Il test del DNA: prova regina o semplicemente comune elemento di prova?
14 Gennaio 2016
Abstract
L'analisi del DNA e in generale la biologia forense ha ormai assunto un ruolo fondamentale tra le scienze forensi, diventando uno strumento indispensabile per la risoluzione di casi giudiziari. L'evolversi delle tecniche di esame ha cambiato l'approccio analitico della biologia nei diversi ambiti di ricerca, così anche nell'ambito forense, e, sebbene di recente sviluppo, riserva interessanti prospettive nel settore. Basti pensare che già si sta studiando il metodo per avere informazioni fondamentali, quali colore dei capelli, colore degli occhi ed etnia dell'autore del reato, analizzando una sola e infinitesimale traccia biologica. Tecnologia del DNA fingerprinting: aspetti generali
Il DNA (acido desossiribonucleico) è presente in quasi tutte le cellule umane: in ciascuna cellula è presente il DNA nucleare (all'interno del nucleo) e, in migliaia di copie, il DNA mitocondriale, all'interno di alcuni organelli citoplasmatici chiamati mitocondri. In entrambi i casi è il depositario dell'informazione genetica e, pertanto, delle caratteristiche ereditarie; la sua composizione molecolare si conserva immutata dalla nascita fin oltre la morte dell'individuo. Il materiale genetico nucleare è costituito da una sequenza lineare di oltre tre miliardi di coppie di basi frazionate in 46 cromosomi; esso è estremamente variabile essendo il prodotto ultimo della fusione di 23 cromosomi di origine paterna con 23 cromosomi di origine materna (gameti sessuali). Quello mitocondriale, invece, è circolare e notevolmente più corto (16.569 coppie di basi) ed è quasi esclusivamente di derivazione materna e pertanto non presenta variabilità all'interno di gruppi familiari tra coloro che hanno in comune la linea materna. Nel campo delle indagini biologiche forensi viene privilegiata l'analisi del DNA nucleare, poiché consente di identificare il singolo individuo. Ogni individuo possiede infatti una propria identità molecolare che lo contraddistingue e rende unico, come avviene per le impronte digitali. Basta pertanto esaminare un certo numero di tratti polimorfici del DNA nucleare (loci o regioni) per ottenere un codice personale identificativo unico. Le regioni polimorfiche che attualmente vengono esaminate, grazie alla tecnica della P.C.R. (reazione polimerasica a catena), sono denominate microsatelliti o S.T.R. (short tandem repeat). Il risultato delle indagini, estese ad un congruo numero di loci genici (abitualmente 15 oltre alla regione del sesso), è un profilo polimorfo estremamente utile per la diagnosi di identità e di paternità/maternità. Più alto è il numero delle regioni esaminate e minore sarà la probabilità che detto profilo possa essere condiviso da altre persone. Per essere più chiari, se ad esempio si analizzano tre regioni S.T.R. di due soggetti provenienti dalla stessa area geografica, potrebbe succedere che siano identiche per entrambi, anche se i due individui non hanno legami di parentela tra loro. Se però si aumentano le regioni in esame, sarà impossibile che due soggetti abbiano regioni identiche. Così anche dei fratelli, che ricevono il proprio patrimonio genetico dagli stessi genitori, avranno molte regioni uguali ma sarà comunque possibile distinguerli, perché alcune regioni presenteranno differenze che li renderanno individui unici. Ciò tuttavia non avviene per i gemelli omozigoti, poiché ricevono lo stesso patrimonio genetico, hanno pertanto gli stessi polimorfismi e sono indistinguibili. L'utilizzazione a scopo giudiziario di queste metodologie analitiche è stata proposta ed eseguita già nel 1985 ad opera dei laboratori centralizzati di polizia scientifica del Ministero dell'Interno Britannico. Da allora, metodi sempre più rispondenti alle marcate esigenze di prova giudiziaria sono stati proposti dalla comunità scientifica ed applicati nelle aule di giustizia. L'ulteriore affinamento delle tecniche, l'estrema sensibilità dei protocolli di analisi e, dato importantissimo, la riproducibilità dei dati genetici, hanno fatto sì che tale strumento investigativo soppiantasse del tutto le tradizionali indagini biologiche di laboratorio, quali quelle sui gruppi sanguigni, divenendo un elemento fondamentale, e talora insostituibile, per la risoluzione di delicatissimi casi giudiziari. È nato così il termine di DNA fingerprinting per indicare la possibilità di identificare la persona attraverso lo studio del patrimonio genetico come se si trattasse dell'impronta digitale. Oggi, tuttavia, si preferisce parlare di DNA profiling, anche se rimane molto suggestiva la denominazione iniziale. La ricerca e la raccolta delle tracce biologiche
