Particolare tenuità del fatto e continuazione tra reati: non vi è incompatibilità in astratto
18 Luglio 2022
Premessa
La V sezione penale della Corte di cassazione ha sottoposto all'esame delle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «Se la continuazione tra i reati sia di per se sola ostativa all'applicazione della causa di esclusione della responsabilità per particolare tenuità del fatto ovvero lo sia solo in presenza di determinate condizioni».
L'ordinanza di rimessione rilevava al riguardo due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Il primo, negativo, secondo il quale la preclusione non sarebbe solo nel caso di un pregresso accertamento giudiziale di abitualità, ma anche con riferimento a condotte prese in considerazione nell'ambito di un medesimo procedimento e, quindi, anche con riferimento ai reati avvinti dal vincolo della continuazione. I reati esecutivi di un medesimo disegno criminoso sarebbero «espressione di un comportamento abituale, di una devianza non occasionale» ostativa al riconoscimento del beneficio in quanto priva di quel carattere di trascurabile offensività che, invece, deve caratterizzare il fatto ove lo si voglia sussumere nel paradigma normativo di cui al citato art. 131-bis c.p.
Il secondo orientamento, ritiene invece che «non vi possa essere un'identificazione tout court tra continuazione e abitualità nel reato»; la voluntas legis caratterizzante l'istituto dell'art. 131-bis c.p. è quella di escludere dall'ambito della sua applicabilità solo quei comportamenti che costituiscano espressione di una proclività al crimine che non è riscontrabile in maniera automatica nel reato continuato. La ricostruzione delle Sezioni Unite
Genesi dell'art. 131-bis c.p.
Seguendo il percorso argomentativo della Corte, è opportuno prendere le mosse dal d.lgs. n. 28 del 16 marzo 2015 che ha introdotto nel codice penale l'art. 131-bis c.p. che recita, al primo comma: «Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133, comma 1, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Con tale previsione, il legislatore ha previsto «una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l'altrettanto generale presupposto dell'offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabilità penale di qualsiasi condotta in violazione della legge» (cfr. Corte costituzionale n. 120/2019). Tale previsione è ancorata ad una soglia massima di gravità correlata ad una pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, con ciò tracciando una linea di demarcazione trasversale, che esclude la punibilità delle condotte aventi in concreto un tasso di offensività marcatamente ridotto (cfr. idem).
Al di sotto di tale linea di demarcazione, la valutazione sull'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. è affidata al giudizio discrezionale dell'Autorità procedente che dev'essere ancorato a tre parametri: la modalità della condotta, l'esiguità del danno o del pericolo, la non abitualità del comportamento.
La ratio dell'istituto, secondo le Sezioni Unite, consiste nella «non sanzionabilità di determinate condotte astrattamente integranti gli estremi di un reato, perseguendo in tal modo finalità strettamente connesse ai principi di proporzione e di extrema ratio della risposta punitiva, con la realizzazione di effetti positivi anche sul piano deflattivo».
La scelta di opportunità di non applicare la sanzione penale ad un fatto antigiuridico, si pone in una prospettiva assiologica che anche la Corte costituzionale ha rimarcato in più di una decisone.
Il problema della compatibilità dell'istituto con una pluralità di reati avvinti dal vincolo della continuazione è stato oggetto di dibattito dottrinale e di divergenti indirizzi giurisprudenziali sin dall'introduzione dell'istituto, in particolare con riferimento al parametro della non abitualità del comportamento.
Il concetto di non abitualità
Tale nozione utilizzata dal legislatore, è diversa da quella di mera occasionalità del fatto, ma anche da quella di cui all'art. 102 c.p.; la locuzione, infatti, non sta a significare che l'autore del reato non sia stato dichiarato delinquente abituale poiché tale ipotesi trova un'autonoma esclusione dal campo di applicabilità dell'istituto a norma del terzo comma dell'art. 131-bis c.p.
