Violenza domestica, di genere e tutela civile: i criteri direttivi della legge delega

Beatrice Ficcarelli
22 Giugno 2022

L'articolo si ripropone di evidenziare le maggiori questioni che si rinvengono nelle controversie familiari in cui siano allegati fatti di violenza domestica o di genere anche alla luce dei nuovi criteri direttivi della legge delega di riforma del processo civile.
Posizione del problema: cenni al quadro di riferimento interno e sovranazionale

Le questioni processuali legate ai fatti di violenza domestica o di genere sono ormai costantemente oggetto di attenzione da parte del nostro legislatore, sempre più consapevole della necessità di individuare le misure maggiormente idonee a fronteggiare un fenomeno da sempre emergenziale che, in quanto tale, necessita di un pronto ed efficace “armamentario” di protezione e tutela.

Nell'ottica e al fine ultimo di dare compiuta attuazione alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica entrata in vigore nel nostro ordinamento il 1° agosto 2014, cruciale questione è il coordinamento tra le diverse autorità giudiziarie che del problema possono essere investite.

Partendo dal presupposto che è proprio all'interno della famiglia che i rapporti fondati sulla prevaricazione e sulla sopraffazione producono gli effetti più gravi -poiché è nel contesto familiare che il maggior numero di violenze si esplica- il giudice che sia investito della separazione o del procedimento riguardante l'affidamento di figli minori deve avere pronta e completa conoscenza degli atti relativi agli eventuali procedimenti penali per reato di violenza domestica o di genere in cui siano stati assunti provvedimenti cautelari, di archiviazione o di condanna nei confronti di una delle parti del procedimento pendente innanzi al giudice civile; ciò al fine di evitare provvedimenti in qualche modo confliggenti tra loro, se non addirittura incompatibili.

Come di recente evidenziato dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, nonché́ su ogni forma di violenza di genere, non si può̀ infatti reprimere la violenza domestica nella normativa sanzionatoria penale e nei procedimenti penali, ed ignorarne gli effetti nei procedimenti che abbiano ad oggetto la disciplina dell'affidamento dei figli o della responsabilità̀ genitoriale, essendo proprio l'ambito delle relazioni familiari quello in cui le condotte di violenza domestica, declinate in tutte le loro forme di violenza fisica, psicologica, economica, hanno maggiore incidenza.

Ciò posto, ancora nelle calibrate parole della Commissione, uno stesso ordinamento non può tollerare che da una parte l'autore di violenze venga indagato e condannato per le condotte commesse e dall'altra venga considerato un genitore adeguato al pari di quello che le violenze abbia subito, senza che gli agiti violenti, nei procedimenti civili e minorili vengano accertati e abbiano dirette conseguenze sulla gestione della genitorialità. Per questo, si ritiene necessario garantire “l'adozione di provvedimenti coordinati, nella consapevolezza che la vera efficacia deterrente per reprimere condotte di violenza domestica si realizza verificando la sussistenza di tali condotte, anche e soprattutto, nell'ambito dei procedimenti civili e minorili che hanno per oggetto domande relative ai figli minori, con immediati riflessi, in caso di accertamento della sussistenza delle stesse, anche nelle forme di volenza assistita, sulla disciplina della responsabilità genitoriale e dell'affidamento con adozione di misure limitative a carico del genitore violento” La diffusione nei procedimenti civili o minorili che abbiano ad oggetto domande di affidamento dei figli minori o di disciplina della responsabilità genitoriale, di specifica attenzione alle condotte di violenza domestica, con immediati effetti sulla modalità di affidamento, ritiene la Commissione medesima, potrà avere, nel breve periodo, un'efficacia deterrente maggiore rispetto alla irrogazione di condanne penali, che nella maggior parte dei casi sopraggiungono a notevole distanza dai fatti, e prevedono la sospensione condizionale della pena.

La Commissione evidenzia giustamente, infatti, che i profili civilistici di contrasto al fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne, sono sempre stati per così dire sacrificati, per essere l'attenzione del legislatore e degli operatori giudiziari maggiormente concentrata, a livello nazionale, principalmente nella repressione delle condotte penalmente rilevanti.