Le prime fasi di un accertamento biologico sono sicuramente l'ispezione dei reperti, l'individuazione e il repertamento di tracce biologiche. Tali fasi sono fondamentali per la buona riuscita di ogni successiva analisi di laboratorio. Le tracce da cui è possibile estrarre il DNA sono molteplici: tutti i fluidi biologici (sangue, saliva, liquido seminale, urina e sudore) nonché i tessuti (epidermide), ossa e denti. I reperti che possono essere utili per l'analisi del DNA sono i più disparati: dal mozzicone di sigaretta, a bicchieri e tazzine, indumenti, cibo morsicato, occhiali, cappelli o passamontagna, tutto ciò che sia potenzialmente venuto a contatto con un soggetto, qualsiasi cosa cioè che possa veicolare cellule biologiche. Anche le impronte digitali, se non utilizzabili per il confronto dattiloscopico, possono essere asportate e sottoposte all'analisi del DNA. Discorso a parte va necessariamente fatto per i capelli o le strutture pilifere in genere. Essi infatti sono costituiti da matrice cheratinica, che non presenta cellule nucleate e da cui pertanto non è possibile estrarre il DNA nucleare. È dalla radice del capello che invece è possibile isolare il profilo genetico, poiché tale area presenta cellule con nucleo. È poi necessario distinguere tra tracce biologiche visibili e quelle latenti. Le tracce biologiche visibili, quali sperma, urina e sangue, in quanto tali, sono facilmente individuabili. Le tracce latenti, quali sangue lavato, sperma in esigue quantità, sudore e saliva non sono tracce ben visibil ma possono essere messe in risalto attraverso metodiche sia chimiche che fisiche, a seconda della natura del fluido biologico da ricercare. Il metodo fisico è rappresentato dall'utilizzo di lampade forensi, che usano lunghezze d'onda particolari, non visibili ad occhio nudo ma che consentono in generale di verificare la presenza della maggior parte dei fluidi biologici. Infatti sudore, saliva, urina e soprattutto sperma hanno una luminescenza naturale, propria e caratterizzante, che consente di individuarli facilmente. Il sangue, invece, non è un fluido biologico luminescente ma può comunque essere individuato, soprattutto su superfici scure, scorrendo tra le diverse lunghezze d'onda, poiché la traccia rimarrà comunque scura rispetto al substrato circostante. In alternativa, un metodo chimico ampiamente utilizzato per le tracce ematiche latenti è il metodo del Luminol che altro non è che un liquido che funge da reattivo per una reazione di perossidasi tra lo stesso Luminol il gruppo ferroso dell'emoglobina, presente abbondantemente nel sangue. È necessario però precisare che tale reagente non è specifico per le tracce di sangue umano ma reagisce anche con sangue animale, ruggine e vegetali. Pertanto è fondamentale e importante l'esperienza dell'operatore nel valutare che tipo di reattività si presenta. Altri metodi chimici per verificare e stabilire la natura delle tracce sono costituiti dalle diagnosi generiche, di cui si parlerà in seguito. La seconda fase dopo aver individuato le tracce biologiche è il repertamento delle stesse. Tale operazione va effettuata tenendo conto della tipologia di traccia che si sta repertando. Poniamo ad esempio il sangue, esso potrà essere ritrovato in forma liquida, semisolida e solida (sangue essiccato o coagulato). Si potrà scegliere, se ciò è possibile, di asportare l'intero oggetto su cui è presente il sangue (ad esempio un coltello o un oggetto) oppure di prelevarlo con dei tamponi o con della carta bibula, se si presenta su superfici inamovibili (pavimento, manto stradale, ecc.). Se poi le tracce di sangue si presentano secche è necessario asportarle utilizzando un tampone inumidito con acqua distillata o soluzione fisiologica, per consentirne il prelievo. Così si procede per tutte le altre tracce biologiche. Naturalmente anche nella fase di repertamento gioca un ruolo fondamentale la