Divieto di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ex art. 270 c.p.p.: sull'effettiva portata della nozione di “procedimento diverso”

24 Marzo 2020

Rimessa alle Sezioni Unite l'esegesi della nozione di “procedimento diverso”, necessaria, in assenza di una precisa indicazione normativa, al fine di considerare utilizzabili o meno, secondo il regime giuridico di cui all'art. 270 c.p.p., i risultati dell'attività di captazione e di superare l'annoso contrasto giurisprudenziale...
1.

La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è volta a comprendere quali siano esegesi ed effettiva portata della nozione di “procedimento diverso”, da cui dipende l'applicabilità o meno del peculiare regime previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p.; l'ermeneusi univoca della norma è infatti necessaria per poter escludere l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni acquisite aliunde, salvo che l'acquisizione dei predetti appaia indispensabile per l'accertamento di delitti per i quali l'arresto in flagranza è obbligatorio.

Il caso. Nella vicenda sottoposta allo scrutinio della sesta Sezione Penale della Corte di legittimità era stato formulato, nei confronti di soggetti imputati dei delitti di peculato e falso, un giudizio di responsabilità penale sulla base delle dichiarazioni rese da un testimone e dei risultati di un'attività di captazione, che era stata autorizzata con riferimento, tra le altre, all'ipotesi di reato incentrata sull'utilizzazione indebita di notizie riservate, ai sensi dell'art. 326, comma 3, c.p.

A giudizio dei ricorrenti non sussisteva alcun collegamento, se non meramente occasionale, tra i reati per i quali erano state disposte le intercettazioni telefoniche e quelli di peculato e falso commessi mentre erano in corso quelle operazioni di captazione; da ciò avrebbe dovuto conseguire, in applicazione del principio di cui all'art. 270 c.p.p., l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche nel procedimento diverso da quello in cui erano state disposte, non ricorrendo, con precipuo riferimento ai richiamati delitti di peculato e falso, il requisito della sottoponibilità ad arresto obbligatorio, richiesto dalla medesima norma.

Di diverso avviso erano stati, invece, i giudici di primo e secondo grado, secondo la cui ricostruzione era ravvisabile un collegamento tra le notizie di reato, dato che nel corso delle indagini erano emerse esigenze di approfondimento della posizione degli indagati, risultanti anche dalle richieste di proroga delle operazioni in corso, che avevano portato alla luce fatti di indebita rivelazione di notizie segrete e di reati contro la pubblica amministrazione, coinvolgenti soggetti appartenenti alle Forze dell'Ordine. In ogni caso le varie operazioni di intercettazione avevano fornito lo spunto e la notitia criminis per l'accertamento degli ulteriori reati, approfonditi con l'autonoma attività di captazione.

La Corte di legittimità ha però osservato che i giudici di merito non avevano indicato un preciso collegamento tra i fatti per i quali erano state a mano a mano autorizzate e prorogate le operazioni di intercettazione e quelli per i quali, anche sulla base delle conversazioni intercettate, era stata confermata la condanna nel giudizio di appello. Il filone di indagine che era stato oggetto di approfondimento aveva riguardato, infatti, i rapporti tra un indagato e alcuni militari di una Stazione dei Carabinieri raggiunti da indizi di reità per il reato di corruzione, mentre non risultavano posti a fondamento dei decreti autorizzativi delle intercettazioni i reati di falso in atto pubblico addebitabili ai militari o di peculato connessi ad attività di indagine da loro svolta, svincolata da quella rete di relazioni.

In sostanza, secondo la suprema Corte, non era stato «posto in luce un collegamento oggettivo, inerente alla struttura dei fatti oggetto di verifica, probatorio, in relazione all'interdipendenza dei reati e all'influenza di taluno di essi sulla prova dell'altro, o finalistico, in relazione alla preordinazione di alcuni in funzione della commissione o dell'occultamento di altri, tra i reati per i quali sono state autorizzate le operazioni di intercettazione, rilevanti ai fini del decidere, e i reati per i quali è stata confermata la condanna» nei confronti di più imputati. I reati di peculato e falso, del resto, presentavano un collegamento meramente occasionale ed estrinseco con quelli posti a fondamento dei decreti autorizzativi (tanto è vero che era stato escluso anche il vincolo della continuazione con altri originariamente addebitati ad uno dei ricorrenti e poi dichiarati estinti per prescrizione in grado d'appello) e l'unico profilo di correlazione era rappresentato dall'imputabilità di più reati ad appartenenti alle Forze dell'Ordine, senza che peraltro fosse mai stata oggetto di indagine una totalizzante ipotesi associativa o l'operatività complessiva della Stazione dei Carabinieri. Detta analisi non è stata però reputata sufficiente per accogliere i motivi di ricorso che sono stati rimessi alle Sezioni Unite, in ragione del rilevante contrasto tra due opposti orientamenti interpretativi sul significato da attribuire alla nozione di diverso procedimento, da cui dipende l'applicabilità o meno del peculiare regime giuridico previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p.