Il problema del coordinamento tra autorità giudiziarie e provvedimenti, sul versante penale, è stato affrontato dalla l. n. 69/2019 nota come “codice rosso” recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” per effetto della quale, per quanto specificamente e direttamente ci occupa, è stato inserito nelle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale l'art. 64-bis c.p.p. il cui art. 14, comma 1, in linea con quanto sopra evidenziato, prevede che nel caso siano pendenti procedimenti di separazione dei coniugi o siano in corso cause relative all'affidamento dei minori o alla responsabilità genitoriale, il giudice penale deve trasmettere senza ritardo al giudice civile copia dei provvedimenti adottati nell'ambito del procedimento penale aperto per il delitto di violenza domestica o di genere. Senza indugio o dilazione il giudice penale deve trasmettere anche le ordinanze relative a misure cautelari personali, avviso di conclusione delle indagini preliminari, provvedimento di archiviazione e sentenze di condanna.

Da ultimo, anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2022 sulla tutela dei diritti dei minori nei procedimenti di diritto civile, amministrativo e di famiglia (2021/2060 (INI) sottolinea la necessità di riconoscere lo stretto legame tra procedimenti penali, civili e altri procedimenti giudiziari al fine di coordinare le risposte giudiziarie e le altre risposte legali alla violenza sui minori e alla violenza da parte del partner, invitando gli Stati membri ad adottare misure per collegare i procedimenti penali e civili che coinvolgono una singola famiglia e i minori, al fine di evitare efficacemente discrepanze tra le decisioni giudiziarie e le altre decisioni legali che danneggiano i minori.

Su questa indefettibile premessa il tema tocca, inevitabilmente, la delicata e controversa questione relativa all'accertamento dei fatti da parte del giudice penale ed il valore che questo abbia nell'ambito del processo civile. È ben noto, infatti, che secondo i più recenti approdi della Suprema Corte in materia (v. ad es. Cass. civ., sez. civ., 19 maggio 2020, n. 9143), il giudice civile deve accertare i fatti allegati con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico, senza essere vincolato dalle soluzioni e qualificazioni adottate dal giudice penale. Il giudice civile non può così ritenersi vincolato dai provvedimenti del giudice penale, dovendo accertare in modo del tutto autonomo, nel pieno esercizio dei propri poteri istruttori, l'esistenza della violenza allegata senza automatismo alcuno.

Il problema è di non poco conto, e lo è a maggior ragione nei casi in cui, come appunto quello sottoposto alla nostra attenzione, i fatti riguardino episodi di violenza domestica o di genere, e la prova degli stessi possa risultare praticamente impossibile, giacché il processo civile non ammette, come ben si sa, la prova testimoniale della parte, consentita invece dal processo penale. Questa, invero, spesso o quasi sempre rappresenta l'unico mezzo idoneo ad accertare i fatti proprio a causa dell'ambiente in cui le violenze si perpetrano, ciò a dire la famiglia, la quale raramente contempla la presenza di terzi che abbiano assistito ai fatti stessi se non i figli, spesso minorenni.

Nell'ambito del processo penale la vittima di un reato assume la veste di testimone e, in quanto tale, rende dichiarazioni (testimoniali) impegnandosi a dire la verità, commettendo, diversamente, reato di falsa testimonianza (art. 372 c.p.). Sebbene il Giudice penale debba valutare la testimonianza della persona offesa in modo più rigoroso rispetto ai cd. testimoni estranei, la vittima può essere ritenuta pienamente credibile. E il giudice effettua un vaglio di attendibilità intrinseca (ad es. racconto lineare, dettagliato ma non ripetitivo, costante nel tempo), sia di un vaglio di attendibilità estrinseca (riscontri testimoniali, interrogatori dell'imputato ecc).

A tali problematiche si affianca il fenomeno cd. della “vittimizzazione secondaria” di chi subisca violenza. La Convenzione di Istanbul, all'articolo 18, stabilisce infatti che gli Stati firmatari si impegnano ad evitare, forme di vittimizzazione secondaria, la quale consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all'apertura di un procedimento giurisdizionale. In effetti, come anche sottolineato dalle Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione, la vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere, e l'effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa (Cass. Sez. Un. 17 novembre 2021 n. 35110 in Dejure). È di questo delicato e troppo trascurato problema ed aspetto, anzi, che nella Relazione del 20 aprile 2022 la Commissione al Senato sul femminicidio si prende specificamente carico, rammentando che una puntuale definizione di vittimizzazione secondaria si rinviene nella Raccomandazione n. 8 del 2006 del Consiglio d'Europa secondo la quale «vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell'atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima». La vittimizzazione secondaria, diversamente dalla vittimizzazione ripetuta da attribuire allo stesso autore, è quindi effettuata dalle istituzioni con cui la vittima viene in contatto, qualora operino senza seguire le direttive internazionali e nazionali, e non garantiscano comportamenti rispettosi e tutelanti, tali da non ledere la dignità personale, la salute psicofisica e la sicurezza della vittima, sia essa la donna sia esso il minore vittima di violenza assistita.

