Famiglie
ilFamiliarista

Concepito

Carla Narducci
14 Luglio 2022

Il termine “concepito" ha posto e pone una serie di interrogativi sia in termini di soggettività giuridica che di bilanciamento tra il diritto alla vita ed alla salute della madre con gli analoghi diritti di chi ancora non è nato.
Inquadramento

Il termine “concepito" ha posto e pone una serie di interrogativi sia in termini di soggettività giuridica che di bilanciamento tra il diritto alla vita ed alla salute della madre con gli analoghi diritti di chi ancora non è nato.

Nel nostro ordinamento risultano, peraltro, ancora presenti perplessità circa la posizione giuridica del concepito, perplessità che riflettono le difficoltà nell'attribuzione al nascituro della titolarità di diritti.

Il quadro normativo di riferimento, tuttavia, superando i limiti imposti dall'art. 1 c.c. delinea oggi uno scenario del tutto nuovo in cui il concepito si va sempre più affermando come uno dei protagonisti a cui vanno riconosciuti veri e propri diritti, che devono essere necessariamente tutelati.

Il nostro ordinamento, infatti, ha assunto nel tempo una esplicita posizione in relazione allo status del concepito, riconoscendo la sua natura giuridica di soggetto meritevole di tutela nella l.n. 40/2004, il cui art. 1 consente il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste da suddetta legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito.

Si tratta, però, di definire come sia possibile conciliare l'aspettativa di nascita del concepito, tutelata dalla legge, con il contrapposto diritto della madre ad interrompere volontariamente la gravidanza in base alle disposizioni contenute nella legge n. 194/1978.

In evidenza

Il diritto del concepito a nascere e nascere sano, tutelato sia dalle normative nazionali e sovranazionali, sia dagli orientamenti giurisprudenziali, subisce le limitazioni funzionali che derivano dal corrispettivo diritto della madre all'interruzione della gravidanza, qualora si verifichino le condizioni previste dalla legge sull'aborto.

Posizione giuridica

Già noto nel diritto romano almeno per quel che concerne i diritti successori e patrimoniali, il tema della protezione degli interessi del concepito solo di recente assurge ad argomento di primaria attenzione, alla pari di tutte le questioni sorte in merito alle problematiche relative alle scoperte scientifiche nel campo della genetica.
Non sembra che il concepito possa essere considerato come un uomo sul piano formale (ciò comporterebbe l'applicazione della tutela prevista per il nato e la possibilità di usare gli strumenti giuridici connessi, da far valere solo dopo la nascita) ma piuttosto come un'entità diversa, che non è ancora un uomo ma contiene in sé la possibilità concreta di diventare uomo, ossia un progetto di vita in atto.

La tutela del concepito, sia sotto il profilo della titolarità dei rapporti giuridici negoziali e patrimoniali, sia dei diritti fondamentali, pone - in primis - una questione di imputazione di situazioni giuridiche soggettive che, nel caso dei nascituri ed almeno con riferimento alla pretesa patrimoniale, si usa giustificare attraverso ricostruzioni eterogenee. L'acquisto di diritti da parte del concepito viene giustificata sulla base di diverse impostazioni in materia. Secondo una prima ricostruzione, si configurerebbe un'ipotesi di fattispecie a formazione progressiva e complessa, che si completa con l'evento della nascita, intesa come condicio iuris; il concepito sarebbe pertanto privo di capacità giuridica, in quanto la nascita sarebbe un coelemento della fattispecie acquisitiva del diritto senza la necessità di riconoscere in favore del nascituro una “soggettività” o “capacità giuridica anticipata” (F.Gazzoni, Manuale di diritto privato,1992, 119 ss.). Il diritto attribuito al nascituro si perfezionerebbe - in ogni caso - con la nascita, cui è subordinata la venuta ad esistenza della capacità giuridica (vd. art. 1 c.c.). Un secondo orientamento, invece, ritiene il concepito - contrariamente al non concepito, rispetto al quale la nascita opererebbe come avveramento di una condizione sospensiva - portatore di interessi di attuale tutela con l'attribuzione di una “capacità provvisoria”, che rimane definitiva al momento della nascita, risolvendosi invece retroattivamente nel caso in cui non consegua tale evento (Bianca, Diritto civile 2, La famiglia le successioni, 1978, 199 ss.). Infine, secondo una terza ed opposta concezione, si configurerebbero dei “diritti adespoti”, cioè diritti “senza titolare”, non ritenendosi necessario ricorrere alla fictio giuridica, qual è la soggettività giuridica anticipata. Più semplicemente, l'ordinamento avrebbe inteso prescindere dall'esistenza di una soggettività in capo ai nascituri, considerandoli piuttosto oggetto di tutela (G. Cricenti, in Nuova Giurisprudenza civile commentata, 2009, 1258 ss.). Questa ricostruzione è destinata ad assumere particolare rilievo con riferimento all'attribuzione dei diritti fondamentali in favore dei concepiti, a prescindere da una effettiva soggettività.