Il contrasto giurisprudenziale. Le regole sui limiti e sui divieti di utilizzazione, contemplate nell'art. 270 c.p.p., costituiscono espressione del contemperamento dell'esigenza di repressione del crimine con quella volta alla tutela dei diritti di personalità, ex art. 2 Cost., e delle libertà fondamentali, di cui all'art. 15 Cost. proprio perché il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni disposte in altro procedimento costituisce la regola e l'utilizzabilità, ai sensi dell'art. 270, comma 1, c.p.p., rappresenta, invece, l'eccezione (Così Corte cost., 17 luglio 1998, n. 281, in Giust. pen., 1998, I, 353; parzialmente, negli stessi termini, cfr. Corte cost., 24 febbraio 1994, n. 63, in Foro it., 1994, I, 2355, secondo cui l'unico criterio per una corretta esegesi della norma è quello della “stretta interpretazione”, diretto a riconoscere un ambito di operatività il più limitato possibile).

La ratio del richiamato divieto probatorio risiede nella circostanza che la “libera” trasmigrazione probatoria delle risultanze dell'attività di captazione - fuori dai casi contemplati dall'art. 270 c.p.p. - comporterebbe senza dubbio alcuno la violazione della riserva di giurisdizione, prevista dall'art. 15 Cost., con riferimento all'intercettazione confluita nel procedimento ad quem, considerato che quest'ultima verrebbe utilizzata in assenza di qualsiasi controllo ad opera del giudice procedente. Difetterebbe, infatti, il controllo in merito alla sussistenza dei presupposti che legittimano il ricorso all'intercettazione stessa da parte del giudicante, e verrebbero utilizzati elementi di prova acquisiti aliunde, sulla base di un'attività di captazione autorizzata da altro giudice, in un contesto processuale e sostanziale totalmente distinto, in virtù di un decreto motivato su presupposti differenti.

Come rilevato anche dal Giudice rimettente, le criticità interpretative si sono manifestate con riguardo al significato da attribuire alla nozione di diverso procedimento, da cui dipende l'applicabilità o meno del regime di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p.; nell'opera di esegesi è centrale, dunque, comprenderne l'effettiva portata, non essendo agevole cogliere la latitudine applicativa della littera legis.

Ed in effetti la giurisprudenza e la dottrina, nel corso degli anni, hanno interpretato in modo contrastante la locuzione in disamina, non sempre applicando il principio di stretta interpretazione, la cui applicabilità è imposta dall'eccezionalità della disciplina prevista dall'art. 270, comma 1, c.p.p. in virtù del quale, in passato, la Corte costituzionale ha fatto salva detta norma da censure di incostituzionalità (così Corte cost., 24 febbraio1994, n. 63, cit.).

Come rilevato anche dal Giudice rimettente, si registra, in particolare, la compresenza di due diversi orientamenti, ciascuno suffragato da plurime conferme e fondati entrambi su presupposti di ordine sia semantico-letterale sia sistematico.

Un primo orientamento della suprema Corte, invero maggioritario, fa discendere l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni da una valutazione in concreto della connessione fra procedimenti sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico. Secondo detto filone giurisprudenziale, «la nozione di diverso procedimento, nel quale, ai sensi del primo comma dell'art. 270 c.p.p., è vietata l'utilizzazione dei risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza), non equivale a quello di “diverso reato” ed in esso non rientrano, pertanto, le indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto»; in altri termini il procedimento deve considerarsi diverso in relazione a fatti privi di qualsivoglia nesso con quelli oggetto dell'attività di captazione, quand'anche emersi nel corso e per effetto di essa (in questo senso Cass., Sez. III, 28 febbraio 2018, n. 28516, in CED, 273226; Cass., Sez. VI, 1 marzo 2016, n. 21740, in CED,266921; Cass., Sez. VI, 16 marzo 2004, Morelli, in Guida dir., 2004, 81; Cass., Sez. VI, 7 gennaio 1997, Pacini Battaglia, in Giust. pen., 1998, III, 221; negli stessi termini Cass., Sez. I, 17 novembre 1999, Toscano ed altri, in Mass. uff., 216206; Cass., Sez. III, 14 aprile 1998, Romagnolo ed altro, in CED, n. 210950; Cass., Sez. VI, 16 ottobre 1995, Pulvirenti, in Cass. pen., 1997, 1436; Cass., Sez. VI, 14 agosto 1998, Venturini ed altro, in Cass. pen., 2000, 701; Cass., Sez. VI, 10 maggio 1994, Rizzo, in CED, 199917).

Detto orientamento, condiviso in passato anche dalle Sezioni Unite della suprema Corte (Cass., Sez. U., 26 giugno 2014, n. 32697, in Cass. pen., 2016, 9, 3363), che si sono occupate seppure solo incidentalmente del tema in esame, fa assumere dunque al concetto di diversità del procedimento, per gli effetti che ne derivano sul piano della prova, rilievo di carattere sostanziale; tale concetto non può, quindi, essere ricollegato ad un dato di ordine meramente formale, quale il numero dell'iscrizione nell'apposito registro delle notizie di reato (di questo avviso sono: Cass., Sez. III, 25 ottobre 2017, n. 14007, inedita;Cass., Sez. II, 10 ottobre 2013, Costa, in CED, n. 258591; Cass., Sez. II, 5 luglio 2013, Bianco, in CED, n. 257834; Cass., Sez. VI, 15 novembre 2012, Filippi, in CED, n. 254285; Cass., Sez. VI, 2 dicembre 2009, Paviglianiti, in CED, n. 246524).