competenza e l'esperienza dell'operatore, che dovrà decidere caso per caso, quale sia il modo migliore per assicurare le fonti di prova. Nel caso in cui si debbano repertare oggetti, è importante utilizzare sacchetti di carta o scatole, preferibilmente fissando all'interno gli oggetti quali armi (coltelli, pistole, bastoni, ecc.) o oggetti vari (bottiglie, tazzine, ecc.). Le buste di plastica o i sacchetti di cellophan non sono particolarmente indicati, poiché non lasciano traspirare il reperto, e c'è il rischio che la traccia ammuffisca, soprattutto se si è in presenza di reperti intrisi di sangue, soggetto a rapida degradazione se non conservato idoneamente. Altro passaggio fondamentale è la conservazione delle tracce repertate. Anche in questa fase è importante lo stato della traccia che si è prelevata. Il metodo più diffuso é la conservazione a temperatura ambiente, se le tracce sono secche. Se invece le tracce sono "fresche" e non è possibile farle asciugare, è necessario congelare il reperto a una temperatura di -18/-20°C. È importante sottolineare la gradazione della temperatura poiché, mentre il congelamento consente di fissare le tracce biologiche, mentre temperature differenti quali ad esempio quella da frigorifero (2/8° C), favoriscono la crescita di microrganismi e di muffe, che proliferano in ambienti umidi, pertanto, contrariamente a quanto si possa comunemente pensare, la conservazioni in frigo è assolutamente da evitare e dannosa per le tracce biologiche. Naturalmente, se si utilizza il congelamento, deve essere garantita la catena del freddo, poiché attività di congelamento e scongelamento repentino potrebbero degradare le tracce biologiche. Nella fase di conservazione è importantissimo poi determinare la catena di custodia del reperto, in modo da poter verificare in ogni momento non solo chi ha repertato la traccia o l'oggetto, ma anche i vari passaggi che il reperto ha subito tra gli uffici o laboratori. Diagnosi generiche e specifiche per stabilire la natura della traccia
Il primo problema da affrontare in un'analisi di tracce forensi é stabilire e diagnosticare che tipo di traccia si sta analizzando. Spesso ad esempio è importantissimo capire se la traccia di colore rosso in reperto sia costituita effettivamente da sangue oppure da altro materiale non biologico. Stesso dicasi per gli altri fluidi biologici (liquido seminale, saliva, urina) così come è importante capire se una struttura pilifera repertata, possa essere di origine umana o animale, oppure semplicemente una fibra. Per questi accertamenti vengono svolte prove che possono essere distinte in test preliminari, detti anche diagnosi generico-orientative, e in prove specifiche. I test preliminari sono utilizzati come screening orientativo, essendo test molto sensibili, visto che si effettuano con quantità esigue di materiale ma non altrettanto specifici, nel senso che possono generare falsi positivi. È sempre necessario pertanto confermare il primo accertamento con altri test più specifici, detti anche test di conferma. Il problema dei test di conferma invece è che a fronte di una elevata specificità per la traccia in esame, la quantità di materiale da sottoporre ad analisi è piuttosto consistente, a discapito magari delle successive analisi identificative. Per tale motivo si sta studiando la possibilità di effettuare da un'unica traccia la co-estrazione di DNA nucleare per l'identificazione del soggetto a cui appartiene, e l'estrazione di RNA per stabilire di che natura sia quella traccia (sangue, sperma,ecc.). Un limite di tale analisi risiede nella complessiva minore resistenza alla degradazione dell'RNA rispetto al DNA Per questo motivo su materiali biologici particolarmente scarsi e/o degradati tale approccio rischia di non consentire di ottenere alcun risultato, almeno allo stato attuale. Spesso la scarsa quantità di materiale biologico di cui sono costituite le tracce forensi impone scelte complesse che possono comportare il sacrificio della diagnosi generica preliminare a favore della diagnosi genetica identificativa, cosa che rappresenta l'apparente paradosso in base al quale è possibile identificare con certezza un soggetto quale donatore di una traccia, senza però che sia stato possibile stabilire l'esatta natura del materiale biologico in esame.