Le indicazioni della legge delega per la riforma del processo di famiglia: profili problematici

È in questo complesso quadro, arricchito dalla nostra normativa interna relativa agli ordini di protezione contro gli abusi familiari di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c. -notoriamente introdotti nel sistema ad opera della l. n°154 del 4 aprile 2001-, che si collocano le indicazioni della l. n. 206/2021 di delega al Consiglio dei Ministri per una generale riforma del processo civile.

All'art. 1, comma 23 lett. b) della medesima, si prevede infatti che nei procedimenti di cui alla lettera a) -vale a dire i procedimenti familiari nella loro più ampia accezione- che in presenza di allegazioni di violenza domestica o di genere siano assicurate su richiesta, adeguate misure di salvaguardia e protezione, avvalendosi delle misure di cui all'articolo 342-bis c.c.; le necessarie modalità di coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti; l'abbreviazione dei termini processuali nonchè specifiche disposizioni processuali e sostanziali per evitare proprio la vittimizzazione secondaria.

La legge delega si preoccupa poi del delicato profilo dei rapporti tra genitori e figli minori, stabilendo che qualora un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, debba accertare con urgenza le cause del rifiuto ed assumere i provvedimenti nel superiore interesse del minore medesimo considerando, ai fini della determinazione dell'affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali, episodi di violenza. In ogni caso, si intende garantire che gli eventuali incontri tra i genitori e il figlio avvengano, se necessario, con l'accompagnamento dei servizi sociali e che questi non compromettano la sicurezza della vittima.

La legge di riforma prevede inoltre la possibilità che il giudice ritenga necessario avvalersi dell'ausilio di un consulente, nel qual caso si stabilisce che possa procedere alla sua nomina con provvedimento motivato, indicando gli accertamenti da svolgere.

Si stabilisce infine che i provvedimenti di cui agli artt. 342-bis ss c.c. possano essere richiesti ed emessi anche dal tribunale per i minorenni e quando la convivenza sia già cessata.

Come ha subito notato la dottrina più attenta che si è occupata del delicatissimo problema ed in attesa dei decreti che attueranno le indicazioni della legge delega, la principale questione che a nostro avviso si pone è quella per la quale “in presenza di allegazione di violenza domestica o di genere”, discendono misure di salvaguardia delle vittime (incidenti anche sul problema dei provvedimenti atti a garantire i rapporti tra genitori e figli).

È stato infatti correttamente rilevato che se la norma è giustissima nella misura in cui tende a reprimere ogni forma di violenza, secondo i basilari principi del processo civile, tuttavia, i provvedimenti restrittivi non possono discendere da una semplice allegazione e devono al contrario trovare riscontro in una prova, quanto meno sommaria e/o prima facie, della sussistenza della violenza allegata.

Immaginare viceversa che la sola allegazione, ovvero la sola denuncia che una parte faccia nei confronti di un'altra, possa costituire, di per sé sola, il presupposto per l'emanazione di provvedimenti di cui agli artt. 342-bis e ter c.c., ovvero provvedimenti di allontanamento del coniuge dalla propria casa e dai propri luoghi, e disporre altresì l'intervento dei servizi sociali, “è qualcosa che è in contrasto con il principio dell'onere della prova e, direi, tutt'assieme, con le nostre regole di base della tutela dei diritti”(Così G. Scarselli, La riforma del processo di famiglia, in www.giustizia insieme.it) Si tratta dei principi, del giusto processo, del diritto di difesa, del contraddittorio.

Quelle sollevate sono questioni di grande rilievo, non suscettibili di essere in questa sede approfondite, che mettono al centro del dibattito la controversa e succitata questione del valore dell'accertamento dei fatti da parte del giudice penale nell'ambito del processo civile, considerata l'inammissibilità della testimonianza della parte nel processo civile medesimo anche al fine di evitare i delicati fenomeni relativi alla vittimizzazione secondaria di cui parimenti la legge delega si prende carico, pur non specificando quale possa essere la soluzione.