Tutela normativa

La normativa di riferimento è costituita dall'art. 1 c.c., dalla l.n. 194/1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza, dalla l.n. 40/2004 in materia di riproduzione assistita e dalla legge penale.

Nell'ordinamento giuridico vigente, ai fini della titolarità delle situazioni giuridiche soggettive (e quindi dell'imputazione del rapporto giuridico) è necessario il preliminare acquisto della capacità giuridica.
L'istituto si traduce nella capacità del soggetto di essere titolare di diritti e destinatario di doveri: la possibilità, quindi, di essere un centro di interessi cui imputare situazioni giuridiche soggettive.

Il presupposto logico-giuridico della tutela di un soggetto, pertanto, è certamente la sua esistenza, che coincide con l'acquisto della capacità giuridica.

La legge sull'interruzione volontaria della gravidanza (l.n. 194/1978) non consente l'aborto eugenetico (cioè quello praticato per la sola esistenza di malformazioni del feto non incidenti sulla salute e sulla vita della donna) ma soltanto quello a fini terapeutici, nel caso cioè in cui continuare la gravidanza possa esporre a grave rischio la salute psico-fisica della madre. In tale contesto, la liceità dell'aborto viene individuata solo ed esclusivamente nell'esigenza di proteggere la salute della donna, seppure previa adozione di ogni misura atta ad assicurare la vita del feto. Almeno in prima approssimazione, pertanto, la legge sull'aborto tutela preminentemente la salute della madre, escludendo i diritti del nascituro, il cui stato di salute (la malformazione) sembra preso in considerazione solo indirettamente.

In una simile prospettiva, l'informazione circa lo stato di salute del feto può risultare determinante del consenso alla prosecuzione o meno della gravidanza al fine di assicurare, insieme all'autodeterminazione della partoriente, una maternità cosciente e responsabile. L'omessa informazione sui rischi per la salute della donna impedisce - in effetti - una serena valutazione circa le condizioni per l'esercizio del diritto di interruzione della gravidanza. Si può abortire soltanto nell'ipotesi di serio o grave pericolo per la salute fisica o psichica della gestante od in considerazione delle previsioni di anomalie e malformazioni del concepito, ma soltanto se collegate a problemi di salute della gestante stessa. Il meccanismo giuridico, pertanto, funziona nel senso che la conoscenza della malformazione potrebbe provocare alla donna una condizione di disagio psicofisico che degenera nella malattia e, conseguentemente, giustificare l'interruzione della gravidanza. In tal senso, qualora si accerti la sussistenza del nesso di causalità tra omessa informazione e nascita indesiderata, può ammettersi il risarcimento del danno in favore della donna, vittima, in tal caso, di inadempimento contrattuale, ancor prima che di un illecito aquiliano. Al di là dell'ipotesi configurata, la tendenza cui si assiste, sempre più diffusa, è quella di riconoscere dei veri e propri diritti al concepito, che si sostanziano nel diritto di nascere, di nascere sano e/o di essere curato.

Proprio tale impostazione sembra essere stata recepita dal legislatore nella l. 19 febbraio 2004 n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita, con una espressa presa di posizione in materia di tutela del concepito.