Analisi dei polimorfismi del DNA
L'analisi del DNA quindi viene condotta sulle tracce biologiche, più specificatamente sulle cellule nucleate che costituiscono la traccia, quale che essa sia. Dopo aver estratto il DNA nucleare dalla traccia, esso viene sottoposto ad una fase di amplificazione mediante la tecnica della P.C.R., viene cioè fotocopiato milioni di volte, così che anche il DNA estratto da poche cellule possa essere agevolmente esaminato. Successivamente il campione amplificato viene sottoposto alla vera e propria analisi mediante un sequenziatore che legge, attraverso un sofisticato sistema, la catena polinucleotidica del DNA. Il risultato della tipizzazione è costituito da un tracciato elettroforetico che rappresenta il profilo genetico. Tale tracciato è, per semplificare, una specie di elettrocardiogramma, dove ogni picco del tracciato viene identificato attraverso il software di interpretazione dei risultati, che attribuisce un numero a ogni segnale (allele: variante di sequenza di un gene). Quindi per ogni regione avremo una coppia di alleli o anche un solo allele, se il soggetto è omozigote (ha cioè il medesimo allele per una regione). Il profilo genetico sarà pertanto costituito da una serie numerica di 15 coppie di numeri, che consentono di identificare inequivocabilmente un soggetto. Complessivamente possiamo raggruppare in tre gruppi i risultati che è possibile ottenere dall'analisi del DNA:
Il match è il caso in cui il profilo del DNA estrapolato dalla traccia corrisponde (è compatibile) per tutte le regioni in esame al profilo genetico dell'interessato. In questi casi è altresì indispensabile fornire un “peso” statistico all'evidenza riscontrata, calcolando quello che viene chiamato Random Match Probability o R.M.P., ovvero la possibilità che un altro individuo preso a caso nella popolazione possa condividere casualmente il medesimo profilo genetico. Per fare questo è necessario disporre di studi di popolazione il più possibile ampi e riguardanti l'origine geografica del profilo oggetto dell'analisi. Il modo più semplice per spiegare tale concetto è fare un esempio concreto. Tralasciando di approfondire questi dati molto tecnici, la domanda che sorge spontanea è perché vi sia la necessità di confermare il dato analitico con dei calcoli probabilistici. Se il DNA è lo stesso, che necessità c'è di fare dei calcoli probabilistici? La necessità nasce dal fatto che nonostante ciascuno di noi ha teoricamente un profilo genetico univoco tuttavia potrebbe astrattamente ipotizzarsi che, per pura casualità, esistano al mondo due soggetti che abbiano un profilo genetico molto simile se non uguale. Infatti, poiché il nostro profilo genetico è dato da una rimescolanza casuale dei profili genetici di padre e madre, questa casualità potrebbe generare un soggetto, magari dall'altro capo del mondo, che ha un profilo uguale a un altro soggetto. Per capire meglio questo concetto facciamo un esempio concreto: qualche anno addietro le notizie di cronaca riportarono di un cittadino italiano che venne indagato per un caso di violenza sessuale avvenuto in Inghilterra, poiché il suo profilo genetico, estrapolato nel corso di altre indagini dalla Polizia italiana, combaciava con il profilo genetico diramato tramite Interpol a tutte le forze di polizia europee. La banca dati del DNA inglese però prevedeva, all'epoca dei fatti, l'inserimento di profili genetici costituiti da 8/9 regioni del DNA Limitandosi a tale numero effettivamente il cittadino italiano presentava una perfetta corrispondenza con