Sulla scorta di una precedente pronuncia in argomento, la n. 13681 del 6/04/2016 a Sezioni Unite (che non aveva tuttavia affrontato lo specifico tema della compatibilità tra gli articoli 131-bis e 81 comma 2 c.p.), la Corte ha compiuto un'analisi dell'ambigua formulazione lessicale utilizzata dal legislatore nella descrizione delle ipotesi che connotano in termini di abitualità il comportamento dell'imputato, indicati nel terzo comma art. 131-bis c.p., ossia «l'aver commesso più reati della stessa indole -anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità- o l'aver commesso reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate»(cfr. art. 131-bis comma 3 c.p.).
La non abitualità di un comportamento non può essere equiparata alla unicità della sua realizzazione; non può quindi accedersi a quell'orientamento giurisprudenziale che, su tale argomento, fonda la tesi dell'incompatibilità tra la causa generale di esclusione della punibilità ed il reato continuato.
Ciò perché tale nozione non si esaurisce nel dato oggettivo dell'aggregazione numerica di condotte antigiuridiche, ma presuppone un habitus, ossia una disposizione acquisita con il costante e periodico ripetersi di determinati comportamenti. Necessita, cioè, di un quid pluris rispetto alla pluralità di reati pura e semplice.
A tale esegesi rimane estranea la disciplina del reato continuato, fondata sull'accertamento dell'unicità del disegno criminoso, ossia di un'unica decisione antigiuridica, concetto assai diverso da quello di un sistema di comportamenti offensivi.
L'istituto della continuazione non può essere quindi considerato sinonimo di abitualità poiché, di per sé, non è espressione di serialità nell'attività criminosa e di abitudine a violare la legge; al contrario è caratterizzato da un unico piano unitario e non da un programma di vita delinquenziale che si concretizza, di volta in volta, in relazione alle varie occasioni ed opportunità.
Né, d'altro canto, richiede necessariamente la commissione di più reati della stessa indole.
A ben vedere, pertanto l'art. 81 comma 2 c.p. delineando un'ipotesi di un'unica programmazione di più comportamenti antigiuridici, commessi anche a distanza di tempo, si pone addirittura in modo antitetico rispetto alla diversa e più grave ipotesi di abitudine a commettere un determinato tipo di reato
Dal combinato disposto degli articoli 101 e 102 c.p., l'abitualità è presunta dalla legge, qualora il soggetto condannato per tre delitti non colposi della stessa indole, ne commetta uno nuovo parimenti della stessa indole. Tale ultimo concetto è declinato dall'art. 101 c.p. sia con riferimento ai reati che violano la medesima disposizione di legge, sia a quelli che, per la natura dei fatti o dei motivi che li determinarono presentano, nel caso concreto, caratteri comuni.
Posto quindi l'inesistenza di un automatismo preclusivo che neghi l'applicazione dell'art. 131-bis c.p. nei casi in cui il Giudice non ravvisi alcuna esigenza special- preventiva, occorre distinguere due ipotesi:
Il concetto di condotte plurime, abituali e reiterate
Più complessa è l'esegesi dell'ultima previsione del terzo comma dell'art. 131-bis c.p. Al di fuori dei reati che presentino l'abitualità come fatto tipico (ad es. maltrattamenti in famiglia) e di quelli in cui la serialità sia un elemento della fattispecie (ad es. atti persecutori), la Corte, sulla scorta della sentenza delle Sezioni Unite n. 13681/2016, descrive tale concetto con riferimento alle fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di «ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti».
Tale esegesi si coglie meglio dall'esempio fornito dalla sentenza ora richiamata: «un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione, sintomatiche di una trascuratezza strutturale rispetto all'obbligo di garantire le condizioni per un lavoro sicuro».
Solo accedendo a tale interpretazione, prosegue la sentenza, la pluralità di reati acquista una sua autonomia, evitando di ritenere «che si sia in presenza di una mera, sciatta ripetizione di ciò che è stato denominato abituale o reiterato».
Nessuna presunzione di incompatibilità in astratto
Come già accennato, la Corte ha disatteso l'indirizzo giurisprudenziale che equiparava continuazione e abitualità, aprendo così la strada alla valutazione del caso concreto, riguardi questo più reati commessi in esecuzione di un unico disegno criminoso o meno.