Il predetto dato non è, dunque, sufficiente per poter considerare come “diverso” un procedimento che è strettamente legato ad un altro per l'identità del contesto in cui sarebbero state poste in essere le condotte criminose.

In un'altra decisione, la suprema Corte ha comunque chiarito che il concetto di diverso procedimento, enucleabile dal divieto di utilizzazione previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p., non si estende fino ad escludere la possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti concernenti indagini strettamente connesse e collegate, sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto, ma va collegato - ove non si voglia neutralizzare quel divieto trasformandolo in un precetto facilmente eludibile - al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quelli fatti oggetto delle indagini relativi ad altro, differente, anche se connesso, procedimento (in questi esatti termini Cass., Sez. V, 29 settembre 2016, n. 3818, inedita; Cass., Sez. II, 1 aprile 2015, Vassallo, n. 10730, in CED, n. 263527; Cass., Sez. V, 5 febbraio 2014, n. 15652, in D&G, 2014, 11 aprile, e Cass, Sez. II, 11 dicembre 2012 n. 49930, in CED, n. 253916).

Da ciò consegue che: si deve valorizzare la concreta verifica della medesimezza del fatto storico; si deve dare rilevanza allo stretto collegamento tra le notizie di reato ed al filone di indagine, e che, al di là della separazione formale, deve escludersi l'applicabilità dell'art. 270, comma 1, c.p.p. con riguardo a reati strettamente riconducibili al medesimo contesto associativo (così di recente Cass., Sez. III, 28 febbraio 2018, M., n. 28516, in CED, 273226).

In altra pronuncia il Supremo Consesso ha, altresì, precisato che i risultati dell'intercettazione possono essere utilizzati in un diverso procedimento solo quando tra le notitiae criminis sussista (anche alternativamente) un nesso oggettivo derivante dalla connessione ex art. 12, lettera a) e b) c.p.p., un nesso finalistico di cui all'art. 12 lett. c) e 371, comma 2, lett. b), prima parte del codice di rito, o un collegamento investigativo ex art. 371 bis c.p.p., con l'eccezione del collegamento probatorio rilevante ai (soli) fini dell'art. 371, comma 2 lett. c) c.p.p., ossia quando la prova di diversi reati derivi dalle risultanze delle stesse intercettazioni (di questo avviso, ex plurimis, Cass., Sez. III, 24 aprile 2018, n. 29856, in CED, 275389; Cass., Sez. III, 5 novembre 2015, n. 2608, P.M. in proc. c/ P.A.).

Nel solco tracciato dall'indirizzo de quo non sono mancate le pronunce secondo cui ciò che rileva non è tanto il fatto che vengano in rilievo più reati aventi la medesima qualificazione, quanto che «il procedimento costituisca approfondimento e sviluppo, sul piano oggettivo, probatorio e finalistico, del medesimo filone, in termini di concatenazione inferenziale tra i risultati a mano a mano acquisiti, secondo un canone di raccordo di natura eminentemente sostanziale, dovendosi aver riguardo non alla diversità dei reati ma al contenuto della notizia di reato e alla sua potenzialità espansiva» (Così Cass., Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 17698, S., non massimata)

Si è parimenti affermato il divieto di utilizzabilità - che colpisce l'idoneità della prova a produrre risultati conoscitivi valutabili dal giudice nella formazione del suo libero convincimento - anche quando si è in presenza di un'unità formale del procedimento in seno al quale, in realtà, convivano procedimenti tra loro privi di collegamento reale.

Tutte le sentenze riconducibili al predetto orientamento giurisprudenziale, seppure muovano da due prospettive differenti, nel ravvisare la diversità dei procedimenti nonostante l'almeno originaria identità formale o, per contro, nell'escluderla nonostante la separazione formale dei medesimi, hanno come minimo comune denominatore il fatto di privilegiare la nozione sostanziale, incentrata essenzialmente sulla stretta correlazione strutturale ed investigativa.

Secondo la corrente giurisprudenziale de qua, come rilevato anche dal Giudice rimettente,tale impostazione non collide con la cogente direttiva - desumibile dalle richiamate pronunce della Corte costituzionale - di evitare autorizzazioni in bianco «in quanto alla base della valutazione resta il profilo sostanziale della concreta correlazione della notizia di reato originaria ai reati che l'indagine e i risultati delle captazioni hanno consentito di acquisire in termini di derivazione conseguenziale dal nucleo di partenza».

È ben vero, si badi, che la connessione delle indagini deve risultare in maniera piena e concreta; a questo proposito, infatti, la Corte di cassazione ha precisato che «come la separazione formale dei procedimenti non può inibire la ravvisabilità di un loro collegamento sostanziale ai fini di escludere la diversità oggetto della disciplina limitativa di cui all'art. 270 c.p.p., così, per converso, la formale unità degli stessi non può fare da paravento per l'applicabilità di tale disciplina laddove, sotto un unico numero di R.G., convivano in realtà procedimenti tra di loro privi di collegamento reale» (Così Cass., Sez. VI, 1 febbraio 2007, A.G. ed altri, n. 17635, inedita).