L'art. 6 della legge prevede che il consenso alla pma possa essere revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo. La norma esclude, dunque, la possibilità di una revoca successiva. A fronte delle plurime dichiarazioni di incostituzionalità della disciplina normativa, ci si è chiesti se il consenso di entrambi i componenti della coppia alla fecondazione assistita debba o meno essere reiterato anche al momento dell'impianto, qualora sia intercorso un lasso di tempo dalla fecondazione degli ovociti. Sul punto è intervenuta una pronuncia di merito, che in via d'urgenza ha ordinato ad un centro medico, presso cui erano depositati gli embrioni crioconservati di una coppia di coniugi di procedere al relativo impianto nell'utero della donna, malgrado l'opposizione del marito, per essere nel frattempo intervenuta separazione personale (Trib. Santa Maria Capua Vetere 27 gennaio 2021, con nota di A. Figone, Procreazione assistita e separazione della coppia in IlFamiliarista, 2021).

Diritti patrimoniali

La normativa sovraordinata e costituzionale, come riportato, è diretta a governare la tutela della persona e delle sue proiezioni esistenziali, mentre meno problematica si rivela, invece, la ricerca condotta in ambito strettamente privatistico, ossia in relazione alla pretesa patrimoniale del nascituro. Il Codice civile, esemplificando, prevede non molte, ma significative disposizioni normative riferite alla protezione dei diritti patrimoniali dei nascituri.

La legge permette che possano succedere anche i nascituri, concepiti e non concepiti. La norma, che parla di capacità a succedere di questi soggetti, è però imprecisa: questi soggetti infatti, sono solo vocati all'eredità, ma non sono ancora delati. La vocazione afferisce all'aspetto della semplice designazione e, quindi, riguarda semplicemente l'indicazione soggettiva di coloro che vengono alla successione.
La delazione afferisce, invece, alla concreta offerta del compendio ereditario a chi riveste la qualità di erede o legatario e conseguentemente deve essere intesa come la concreta messa a disposizione del cespite ereditario ai soggetti designati nel complesso dei diritti soggettivi, assoluti e relativi, delle obbligazioni, dei doveri giuridici, delle aspettative destinate ad eredi e legatari.

La tutela degli interessi patrimoniali del concepito, quindi, assume la forma di una aspettativa ed è una sorta di tutela medio tempore con funzione conservativa e di garanzia

Si giustificano, in tal senso, le disposizioni patrimoniali, previste nel codice civile quali l'art. 320, comma 1, che attribuisce ai genitori la rappresentanza e l'amministrazione dei beni spettanti ai figli nati e nascituri in tutti gli atti civili; l'art. 462, che riconosce in favore del concepito la capacità a succedere; l'art. 643, in materia di amministrazione di beni ereditari in caso di eredi nascituri; l'art. 715, in materia di divisione ereditaria alla quale partecipano anche nascituri; l'art. 768 bis in materia di patto di famiglia al quale partecipano anche i concepiti; l'art. 784, in materia di donazione e l'art. 785, in materia di donazione obnuziale, in favore di nascituri; l'assicurazione sulla vita in favore di terzi concepiti (art. 1920 c.c.) nonché l'attribuzione dell'indennità in caso di morte del prestatore di lavoro in favore dei figli concepiti (art. 2122 c.c.).

Interventi della Corte Costituzionale ed i diritti non patrimoniali

L'esistenza del cd. diritto alla vita è profondamente radicato nel tessuto costituzionale. Tale diritto, benché non espressamente menzionato, viene individuato per alcuni, nell'art. 2 Cost. con un'interpretazione “a fattispecie aperta” in quanto contiene e tutela anche diritti non specificamente regolati; per altri, è desumibile dal primo comma dell'art. 30 Cost. (doveri dei genitori) e comma 2 dell'art. 31 Cost. (protezione della maternità, dell'infanzia e della gioventù). Inoltre, un ulteriore fondamento per la tutela del concepito può essere rinvenuto nell'art. 32 Cost. che, nel proclamare il diritto alla salute, ne attribuisce la titolarità a ciascun individuo.

Ciò è quanto può ricavarsi dalla sentenza n. 27/1975 della Corte Costituzionale, dove il fondamento costituzionale della tutela del concepito non può non collocarsi tra i diritti inviolabili dell'uomo. Al contempo, però, si afferma che non può esistere equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare.

Nella sentenza n. 35/1997 la Corte ribadisce che il “diritto alla vita”, avuto riguardo alla protezione della madre, ma riconducibile anche all'embrione nell'ambito delle garanzie costituzionali della persona, è da considerarsi un diritto fondamentale della persona in quanto appartiene all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana.