il profilo genetico estrapolato nel corso di quelle indagini. Quando però si aumentò il numero delle regioni, estendendole fino a 15, si videro delle differenze sostanziali tra i profili dell'autore del reato e del sospettato. Ecco perché si è convenzionalmente stabilito di utilizzare almeno 13 regioni del DNA, ritenendosi praticamente impossibile con tale numero incorrere in un errore casuale. Partendo da questo concetto però, seppure non è mai stato riscontrato che due soggetti non parenti tra loro abbiano casualmente lo stesso profilo genetico, è necessario ricorrere alla statistica per supportare il dato ottenuto dalle analisi, proprio perché non si ha la sicurezza assoluta. Infatti se ci fosse la possibilità di avere una banca dati mondiale, dove tutti sono identificati e identificabili, potremmo affermare con certezza assoluta che il profilo da noi ottenuto combacia con l'indagato/vittima, e non ci sono possibilità di errore, ma invece dobbiamo necessariamente ricorrere alla statistica, ed esprimerci in termini di certezza probabilistica. Nel caso in cui invece il DNA ottenuto dalla traccia in esame non corrisponda a quello dell'indagato (esclusione) non è necessario effettuare alcun tipo di calcolo statistico. Risulta invece ancora più complessa l'interpretazione dei profili misti, ovvero quelli in cui è presente il materiale biologico di due o più soggetti. Tale questione è attualmente estremamente dibattuta oltre che all'interno della comunità scientifica anche nelle aule di tribunale: non è pertanto possibile approfondire a dovere un argomento così complesso, poiché richiederebbe decine di pagine ed una terminologia tecnica troppo complessa. In questi casi però è sicuramente necessario che l'esperto utilizzi estrema prudenza nel presentare i dati in corte, mettendo in risalto sia i limiti che le potenzialità di utilizzo del dato scientifico ottenuto. Vi sono poi alcuni casi in cui il profilo ottenuto risulta essere inconcludente, ossia sono leggibili solo alcune regioni (profilo parziale) e non é quindi possibile trarre alcuna valutazione su di esso. Ciò può essere dovuto ad esempio all'elevata degradazione del materiale genetico repertato, alla scarsa quantità di DNA presente nella traccia, alla presenza di eventuali inibitori delle reazioni di laboratorio. Low copy number o low template DNA
Talvolta le tracce biologiche di interesse forense hanno forma e dimensioni estremamente ridotte: spesso infatti si parla di microtracce. Il DNA che è possibile recuperare da questo tipo di tracce può essere scarso sia in termini di quantità (Low Template DNA) che in termini di qualità (Low Copy Number). Esigue quantità di materiale cellulare di partenza, non consentono di avere quantità sufficienti di DNA. Si parla infatti di low template DNA quando si è in presenza di campioni con quantità di DNA sotto i 200 picogrammi. Abitualmente i kit commerciali indicano come quantità ottimali per l'analisi di DNA dai 500 ai 2500 picogrammi (ossia un milionesimo di milionesimo di grammo). Inoltre è possibile che il materiale genetico a disposizione sia non solo esiguo per quantità ma che la traccia biologica sia stata naturalmente sottoposta a fenomeni degenerativi che ne abbiano compromesso la qualità (DNA degradato o Low copy number DNA). Queste quantità esigue di DNA, così come una forte degradazione del DNA, possono fornire tre tipi di artefatti:
Chiaramente per ovviare a queste problematiche, anche se non sempre è possibile, si procede cercando di confermare il dato ottenuto, analizzando cioè il profilo genetico per almeno due/tre volte. Tuttavia non sempre si hanno a disposizione quantità di estratto che consentano più ripetizioni. Vista la complessità che tale materia presenta, è indispensabile avvalersi sempre di periti qualificati, che aderiscano e facciano proprie le indicazioni diffuse dalla comunità scientifica internazionale e proposte attraverso le linee guida di buona prassi di laboratorio, affinché sia garantito il corretto svolgimento delle analisi e l'affidabilità dei risultati prodotti. È indispensabile da parte del tecnico una corretta ed accurata interpretazione del risultato analitico, soprattutto nei casi di profili misti e complessi. Purtroppo esistono casi in cui, due o più esperti, potrebbero fornire interpretazioni differenti, se non addirittura contrastanti del medesimo risultato di laboratorio. Ciò non evidenzia una scarsa affidabilità dell'analisi del DNA, quanto una sua difficoltà di interpretazione, che può portare ad una mancanza di omogeneità nella lettura dei risultati, e rende quindi ancora più importante il contradditorio tra le parti durante il processo. Infine è necessario rappresentare che molto spesso il risultato analitico cui si giunge attraverso l'analisi del DNA, cioè l'identificazione di colui a cui appartiene quella traccia analizzata, dovrebbe inevitabilmente essere contestualizzato all'interno della tesi investigativa. Ottenere cioè un profilo genetico dell'indagato da una traccia repertata sulla scena di un crimine, quando lo stesso soggetto frequentava abitualmente il luogo dove si è perpetrato il reato, può non avere alcun significato probatorio. Oppure ancora meglio ritrovare una traccia biologica sugli indumenti di una vittima di omicidio, traccia che appartiene al fidanzato o comunque a colui che abbia avuto contatti con la vittima (anche solo perchè condividono la stessa abitazione) può non essere significativo per le indagini. Ecco perché in alcuni casi la prova del DNA è sicuramente prova regina mentre in altri, dove cioè è facile trovare una valida ipotesi alternativa sulla genesi di una determinata traccia, può assumere il significato di un mero elemento di prova che va tuttavia approfondito e vagliato. Balding DJ., When can a DNA profile be regarded as unique?, Science & Justice, vol. 39 (4), pp. 257-260, 1999. Butler J.M. (2010), Fundamentals of Forensic DNA Typing, Elsevier Academic Press, San Diego. Chakraborty Ranajit, Stivers David N., Su Birg, Zhong Yixi e Budowle Bruce, The utility of short tandem repeat loci beyond human identification: Implications for development of new DNA typing systems, Electrophoresis, vol. 20, 1682-1696. 1999. EvettIW, Weir BS., Interpreting DNA evidence: Statistical genetics for forensic science, Sunderland, MA:Sinauer, 1998. Fisher Barry A.J., Thechiques of crime scene investigation. Gill P., Jeffreys A.J. e Werrett D.J., Forensic Application of DNA Fingerprints, in Nature, 318:577-579, 1985. Gill et al., A new Method of STR interpretation Using Inferential Logic-Development of a Criminal Intelligence Database, Int. J. Legal Medicine, vol. 109, pp. 14-22, 1996. Marshall E., Academy's about-face on Forensic DNA, Science, vol. 272, pp. 803-804, 1996. National Research Council, The Evaluation of Forensic DNA evidence, National Academy Press, pp. 38, Recommendation 4, 1996. Waggoner Kim (2007), Handbook of Forensic Services, An FBI Laboratory Publication, Federal Bureau of Investigation, Quantico, Virginia. Weir B.S. et al., Interpreting DNA Mixtures, Journal of Forensic Science, 42 (2), 213-222 ,1997. |