A tale conclusione si perviene anche prendendo le mosse dal concorso formale di reati (art. 81 comma 1 c.p.).
L'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. a tale istituto, pacificamente ammessa in linea di principio dalla giurisprudenza, fonda la sua ratio sulla considerazione dell'unicità dell'azione o dell'omissione dalla quale derivi la commissione di più reati (che esclude dunque la presenza di condotte plurime o reiterate) e sull'ulteriore osservazione che il concorso formale non è necessariamente omogeneo (dato questo, che potrebbe ricondurre ad un comportamento abituale), bensì può riguardare anche la violazione di diverse disposizioni di legge.
Orbene, argomenta la Corte, «ragioni di coerenza logico-sistematica e di unicità della direzione teleologica impressa alle singole azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso impongono di considerare anche l'ipotesi disciplinata nell'art. 81 comma 2 c.p. come “unitaria”. La regola della unitarietà del reato continuato, generalmente individuata nella prospettiva di una più ampia estensione applicativa del principio del favor rei, conosce infatti delle eccezioni, come posto in rilievo dalla dottrina, solo quando la considerazione monolitica delle condotte possa determinare in concreto delle conseguenze contra reum».
Osserva infine la Suprema Corte che sotto un diverso, ma connesso, profilo, si può affermare che non vi sia una preclusione all'operatività dell'art. 131-bis c.p. neanche con riferimento al reato permanente. Quest'ultimo infatti «è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto invece da una condotta persistente, cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e, pertanto, dell'offesa al bene giuridico protetto». Occorrerà tuttavia valutare il singolo caso concreto, ed in particolare la misura della compressione del bene giuridico in relazione alla durata della condotta.
La valutazione in concreto è dunque il criterio da seguire: il futuro è già presente.
L'art. 131-bis c.p. ancora la valutazione del Giudice del singolo caso, come abbiamo già osservato, ai criteri di cui all'art. 133 comma 1 c.p., con esclusione quindi degli ulteriori indici contenuti nel comma 2, fra i quali vi è quello della condotta susseguente al reato.
A tal proposito, con un significativo avanzamento di posizione la Corte valorizza la l. 34/2021 recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari; l'art. 1 comma 21 di tale legge prescrive, tra le modifiche all'art. 131-bis c.p., l'inserimento della condotta susseguente al fatto ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell'offesa.
Ciò comporta, si legge in sentenza, la necessità di superare l'indirizzo seguito dalla giurisprudenza della stessa Corte di cassazione al riguardo, includendo nel catalogo degli indicatori valutabili ai fini dell'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., la “condotta susseguente al reato”. Tale criterio potrà essere un utile argomento sia sotto il profilo dell'entità del danno che sotto quello dell'intensità dell'elemento soggettivo.
Con decisione resa all'udienza del 17/05/2022, a cinque giorni dalla pubblicazione della sentenza in commento, la IV Sezione penale della Corte ha cassato con rinvio una sentenza della Corte di Appello di Torino che, nell'applicare l'art. 131-bis c.p. al caso concreto, aveva valorizzato la condotta del reo susseguente al reato, sul semplice presupposto che il legislatore del 2015 non ha richiamato il secondo comma dell'art. 133 c.p. (Cass. pen., n. 20038/2022). La sentenza non menziona le Sezioni Unite, ma risalenti precedenti a Sezioni semplici; si può presumere quindi, atteso il ristretto arco temporale intercorso tra le due decisioni, che il Collegio di Piazza Cavour non avesse avuto contezza della decisione della Sezioni Unite.
Le prospettive dell'art. 131-bis c.p.: l'intervento della Corte costituzionale
La Corte costituzionale è stata chiamata nel 2017 a valutare la costituzionalità dell'art. 131-bis c.p. nella parte in cui non prevede un limite minimo di pena al di sotto del quale sia comunque applicabile la causa di non punibilità ancorché il massimo edittale sia superiore a 5 anni (Corte costituzionale n. 207/2017).