Un secondo orientamento giurisprudenziale considera, invece, i risultati dell'attività di captazione, disposta legittimamente per uno dei reati indicati nell'art. 266 c.p.p., utilizzabili ai fini della decisione di tutti i reati relativi al medesimo procedimento; ciò sul presupposto che l'art. 271 c.p.p. vieta l'utilizzabilità delle intercettazioni disposte fuori dai casi consentiti dalla legge, mentre l'applicabilità dell'art. 270 c.p.p. (cioè il divieto di utilizzazione in procedimento diverso dei predetti risultati, fuori dai casi in cui gli stessi non risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza) è limitata all'ipotesi in cui il procedimento sia diverso ab origine.

Quest'ultimo filone ermeneutico, come precisato anche nell'ordinanza di rimessione della questione in esame alle Sezioni Unite, considera «paradossale prospettare una radicale inutilizzabilità con riferimento ad ulteriori reati interni al procedimento, pure nei casi in cui gli esiti sarebbero utilizzabili in un diverso procedimento ai sensi dell'art. 270 c.p.p.».

Privilegiando il dato della diversità ab origine di più procedimenti, che renderebbe applicabile il regime giuridico di cui all'art. 270 c.p.p., si è peraltro sostenuta l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni anche quando il procedimento penale, inizialmente unitario, «sia stato successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati» (in questo senso cfr. Cass., Sez. VI, 21 febbraio 2018, n. 19496, in CED, 273277; Cass., Sez. VI, 26 aprile 2017, n. 31984, in CED, 270431; Cass., Sez. II, 23 febbraio 2016, n. 9500, in CED, 267784; Cass., Sez. IV, 8 aprile 2015, n. 29907, in CED, 264382; Cass., Sez. VI, 16 dicembre 2014, n. 6702, in CED, 262496; Cass., Sez. VI, 4 novembre 2014, n. 53418, in CED, 261838. Si vedano anche: Cass., Sez. V, 9 febbraio 2018, n. 15288, in CED, 272852, riferite a reato la cui sussistenza emerga dalle intercettazioni autorizzate, ancorchè sia stata poi disposta separazione; Cass., Sez. VI, 25 novembre 2015 n. 50261, in CED, 265757, riferita all'emergenza di reato del tutto svincolato dal provvedimento autorizzativo e Cass., Sez. VI, 15 luglio 2015, n. 41317, in CED, 265004, riferita all'utilizzazione di esiti di intercettazioni autorizzate per un fatto concussivo con riguardo ad una concussione commessa da uno solo degli imputati, in altro periodo, in altro luogo e in danno di altro soggetto).

All'interno di questa corrente giurisprudenziale si registrano, peraltro, due diversi orientamenti in ordine al tema dei presupposti per l'utilizzabilità degli esiti captativi in relazione agli ulteriori reati emersi. Alcune pronunce, infatti, considerano utilizzabili i risultati dell'intercettazione per tutti i reati, anche se per alcuni di essi le operazioni di intercettazione non sarebbero autorizzabili (di questo avviso Cass., Sez. VI, 21 febbraio 2018, n. 19496, in CED, 273277 e Cass., Sez. F., 23 agosto 2016, n. 35536, in CED, n. 267598); altri invece ancorano tale utilizzabilità alla circostanza che, anche con riferimento agli ulteriori reati emersi, il controllo avrebbe potuto essere disposto autonomamente ex art. 266 c.p.p. (in questo senso Cass., Sez. VI, 17 giugno 2015, n. 27820, in CED, 264087 e Cass., Sez. II, 19 dicembre 2015, n. 1924, in CED, 265989).

A giudizio della Sezione rimettente, nella risoluzione del caso di specie, la soluzione del contrasto interpretativo assume decisiva rilevanza, considerato che, come precisato nell'ordinanza di rimessione, «sulla base dell'analisi in precedenza condotta alla luce dei provvedimenti autorizzativi, deve escludersi un collegamento strutturale e investigativo, avuto riguardo all'estemporaneità e occasionalità del reato di peculato […], fermo restando che da un lato ricorrono i limiti di pena per un'autonoma attività di intercettazione ai sensi dell'art. 266 c.p.p., ma dall'altro non ricorre il requisito della sottoponibilità ad arresto obbligatorio, richiesto dall'art. 270, comma 1, c.p.p.».

Guida all'approfondimento.

A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996; M.S. CHELO, Intercettazioni telefoniche e divieto di utilizzabilità: quale significato alla nozione di diverso procedimento, in Dir. pen. e proc., 2015, 11, 1418 ss.; ID., Il procedimento “diverso” ex art. 270 c.p.p. ovvero la portata del divieto di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche”, in IlPenalista, 17 marzo 2016; G. DIOTALLEVI, Le condizioni di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche realizzate in un diverso procedimento: le Sezioni Unite valorizzano un'interpretazioni “responsabile” delle norme processuali, nota a Cass., Sez. Un., 17 novembre 2004, n. 45189, P.M. in proc. Esposito, in Cass. pen., 2005, 2294; L. FILIPPI, L'intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997; ID., Le Sezioni Unite contraddicono la Consulta (e accentuano il monopolio del p.m. in materia di intercettazioni), in Dir. pen. e proc., 2005, 5, 565; N. GALANTINI, L'inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, D. LA MUSCATELLA, La Suprema Corte ritorna sull'utilizzabilità delle intercettazioni: il presupposto della diversità dei procedimenti va verificato su un piano sostanziale, nota a Cass., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 33598, in Dir. & Giust., 2015, 30, 146.