Nulla quaestio, ed anzi da valutare positivamente sono invece le indicazioni della legge delega in ordine all'abbreviazione dei termini processuali (se rispettosi del diritto di difesa) nei procedimenti in cui sia allegata violenza -sia pur con i rilevati aspetti critici in punto di prova- nonché la possibilità che il giudice di avvalersi dell'ausilio di un consulente, ravvisandosi in tale disposizione la volontà del legislatore di fornire al giudice maggiori strumenti per intervenire con tempestività a tutela dei soggetti vittime di violenza ed in particolare di minori.

La riforma esclude infine che in presenza di fatti di violenza le parti possano ricorrere alla procedura di mediazione. Questa, infatti, potrà sempre essere disposta ad esclusione dei casi in cui una delle parti sia stata destinataria di condanna anche non definitiva o di emissione dei provvedimenti cautelari civili o penali per fatti di reato previsti dagli articoli 33 e seguenti della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011, di cui alla legge 27 giugno 2013, n. 77.

Si tratta di una scelta confliggente con quella adottata dal nostro legislatore per gli ordini di protezione di cui agli artt. 342-bis ss. i quali non prevedono l'esclusione assoluta di un percorso di mediazione per il soggetto violento, con ciò ponendosi problemi di coordinamento tra la nuova normativa e quella previgente relativa agli ordini di protezione, aspetto, anche questo, meritevole di approfondimento e assoluta attenzione.

In conclusione

In attesa dei decreti attuativi della riforma del processo civile in cui verrà presa una finale posizione anche relativamente ai fatti di violenza domestica allegati nell'ambito del processo familiare, non si possono omettere alcune tanto generiche quanto forse banali considerazioni per chi praticamente si sia imbattuto o trovi ad imbattersi nel delicato genere di controversie che ci occupano.

Anzitutto, d'accordo con i primi commentatori (M.G. Albiero, I fatti di violenza e il processo, in La riforma del giudice e del processo per le persone, i minori e le famiglie, Legge 26 novembre 2021, n°206, a cura di C. Cecchella, Torino, 2022, p. 359 ss.), e come già anche da noi osservato, deve salutarsi positivamente la scelta del legislatore di voler dedicare ai processi in cui siano allegati fatti di violenza una corsia preferenziale che preveda l'abbreviazione dei termini processuali. Ciò al fine di una celere definizione degli stessi volta a tutelare nel modo più adeguato possibile le vittime di violenza domestica e di genere nonché i figli minorenni, questi ultimi anche relativamente al delicato problema dei diritti di visita e relazione con il genitore violento.

Ma il legislatore della riforma si pone anche l'importante obiettivo di evitare i fenomeni di vittimizzazione secondaria, vale a dire quella ulteriore vittimizzazione che donne e bambini vittime di violenza domestica possano subire nel corso dei procedimenti giudiziari di separazione o affidamento. Come correttamente evidenziato nella recente relazione della Commissione di inchiesta sul femminicidio concentrata specificamente su questo problema, il tema tocca inevitabilmente quello della formazione di tutti gli operatori sul tema della violenza domestica, forze dell'ordine, magistrati, avvocati, consulenti, operatori dei servizi sociali. In vista del perseguimento di questo obiettivo, si suggerisce che siano all'uopo previsti corsi di formazione obbligatoria sugli indici di riconoscimento della violenza domestica e sulla normativa nazionale e sovranazionale in materia, oltre alla formazione di liste di professionistispecializzati cui attingere in presenza di allegazioni di violenza. A ciò si aggiungano percorsi di formazione condivisa tra magistratura forze dell'ordine, avvocatura, servizi sociali, servizi sanitari, centri e associazioni anti violenza, anche per la diffusione di conoscenze condivise per l'individuazione degli indici di violenza domestica.

Qualora poi la vittima della violenza metta in moto anche il procedimento penale denunciando il familiare violento o abusante ed il procedimento di separazione personale o affidamento intervenga di seguito o contestualmente, la questione della vittimizzazione secondaria è ancor più evidente dovendo la vittima medesima affrontare più volte una dolorosa istruttoria innanzi al giudice e rivivere continuamente i fatti accaduti con il rischio peraltro di decisioni anche totalmente confliggenti. Ecco che allora centrale diviene il problema oltre che del coordinamento tra provvedimenti civili e penali quello di risolvere una volta per tutte il valore degli accertamenti effettuati dal giudice in altro processo, rammentandosi che nella maggior parte di quelli in cui sono allegati fatti di violenza, la dimostrazione degli stessi può provenire solo attraverso dichiarazioni rese dalla vittima e non da terzi.