pare esservi, stando alle informazioni fornite, una significativa disparità economica tra i coniugi. Caia ha un reddito leggermente inferiore a Tizio ma è anche proprietaria esclusiva della casa coniugale. - Il matrimonio è stato di breve durata (appena 3 mesi) e non vi è stato il tempo di instaurare una vera e propria relazione sia economica che affettiva. Se è vero che la durata del matrimonio non incide sulla debenza dell'assegno, ma sul suo ammontare (Cass. 1162/2017) in casi di eccezionale brevità (come quello in esame) la giurisprudenza ritiene che l'assegno non sia dovuto atteso che in un contesto di tempo troppo limitato non si può creare la comunione materiale e spirituale che è alla base del matrimonio (Cass. 6464/2015; Cass. 402/2018). - Caia è una donna giovane (ha solo 28 anni) ed è dotata di solida capacità lavorativa perché ha un'occupazione e percepisce reddito. La giurisprudenza tende a negare l'assegno ex art. 156 c.c. in tutte quelle situazioni in cui il matrimonio è durato poco, la moglie è ancora giovane ha un lavoro che le consente di mantenersi. Su un caso analogo è intervenuta anche di recente la Corte di Cassazione chiarendo che qualora il matrimonio sia durato poco, la moglie sia giovane e svolga un'attività lavorativa non le è dovuto alcun assegno di mantenimento. (Cfr. Cass. civ. n. 13902/2019).
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