Le successive sentenze della Corte Costituzionale relative all'incostituzionalità dell'art. 14, comma 2 (limiti all'applicazione delle tecniche sugli embrioni - sentenza 1 aprile - 8 maggio 2009, n. 151), degli artt. 4, comma 3, 9, commi 1 e 3, e 12, comma 1 (divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita - sentenza 9 aprile - 10 giugno 2014, n. 162) e da ultimo degli artt. 1, commi 1 e 2 e 4, comma 1 (divieto al ricorso alle tecniche di procreazione alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili - sentenza 14 maggio - 5 giugno 2015, n. 96) della menzionata legge n. 40/2004, non sembrano mettere in discussione il diritto alla vita, quanto piuttosto la problematica della tutela di interessi contrapposti. Ed in effetti, tale attenzione è ben presente nella recente sentenza (C. Cost. n. 96/2015) in cui si evidenzia la violazione dell'art. 32 Cost. Né il vulnus così arrecato a tale diritto trova un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, giacché quest'ultimo sarebbe comunque esposto all'aborto. In tal senso si orientata pure C. Cost. n. 229/2015, quanto ai profili penali della selezione embrionaria.

Diritto alla vita del concepito, dunque, ma anche esigenza di salvaguardare necessariamente il diritto all'interruzione della gravidanza, avuto riguardo al rispetto per la salute, fisica e/o psichica, della donna. Tale impostazione trova fondamento nel dovere di operare un bilanciamento tra gli stessi diritti, nella prospettiva di realizzare i valori fondanti della Costituzione. Il diritto alla vita si sostanzia nel diritto di nascere e nascere sano, giacché nell'ordinamento vigente il diritto “a non nascere” non può essere riconosciuto: i principi desumibili dall'art. 3 Cost. impediscono di eliminare la cosiddetta “vita ingiusta”.

I diritti dell'embrione possono poi porsi in contrasto con il più generale diritto alla scienza: in tal senso v. C. Cost. n. 84/2016 circa il divieto di ricerca clinica e sperimentale sui c.d. “embrioni soprannumerari”.

Il risarcimento del danno da nascita indesiderata

In giurisprudenza si sono recentemente riscontrati due orientamenti contrastanti circa la legittimazione del concepito a richiedere il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata a carico del medico (e/o della struttura sanitaria) che, per mancata e/o errata informazione verso la gestante delle malformazioni o patologie fetali, abbia privato la madre della possibilità di decidere per l'interruzione della gravidanza.

Con un primo orientamento, la Suprema Corte - con la sentenza n. 14488/04 - ha escluso il diritto al risarcimento in favore del concepito sulla base del principio che il nostro ordinamento non ammette l'aborto eugenetico, prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, atteso che l'interruzione della gravidanza al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978 (accertate nei termini di cui agli artt. 5 e 8 ), oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 c.c., costituisce reato anche a carico della stessa gestante (art. 19 l. n. 194/1978), essendo per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie - tutelato dall'ordinamento. Ne consegue che - verificatasi la nascita - non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d'informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute, facendo ricorso all'aborto, ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall'art. 54 c.p.) prevista dall'art. 4 l.n. 194/1978,

L'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la "non nascita", essendo (al più) configurabile un "diritto a nascere" e a "nascere sani". Non è infatti possibile individuare in capo al concepito un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano”.

D'altronde, la capacità giuridica - ai sensi dell'art. 1 c.c. - si acquista dal momento della nascita; conseguentemente, il diritto di non nascere, fino alla nascita non avrebbe un soggetto titolare dello stesso e con la nascita detto diritto di non nascere sarebbe definitivamente scomparso. Ciò senza ovviamente escludere forme di protezione del nascituro, nell'ipotesi in cui la scelta della madre a non abortire sia stata condizionata da una diagnosi errata o da una mancata informazione da parte di ginecologo delle terapie adottate, nel caso della procreazione di un bambino gravemente malformato (Cass. civ. III sez., 29 luglio 2004, n. 14448).