2.

Con ordinanza emessa all'udienza del 13 febbraio 2019, la sesta Sezione Penale della suprema Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la risoluzione dell'ormai annoso contrasto giurisprudenziale sull'effettivo significato da attribuire alla nozione di diverso procedimento, essendo rilevante stabilire se la nozione di diverso procedimento debba essere intesa solo in relazione a procedimenti ab origine distinti o se, alla luce dell'orientamento giurisprudenziale che fa leva sulla nozione sostanziale di diverso procedimento, il collegamento strutturale e investigativo tra i reati deve invece ritenersi necessario anche nel caso di procedimento ab origine unitario.

Al supremo Consesso nella sua massima composizione è stato chiesto di rispondere al seguente quesito:

«se a seguito di autorizzazione allo svolgimento di operazioni di intercettazione per uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., le conversazioni intercettate siano comunque utilizzabili per tutti i reati oggetto del procedimento e se dunque la nozione di “diverso procedimento” di cui all'art. 270 c.p.p. sia applicabile solo nel caso di procedimento “ab origine” diverso e non anche nel caso di reato basato su notizia di reato emergente dalle stesse operazioni di intercettazione, ma priva di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con il reato o i reati per i quali le intercettazioni sono state autorizzate».

3.

Il primo Presidente della Corte di Cassazione ha fissato per il 24 ottobre 2019 l'udienza davanti alle Sezioni Unite, l'udienza per la discussione della questione controversa:

«se a seguito di autorizzazione allo svolgimento di operazioni di intercettazione per uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., le conversazioni intercettate siano comunque utilizzabili per tutti i reati oggetto del procedimento e se dunque la nozione di “diverso procedimento” di cui all'art. 270 c.p.p. sia applicabile solo nel caso di procedimento “ab origine” diverso e non anche nel caso di reato basato su notizia di reato emergente dalle stesse operazioni di intercettazione, ma priva di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con il reato o i reati per i quali le intercettazioni sono state autorizzate».

Il presente lavoro è frutto di una ricerca dal titolo “L'inutilizzabilità della prova nel processo penale”, finanziata dalla Fondazione Banco di Sardegna.

4.

Le Sezioni Unite della Cassazione penale chiamate a pronunciarsi sulla questione controversa in giurisprudenza «se a seguito di autorizzazione allo svolgimento di operazioni di intercettazione per uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., le conversazioni intercettate siano comunque utilizzabili per tutti i reati oggetto del procedimento e se dunque la nozione di “diverso procedimento” di cui all'art. 270 c.p.p. sia applicabile solo nel caso di procedimento “ab origine” diverso e non anche nel caso di reato basato su notizia di reato emergente dalle stesse operazioni di intercettazione, ma priva di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con il reato o i reati per i quali le intercettazioni sono state autorizzate»,

hanno affermato il seguente principio di diritto:

Il divieto di cui all'art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni - salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza - non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, semprechè rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge.

5.

Con la sentenza del 28 novembre 2019, depositata in data 2 gennaio 2020, le Sezioni Unite hanno scelto la via garantista, offrendo un'esegesi costituzionalmente orientata dell'art. 270 c.p.p. che fa buon governo dei principi contenuti nell'art. 15 Cost., il quale sancisce l'inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, prevedendo che la stessa possa essere limitata solo per atto motivato dell'autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge.

Il divieto di utilizzabilità delle intercettazioni in procedimento diverso subisce una deroga limitatamente all'accertamento dei reati di maggiore gravità, per i quali è consentito l'arresto obbligatorio in flagranza; eccettuata detta ipotesi - ritenuta costituzionalmente legittima dalla Consulta - la latitudine applicativa della norma di cui all'art. 270 c.p.p., secondo quanto stabilito dal supremo Consesso nella sua massima composizione, deve essere circoscritta all'ipotesi in cui i reati risultino connessi ai sensi dell'art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempre che rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge.

Diversamente opinando, l'intervento giudiziale che legittima l'utilizzo delle intercettazioni in un procedimento diverso da quello nel quale è stato disposto detto mezzo di ricerca della prova non potrebbe che considerarsi un'inammissibile “autorizzazione in bianco”, in totale spregio dei richiamati principi di libertà e segretezza delle comunicazioni e del connesso diritto di riservatezza incombente su tutti i soggetti che ne siano venuti a conoscenza per ragioni di ufficio. La funzione di controllo e di garanzia riservata al Giudice nella disciplina codicistica in materia di intercettazioni di comunicazioni e, in particolare nello stesso art. 270 c.p.p., conferma del resto che, di regola, l'utilizzazione probatoria dei risultati dell'attività di captazione è vietata per i reati che non possono ricondursi all'autorizzazione dell'autorità giudiziaria.

La decisione de qua si pone, dunque, nel solco del quadro costituzionale di riferimento, che ha orientato le Sezioni Unite nello scrutinio della questione oggetto dell'ordinanza di rimessione e nella disamina dei vari orientamenti espressi nel corso degli anni dalla giurisprudenza di legittimità - spesso diametralmente opposti - che hanno contribuito a rendere controversa la nozione di “diverso procedimento”, da cui dipende l'applicabilità o meno del peculiare regime previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p.