Il caso sub judice riguardava il reato di ricettazione nella sua forma attenuata (fatto di particolare tenuità), previsto dall'art. 648 comma 2 c.p. Trattasi di circostanza attenuante speciale per effetto della quale la pena prevista è fino a 6 anni, anziché 8 anni come la ricettazione-base; senonché, a differenza del primo comma dell'art. 648 c.p., non è previsto un minimo edittale. Sia pure definito di particolare tenuità, il fatto di ricettazione non rientra nell'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. in ragione del massimo della pena superiore a 5 anni. Vero è, però, che in mancanza della previsione di un minimo di pena edittale, il Giudice potrebbe applicare la reclusione di appena 15 giorni, ai sensi dell'art. 23 c.p. Il che renderebbe il caso concreto di particolare tenuità non solo rispetto al reato di ricettazione-base, ma anche in assoluto, ossia degno di non essere punito ai sensi dell'art. 131-bis c.p. qualora il comportamento risulti non abituale.
La Corte dichiarò l'infondatezza della questione motivando sia con l'esigenza di salvaguardare la discrezionalità legislativa, sia con l'inidoneità dei tertia comparationis elencati dal giudice a quo. Tuttavia non si astenne dal rilevare l'asimmetria tra il secondo ed il primo comma dell'art. 648 c.p. «mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme». Per questo invitava il legislatore a considerare l'introduzione anche di una pena minima che consentisse l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. indipendentemente dal massimo edittale, per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui.
Il medesimo caso, più diffusamente motivato, fu riproposto all'attenzione della Corte costituzionale nel 2020 (C. cost. n. 156/2020). Questa volta però la Corte, nel prendere atto del mancato seguito al monito indirizzato al legislatore tre anni prima, non si è sottratta dal compiere un intervento additivo, censurando «alla luce dell'art. 3 Cost., l'intrinseca irragionevolezza della preclusione dell'applicazione dell'esimente di cui all'art. 131-bis c.p. per i reati –come la ricettazione di particolare tenuità- che lo stesso legislatore, attraverso l'omessa previsione di un minimo di pena detentiva e la conseguente operatività del minimo assoluto di cui all'art. 23, comma 1, c.p., ha mostrato di valutare in termini di potenziale minima offensività» e dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 131-bis c.p. nella parte in cui non consente di applicare la causa generale di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale.
L'intervento della Legge delega di riforma
A presiedere la Corte costituzionale all'epoca della decisione sopra ricordata era la prof. Marta Cartabia, ossia la medesima persona che, da Ministro della Giustizia, appena due anni dopo dava il proprio nome alla riforma della giustizia ed in particolare, per quanto qui di interesse, varava la delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.
All'art. 1 comma 21 si prescrive al delegato di prevedere «come limite all'applicabilità della disciplina dell'art. 131-bis c.p., in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni».
In conclusione
E' stato osservato in dottrina come l'art. 131-bis c.p. sia un caso di esclusione della pena che discende dagli stessi criteri a disposizione del giudice per commisurarla, costituendo quindi un ulteriore strumento commisurativo di cui lo stesso giudice è stato dotato (cfr. D. Brunelli La tenuità del fatto nella riforma “Cartabia”: scenari per l'abolizione dei minimi edittali? in Sistema Penale, 13 gennaio 2022). Così come l'art. 62-bis c.p. consente al giudice di correggere il minimo di pena edittale qualora lo stesso appaia, nel caso concreto, troppo elevato, così l'art. 131-bis c.p. gli consente di valutare una qualunque pena, sia pur minima, inadeguata rispetto al fatto ed alla persona sottoposta al suo giudizio.
In una prospettiva costituzionalmente orientata, il principio di proporzione, che presiede al campo dell'applicazione della pena, non può prescindere da quello di meritevolezza della pena per quei fatti di reato che in concreto siano connotati da speciale tenuità; d'altro canto, l'unico strumento idoneo ad attuare tale principio, è il giudizio discrezionale del Giudice di merito (seppur orientato dal legislatore attraverso l'indicazione di parametri). |