Sula base dello stesso orientamento, la Cassazione - in relazione ad un'azione di risarcimento danni proposta nei confronti dei medici curanti dai genitori, in proprio e nella qualità di esercenti la responsabilità genitoriale, di un minore nato con gravi malformazioni causalmente collegate alla somministrazione alla madre, ai fini dell'ovulazione, di farmaco con proprietà teratogene, senza il rispetto dell'obbligo di una corretta informazione, ai fini del consenso, in ordine ai rischi della terapia adottata - ha affermato che il nascituro risulta dotato di autonoma soggettività giuridica (specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che dir si voglia) perché titolare, sul piano sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, il diritto alla salute o integrità psico-fisica, il diritto all'onore o alla reputazione, il diritto all'identità personale, rispetto ai quali l'avverarsi della condicio iuris della nascita ex art. 1, 2 comma c.c. è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio a fini risarcitori.

Non avrebbe, invece, il nascituro diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessitasse ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di farmaci) stante la non configurabilità del diritto a non nascere (se non sano) (Cass. Civ., sez. III, 11 maggio 2009, n.10741).

Con un secondo e contrastante orientamento, la Corte di Cassazione - con la sentenza n. 16754/2012 - ha affermato la tutela del nascituro non come “soggetto”, bensì come “oggetto” di tutela, con specifico riferimento al diritto alla salute.

Con detta pronuncia, la Suprema Corte, sulla scorta di diverse argomentazioni, conclude per l'attribuzione direttamente in favore del concepito (nel caso di specie, di una bimba nata affetta dalla sindrome di down) del diritto ad essere risarcito per il danno alla salute provocato dal medico ginecologo per l'omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata, in quanto l'interesse alla procreazione cosciente e responsabile non è solo della madre, ma anche del concepito, e ciò anche quando la lesione inferta si manifesta e diviene attuale al momento della nascita. Diritto al risarcimento del danno che viene riconosciuto anche al padre e ai fratelli e alle sorelle del nascituro.

Nel ricercare il fondamento di questo diritto in favore direttamente del nascituro, la Corte sembra abbandonare la motivazione fondata sul diritto “a non nascere se non sani” e con questo, la teoretica della soggettività giuridica anticipata del nascituro, affermando, esplicitamente, che il nascituro non è “il soggetto”, bensì “l'oggetto di tutela” (Cass. civ., III sez. 2 ottobre 2012, n. 16754).

Il fondamento di un simile diritto è rinvenuto negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 Cost.: la lesione lamentata dal minore malformato, infatti, non è la malformazione in sé considerata bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intesa come proiezione dinamica dell'esistenza. Non viene, dunque, in rilievo la nascita, bensì la futura vita handicappata intesa nell'accezione funzionale di una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente.

Secondo questo orientamento, pertanto, il diritto al risarcimento di tutti i danni conseguenti alla privazione del diritto di interrompere la gravidanza spetta non solo alla madre, al padre e alle sorelle del nascituro, ma anche al figlio stesso, il quale potrà far valere detto diritto per la lesione dei suoi diritti alla salute, al libero svolgimento della personalità e della famiglia, dovuti alla nascita in condizioni di infermità.

Secondo la Suprema Corte dunque, la questione non concerne la venuta al mondo del concepito, ma il suo handicap.

Il diritto al risarcimento può, pertanto, essere fatto valere non solo dai genitori ma dopo la nascita anche dal figlio, il quale - per la violazione del diritto all'autodeterminazione della madre - si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità, che sarebbe mancato se egli non fosse nato. Pur nel rispetto dei diritti di libertà ed autodeterminazione, tuttavia, una rigorosa applicazione dei presupposti per potersi procedere ad aborto terapeutico appare necessaria, sorgendo, in caso contrario, il rischio di favorire, anche involontariamente, la possibilità di aborto eugenetico (v. artt. 4 e 6 l. 194/78). Di ciò consapevole, l'annotata decisione, risolve ogni questione richiamando l'art. 4 l. n. 194/1978; nel momento infatti in cui l'ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire sia pure nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile il sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1 l. n.194/1978), ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre.