Non può tacersi che il proliferare di tanti orientamenti con approdi ermeneutici anche distanti tra loro è dovuto, senza dubbio, alla pluralità semantica del termine “procedimento”, a volte inteso addirittura come sinonimo di “reato”.

Fermo restando che i limiti di ammissibilità individuati per le intercettazioni ordinarie dall'art. 266 c.p.p. devono essere necessariamente rispettati anche con riferimento al reato accertato sulla base dell'intercettazione autorizzata in relazione ad un altro specifico reato, le Sezioni Unite hanno dunque ritenuto meritevole di seguito, seppure con alcune doverose puntualizzazioni in appresso meglio descritte, l'orientamento maggioritario della suprema Corte, che fa discendere l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni da una valutazione in concreto della connessione fra procedimenti sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico.

Secondo detto indirizzo interpretativo, in altri termini, il procedimento deve considerarsi diverso in relazione a fatti privi di qualsivoglia nesso con quelli oggetto dell'attività di captazione, quand'anche emersi nel corso e per effetto di essa (in questo senso Cass., Sez. III, 28 febbraio 2018, n. 28516, in CED, 273226; Cass., Sez. VI, 1 marzo 2016, n. 21740, in CED,266921; Cass., Sez. VI, 16 marzo 2004, Morelli, in Guida dir., 2004, 81; Cass., Sez. VI, 7 gennaio 1997, Pacini Battaglia, in Giust. pen., 1998, III, 221; negli stessi termini Cass., Sez. I, 17 novembre 1999, Toscano ed altri, in Mass. uff., 216206; Cass., Sez. III, 14 aprile 1998, Romagnolo ed altro, in CED, n. 210950; Cass., Sez. VI, 16 ottobre 1995, Pulvirenti, in Cass. pen., 1997, 1436; Cass., Sez. VI, 14 agosto 1998, Venturini ed altro, in Cass. pen., 2000, 701; Cass., Sez. VI, 10 maggio 1994, Rizzo, in CED, 199917). L'orientamento de quo postula, peraltro, che la nozione di procedimento diverso non possa essere ricollegata ad un dato di ordine meramente formale, come il numero dell'iscrizione nell'apposito registro delle notizie di reato (di questo avviso sono: Cass., Sez. III, 25 ottobre 2017, n. 14007, inedita;Cass., Sez. II, 10 ottobre 2013, Costa, in CED, n. 258591; Cass., Sez. II, 5 luglio 2013, Bianco, in CED, n. 257834; Cass., Sez. VI, 15 novembre 2012, Filippi, in CED, n. 254285; Cass., Sez. VI, 2 dicembre 2009, Paviglianiti, in CED, n. 246524), essendo decisivo il riferimento al contenuto della notitia criminis, ossia al fatto reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono l'attività investigativa necessaria per l'assunzione delle determinazioni inerenti l'esercizio dell'azione penale.

Il Supremo Consesso nella sua massima composizione, sempre nell'ottica di salvaguardare l'art. 15 Cost. e rifuggire da pericolose “autorizzazioni in bianco”, con la sentenza in chiosa ha chiarito anche quale debba essere il “legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale l'attività di captazione è stata autorizzata e quello emerso grazie ai risultati dell'intercettazione; questo legame, invero, non è mai stato indicato in maniera univoca dall'indirizzo giurisprudenziale de quo. In seno al predetto, infatti, alcune pronunce hanno valorizzato la connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico tra il contenuto dell'originaria notitia criminis in relazione alla quale è stata disposta e autorizzata l'attività intercettativa ed i reati emersi all'esito della stessa; altre pronunce, seppure in termini pressoché sovrapponibili, hanno invece valorizzato la sussistenza tra fatti-reato pur storicamente differenti, di ipotesi di connessione di cui all'art. 12 c.p.p. o, comunque, di collegamento investigativo, ai sensi dell'art. 371, comma 2, lett. b) e c) c.p.p. sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico.

Orbene, secondo le Sezioni Unite l'unico criterio che merita di essere considerato al fine di individuare un legame originario e sostanziale tra i reati, con conseguente utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali l'attività di captazione è stata disposta e autorizzata, è quello relativo alla connessione disciplinata dall'art. 12 del codice di rito.

Ed effettivamente la connessione processuale si rivela essere un riflesso della connessione sostanziale, peraltro indipendente dalla vicenda procedimentale; basti pensare che la connessione teleologica di cui all'art. 12, lett. c), c.p.p. (cioè «se dei reati per i quali si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri») si fonda su un «legame oggettivo tra due o più reati», come ricordato da ultimo da Cass., Sez. U, 26 ottobre 2017, n. 53390, in CED 271223). Altrettanto deve dirsi per la connessione monosoggettiva di cui all'art. 12, lett. b), c.p.p. - cioè le ipotesi di concorso formale e di reato continuato - che postulano necessariamente una connessione sostanziale, dovendosi l'autore del fatto reato, al momento della commissione del primo reato della serie, programmare i successivi almeno nelle linee essenziali. Nondimeno, anche nella connessione plurisoggettiva di cui alla lett. a) dell'art. 12 c.p.p. - ipotesi in cui i procedimenti sono connessi «se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento» - la regiudicanda oggetto di uno dei procedimenti coincide, anche in parte, con quella oggetto degli altri.

