Se il marito invalido lascia la casa familiare potrebbe rivendicare il diritto di abitarvi per il suo stato di salute?
14 Giugno 2022
Il marito risulta beneficiario di indennità di accompagnamento e già ha lasciato l'abitazione a causa dei continui litigi per andare a vivere dalla propria genitrice, mentre la moglie, usufruttuaria dell'immobile, è rimasta a vivere nella predetta abitazione. Ai fini di una maggiore completezza, si precisa che l'immobile era di proprietà esclusiva della moglie e successivamente è stata ceduta la nuda proprietà ai figli. Il marito, in virtù delle patologie invalidanti, può rivendicare la pretesa di ritornare ad abitare nell'immobile?
In caso di separazione dei coniugi, laddove vi siano figli minori o maggiorenni ma non economicamente indipendenti, il Giudice sarà chiamato a decidere a quale di questi dovrà essere assegnata la casa coniugale. Il tema dell'assegnazione della casa familiare è stato riformato con l'introduzione dell'art. 337-sexies c.c. secondo cui “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli”. L'assegnazione della casa familiare è una misura funzionale a tutelare l'interesse del minore a mantenere il proprio habitat domestico, ragione questa che prevale sul titolo dominicale. Secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità, in presenza di figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, l'assegnazione della casa coniugale spetta sempre al coniuge affidatario/collocatario dei figli a prescindere dal titolo (piena o nuda proprietà, usufrutto etc.) che vantano i genitori sull'immobile (Cass., civ., sez. I, 18 settembre 2013, n. 21334). L'ordinamento ritiene, infatti, prevalente l'interesse della prole a continuare una vita serena nell'ambiente loro più familiare, soprattutto durante la traumatica esperienza della separazione dei genitori. Il presupposto dell'assegnazione della casa familiare è in primo luogo il collocamento presso il coniuge dei figli. Pertanto di regola la casa coniugale viene assegnata solo al coniuge presso cui i figli sono collocati in via prevalente non avendo alcun rilievo il fatto che l'altro vanti diritti reali sull'immobili o si trovi in condizioni economiche e/o di salute precarie. Ciò in quanto l'assegnazione della casa coniugale non costituisce mai una misura assistenziale a favore di uno dei due coniugi ma una misura volta unicamente a salvaguardare l'interesse dei figli a continuare a vivere nell'ambiente in cui sono cresciuti. Tanto che in assenza di figli o laddove questi non convivano più con i genitori il giudice non può neppure adottare un provvedimento di assegnazione della casa coniugale (Cass. sez. un., sent., 23 aprile 1982, n. 2494; Cass., sez. un., sent., 28 ottobre 1995, n. 11297; Cass. civ., sent., 4 luglio 2011, n. 14553). In caso di assegnazione, il genitore non assegnatario dovrà lasciare immediatamente la casa una volta emesso il provvedimento. Il genitore non assegnatario perde, quindi, il domicilio nella casa coniugale e deve riconsegnare le chiavi, al punto che, qualora facesse rientro nella casa senza autorizzazione del genitore assegnatario, commetterebbe il reato di violazione di domicilio. Venendo al caso di specie e tenuto conto di quanto sopra esposto, ritengo che il marito, pur beneficiario dell'indennità di accompagnamento e affetto da patologie invalidanti , non possa in alcun modo in sede di separazione rivendicare alcuna pretesa di ritornare ad abitare nella casa coniugale già lasciata, salvo che il Giudice non decidesse di collocare i figli presso di lui (invece che presso la madre). Certo è che il marito non può rivendicare l'assegnazione dell'immobile facendo valere il precario stato di salute in cui versa. L'assegnazione della casa, come detto non è una misura assistenziale del coniuge (ma solo della prole) ne è equiparabile ad un assegno di mantenimento. Per completezza di esposizione si segnala, comunque, che in un caso particolare la giurisprudenza di merito (Cfr. App. Venezia, decr. 6 marzo 2013 n. 25) si è discostata nettamente dall'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità in materia di assegnazione. Decidendo su un reclamo ai sensi dell'art. 708 comma 4 c.p.c., ha riformato i provvedimenti provvisori assunti all'udienza presidenziale e assegnato la casa coniugale al marito affetto da grave disabilità (cecità totale) seppur non collocatario della figlia minore. La Corte ha ritenuto nel caso affrontato che : "in tale situazione di invalidità appare estremamente ingiusto estrometterlo dalla casa coniugale posto che ciò gli creerebbe indiscutibili problemi di gestione della sua vita quotidiana richiedendosi un ragionevole periodo di ambientamento in una nuova casa ma soprattutto gli impedirebbe per un lunghissimo periodo di recarsi al lavoro autonomamente posto che il cane accompagnatore ha ormai appreso e memorizzato i percorsi da compiere per consentire al padrone di portarsi sul luogo di lavoro e, quindi, non sarebbe in grado di effettuare altri e non meglio prevedibili percorsi se non con un adeguato addestramento notoriamente di non breve durata”. In sostanza, a fronte di un interesse della minore a restare nella casa coniugale come dispone anche la legge, la Corte ha ritenuto “prevalente” l'interesse del padre invalido di non vedere totalmente stravolta la sua vita e di continuare soprattutto a prestare la propria attività lavorativa. Si tratta, comunque, a mio avviso di un orientamento del tutto minoritario e isolato che difficilmente potrebbe essere avvallato dal Tribunale dal momento che si discosta nettamente dallo spirito della normativa che disciplina l'assegnazione nonché dagli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità.
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