A seguito di detto contrasto interpretativo tra ammissibilità o meno di un diritto al risarcimento da parte del concepito, con ordinanza interlocutoria del Cass. civ. 23 febbraio 2015 n. 3569, la III sezione della Cassazione ha investito le Sezioni Unite, le quali - seguendo il primo orientamento - hanno ritenuto non accoglibile la richiesta di risarcimento del danno per negazione del diritto del figlio, affetto da sindrome di Down, ad un'esistenza sana e dignitosa. Sostiene la Cassazione che l'ordinamento non riconosce “il diritto alla non vita”; conseguentemente la vita di un bambino disabile non può considerarsi un danno. L'affermazione di una responsabilità del medico verso il nato porterebbe ad una analoga responsabilità della stessa madre che, nei casi previsti dalla l.n. 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza; secondo la Suprema Corte riconoscere, infatti, il diritto di non nascere malati comporterebbe - quale simmetrico termine del rapporto giuridico - l'obbligo della madre di abortire (Cass. S.U., 22 dicembre 2015 n. 25767). Il nato disabile non può, conseguentemente, agire contro il medico per il risarcimento del danno da ”vita ingiusta ( op “wrongful life”) dato che l'ordinamento non gli riconosce il diritto a non nascere se non sano.

Orientamenti a confronto

Il risarcimento del danno

Al concepito non è riconosciuto un autonomo diritto ad agire per il risarcimento escludendosi che sia configurabile un diritto a non nascere o a non nascere se non sano.

Cass. civ, sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488

Il concepito, ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito, dolendosi della malattia e non della nascita: non è in questione un diritto di non nascere, ma un diritto alla salute

Cass. civ., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754

Non può essere riconosciuto alcun diritto al risarcimento per la mancata diagnosi della sindrome di down. Il contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, finisce con l'assegnare - in ultima analisi - al risarcimento del danno un'impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale

Cass. Sez. Unite, 22 dicembre 2015 n. 25767

Casistica

Inadempimento contrattuale e risarcimento dei danni per nascita indesiderata esteso anche al padre

In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni, che costituisce conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del ginecologo all'obbligazione di natura contrattuale gravante su di lui, spetta non solo alla madre, ma anche al padre. Pur spettando solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della gravidanza, sottratta alla madre (e non al padre) tale scelta, agli effetti negativi del comportamento del medico non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò considerarsi tra i soggetti "protetti" dal contratto col medico e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti. (Cass. civ.,sez. III, 29 luglio 2004 n. 14488). Cass. Civ. sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20320, Cass. Civ. sez. III, 2 febbraio 2010 n. 2354), fra i quali deve ricomprendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli (Cass. Sez. civ III, ord. 5 febbraio 2018 n. 2675).

La mancata rilevazione delle anomalie genetiche del concepito imputabile all'Università che ha eseguito la diagnosi prenatale è suscettibile di ledere i diritti inviolabili di autodeterminazione e di solidarietà familiare, sia della gestante che del padre, in quanto soggetto tenuto anch'egli giuridicamente al mantenimento, alla crescita ed alla protezione del nato non sano (Cass civ., Sez. III, 30 novembre 2011, n. 25559)

Diritto al risarcimento del nato per perdita del padre naturale

Anche il soggetto nato dopo la morte del padre naturale, verificatasi per fatto illecito di un terzo durante la gestazione, ha diritto nei confronti del responsabile al risarcimento del danno per la perdita del relativo rapporto e per i pregiudizi di natura non patrimoniale e patrimoniale che gli siano derivati (Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2014, n. 5509)

Non è necessario configurare la soggettività giuridica del concepito per affermare il diritto del nato al risarcimento; il diritto al risarcimento è infatti vantato dalla figlia in quanto nata orfana del padre, come tale destinata a vivere senza la figura paterna (Cass. civ, sez. III, 03 maggio 2011, n. 9700).

Onere della prova

L'orientamento maggioritario statuisce che in caso di nascita di un bambino con gravi malformazioni, grava sulla madre l'onere di provare che, se fosse stata previamente informata della grave patologia di cui sarebbe stato affetto suo figlio avrebbe interrotto la gravidanza (Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2017 n. 25849; Cass. civ., sez. III, sentenza 19 gennaio 2018 n. 1252). L'onere probatorio può essere assolto anche attraverso l'utilizzo di presunzioni che tengano conto di eventuali esternazioni circa la propensione personale all'interruzione della gravidanza nel caso di deformità o gravi patologie, oppure convinzioni personali e/o ideologiche o ancora l'aver effettuato pregressi esami (quale l'amniocentesi), volti a conoscere le condizioni di salute del feto.

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