Questo stretto legame sostanziale, prima che processuale, tra i diversi fatti reato consente di non considerare “diverso” il procedimento relativo al reato accertato in virtù dei risultati dell'attività di captazione rispetto a quello nel quale detta attività è stata disposta e autorizzata e scongiura pertanto il rischio che l'autorizzazione giudiziale possa assumere la fisionomia di un'“autorizzazione in bianco”.

E in effetti il merito della decisione in disamina non è stato solo quello di aver chiarito la portata ed il significato della nozione di procedimento “diverso” - valida al fine di comprendere la portata del divieto di cui all'art. 270 c.p.p. - ma è stato quello di ampliare la sfera di detto divieto, nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie di libertà sancite in primis dalla Costituzione.

Proprio in ossequio a questi stessi principi, le Sezioni Unite, al di fuori delle ipotesi di connessione, hanno ritenuto di dover considerare “diverso”, con conseguente inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche disposte aliunde, il procedimento avvinto dal collegamento investigativo di cui all'art. 371, comma 2, c.p.p.

Detta considerazione è pienamente condivisibile, a giudizio di chi scrive, atteso che il collegamento a fini investigativi disciplinato dalla richiamata disposizione codicistica non presuppone la sussistenza del necessario legame originario e sostanziale tra i reati oggetto di indagine che, come detto, consente di ricondurre all'originaria autorizzazione anche il reato oggetto del procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 del codice di rito penale.

L'assunto de quo trova sicura conferma con riferimento alla prima ipotesi di collegamento tra indagini di cui alla lett. b) del comma 2, c.p.p., cioè «se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità». E' evidente, infatti, che in siffatte ipotesi non può individuarsi una relazione sostanziale tra il reato in riferimento al quale è stata emessa l'autorizzazione all'attività di captazione e quello messo in luce dalle comunicazioni intercettate, sussistendo unicamente relazioni tra le conseguenze del primo ed il secondo reato, ovvero, come efficacemente evidenziato dalle Sezioni Unite, «relazioni che si risolvono in una mera “occasionalità” tra la commissione dell'uno e dell'altro». Trattasi, in altri termini, di relazioni “deboli” che, secondo il supremo Consesso nella sua massima composizione, non danno corpo «a quel “legame oggettivo” tra i reati necessario per assicurare la riconducibilità del “nuovo” reato all'autorizzazione giudiziale, così da non eludere la garanzia costituzionale della motivazione del provvedimento autorizzativo».

Queste considerazioni valgono, a maggior ragione, con riferimento all'ulteriore ipotesi contemplata dalla lett. b) dell'art. 371, comma 2, c.p.p., secondo cui le indagini sono collegate «se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza», essendo detta fattispecie un'ipotesi di collegamento investigativo introdotta nel codice di rito con la sola ratio di garantire un'efficace conduzione dell'attività di indagine.

Con precipuo riferimento, invece, all'ipotesi di cui all'art. 371, comma 2, lett. c) c.p.p. - cioè all'ipotesi di indagini collegate «se la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte» - deve certamente riconoscersi alla sentenza in commento il pregio di aver evidenziato che si approderebbe ad una elusione certa del divieto di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p. qualora, considerandosi sempre e comunque come “stessa fonte” l'intercettazione eseguita in un procedimento, i risultati della stessa fossero utilizzati indiscriminatamente in diversi procedimenti. Non può tacersi, in merito, che ciò è quanto accaduto per decenni nella prassi giudiziaria, in cui, valorizzando il criterio dell'identità del “filone investigativo” e puntando l'accento sulla «concatenazione inferenziale tra i risultati a mano a mano acquisiti», si sono utilizzati i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi, unicamente in ragione del collegamento probatorio tra il reato per il quale l'attività era stata disposta ed il reato accertato grazie alla medesima attività. E ciò nonostante non vi fosse tra i due reati un legame originario e sostanziale necessario a ricondurre il secondo al provvedimento autorizzativo dell'attività di captazione.

L'auspicio è dunque che la pronuncia delle Sezioni Unite sgombri il campo da ogni dubbio interpretativo e ponga fine a dette prassi, che mal si conciliano con i richiamati principi costituzionali.

Ferma restando l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, quindi, per le Sezioni Unite non possono considerarsi diversi - con conseguente utilizzabilità aliunde dei risultati dell'attività di captazione - solo i procedimenti per reati accertati in base alle intercettazioni disposte ab origine in altro procedimento, se connessi ai sensi dell'art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali la predetta attività era stata autorizzata, e sempre che vengano rispettati i limiti di ammissibilità previsti dalla legge. Da quest'ultimo inciso - certamente eccentrico rispetto al thema decidendum - consegue che i risultati delle intercettazioni non possano essere utilizzati per i reati estranei all'elencazione di cui all'art. 266 c.p.p. il quale, come è noto, prevede un catalogo tassativo di fattispecie criminose per cui è ammesso il ricorso all'attività di captazione.

Pur avendo aderito all'impostazione del primo maggioritario orientamento giurisprudenziale in materia - con le doverose puntualizzazioni sopra meglio evidenziate - la decisione in disamina ha anche dato conto di un terzo orientamento, più risalente nel tempo e ben più restrittivo, che non consentiva in nessun caso - e neppure in presenza di ipotesi di connessione o collegamenti tra procedimenti - l'utilizzazione probatoria in procedimenti diversi dei risultati dell'attività di captazione. Contrapponendosi al primo orientamento detto filone giurisprudenziale muoveva, infatti, dalla nozione di “diverso procedimento” collegata «al dato dell'alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quelli fatti oggetto delle indagini relativi ad altro, anche se connesso, procedimento» e considerava elusivo del divieto contenuto nell'art. 270 c.p.p. ricomprendere in detta nozione la connessione o collegamento dei procedimenti (in questi termini Cass., Sez. II, 11 dicembre 2012, Perri, in CED 253916 eCass., Sez. IV, 11 dicembre 2008, Mucciarone, in CED 242836).

Detto indirizzo, però, non è apparso convincente, poiché fondato sull'equazione procedimento uguale reato, e atteso che considerando, a torto, sinonimi i due termini, si allontanava soprattutto dalla disciplina positiva, che, come è noto, richiede quali condizioni di applicabilità dell'intercettazione telefonica “ordinaria” i gravi indizi di reato e non di colpevolezza. Sposare questo indirizzo interpretativo significherebbe infatti considerare “diverso procedimento” quello iscritto nel registro delle notizie di reato nei confronti di una persona nota per un certo reato, a seguito delle intercettazioni disposte in un procedimento contro ignoti per quello stesso fatto reato. Come sottolineato dalle Sezioni Unite, a ciò conseguirebbe un evidente disallineamento con la disciplina codicistica, considerato peraltro che «sarebbe all'evidenza irrazionale una disciplina che consentisse il ricorso all'intercettazione in un procedimento contro ignoti e ne precludesse poi l'utilizzabilità nei confronti dell'autore del reato scoperto grazie all'intercettazione stessa».

Nella decisione in disamina le Sezioni Unite hanno del tutto correttamente stigmatizzato anche il secondo orientamento sposato negli anni da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ricollegava la diversità del procedimento «a dati meramente formali, quali la materiale distinzione degli incartamenti relativi a due procedimenti o il loro diverso numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato». Detto orientamento, infatti, si pone in netta antitesi con una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 270 c.p.p. - che, si ribadisce, ha guidato il supremo Consesso nella risoluzione dell'annoso contrasto interpretativo.

Per i sostenitori dell'indirizzo in esame, invero, il procedimento funge da «contenitore dell'attività di indagine», con la conseguenza che i risultati di un'attività di captazione disposta all'interno di un procedimento per uno dei reati inclusi nell'elencazione di cui all'art. 266 c.p.p. possono essere utilizzati «anche per tutti gli altri reati trattati nel medesimo procedimento, senza condizione alcuna» (Cass., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 33598, in Dir. & Giust., 2015, 30, 146).

Emerge ictu oculi che l'adesione a quest'ultima linea interpretativa presta il fianco a censure di incompatibilità con i principi costituzionali che governano la delicata materia della libertà delle comunicazioni, poiché elude surrettiziamente la portata dell'art. 15 Cost., che investe non solo l'impiego del mezzo di ricerca della prova, ma anche l'utilizzazione probatoria dei risultati dell'intercettazione. Come giustamente osservato dalle Sezioni Unite nella sentenza in chiosa, «ritenere, sulla scorta del secondo orientamento, utilizzabili i risultati dell'intercettazione disposta per uno dei reati di cui all'art. 266 cod. proc. pen. anche per gli altri reati di cui è emersa la conoscenza grazie all'intercettazione stessa e ciò indipendentemente da qualsiasi legame sostanziale tra il primo e i secondi significherebbe imprimere all'autorizzazione del giudice quella connotazione di “autorizzazione in bianco” messa al bando dalla giurisprudenza costituzionale». E ciò senza dire che ancorare la portata del divieto probatorio di cui all'art. 270 c.p.p. a fattori relativi alla sede procedimentale del tutto casuali (iscrizione nel registro delle notizie di reato unitaria o separata) o comunque dipendenti dalle scelte investigative del pubblico ministero, oltre che svuotare di effettività non solo l'autorizzazione giudiziale, ma anche il divieto probatorio disciplinato dalla norma testé richiamata, favorirebbe l'inaccettabile violazione del principio di uguaglianza consacrato nell'art. 3 Cost., in quanto situazioni sostanzialmente identiche potrebbero essere disciplinate in modo ingiustificatamente diverso.

Resta ferma, come è noto, la possibilità di «dedurre “notizie di reato” dalle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di altro procedimento» (Corte cost., 23 luglio 1991, n. 366, in Cass. pen. 1991, 914), nonché di utilizzare nel processo penale la conversazione intercettata che costituisca corpo di reato, come già chiarito in altra decisione dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass., Sez. U., 26 giugno 2014, n. 32697, in Cass. pen., 2016, 9, 3363).

Il presente lavoro è frutto di una ricerca dal titolo “L'Inutilizzabilità della prova nel processo penale”, finanziata dalla Fondazione Banco di Sardegna.