Problemi interpretativi e criticità operative di due “innovazioni” del Codice rosso

Pasquale Giorgio
29 Luglio 2022

La sospensione condizionale della pena in caso di violenza domestica e di genere e il divieto di sospensione dell'esecuzione della pena in caso di violenza assistita.
Premessa

La l. 69/2019, comunemente conosciuta come “Codice rosso”, ha profondamente modificato ed innovato la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, prevedendo l'accelerazione della procedura (soprattutto nella sua prima fase), l'introduzione di nuove fattispecie di reato e l'inasprimento delle sanzioni.

Trattasi di una riforma di largo respiro che, tuttavia, presta il fianco a qualche critica.

Uno degli aspetti più significativi della riforma è indubbiamente costituito dall'introduzione dell'art. 165, comma 5 c.p., ovvero dell'obbligo della partecipazione a specifici percorsi di recupero in caso di condanna per reati di violenza domestica e di genere per poter usufruire della sospensione condizionale della pena.

Il nuovo istituto porta con sé difficoltà interpretative - dovute ad una certa approssimazione nella stesura della norma - e criticità operative in sede di concreta applicazione -dovute anche a carenze strutturali-, che rendono gravosa l'azione degli operatori di diritto e concretizzano il rischio di applicazioni disomogenee e/o, addirittura, praeter legem. Un'ulteriore innovazione della novella legislativa meritevole di approfondimento riguarda la re-introduzione dell'art. 572, comma 2, c.p. tra i reati ostativi alla sospensione dell'ordine di esecuzione della pena. Le tematiche sono legate a doppio filo poiché, nelle ipotesi di violenza assistita, in presenza di una condanna non condizionalmente sospesa, il divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione aprirebbe le porte del carcere anche in presenza di pene detentive brevi.

Codice rosso: luci ed ombre di una riforma di largo respiro

Trascorsi più di due anni dall'entrata in vigore della l. 69/2019, nel tracciare qualche valutazione di una riforma che ha toccato numerosi istituti, credo si possa affermare che essa abbia portato con sé complessivamente poche luci e molte ombre.

I fenomeni delittuosi riconducibili alla violenza domestica e di genere, purtroppo, non tendono a diminuire e con l'applicazione concreta della novella normativa sono emerse quelle criticità che, illo tempore, erano state già ampiamente ipotizzate dalla più attenta dottrina.

Innanzitutto il tempismo preteso dal cd. “Codice rosso”, nell'ottica di ridurre i tempi per l'adozione di eventuali provvedimenti protettivi, non consente di stimare la diversità fattuale del singolo caso concreto, così che spesso vengono trattate alla stessa stregua situazioni del tutto dissimili tra loro in termini di disvalore e pericolosità; in definitiva si è determinato un insidioso appiattimento della risposta repressiva sotto il segno dell'urgenza.

Vieppiù che gli accertamenti “sommari” derivati dai ristretti lassi temporali in cui gli operatori sono costretti ad agire si prestano anche ad utilizzi strumentali da parte delle vittime, soprattutto nei contesti di aperta conflittualità che solitamente accompagnano la fase finale delle relazioni affettive.

La riforma poi non può andare esente da critiche in relazione all'introduzione della nuova figura di reato di cui all'art. 387-bis c.p., che punisce la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa adottati dal giudice, in via cautelare. Orbene, ante riforma, l'inosservanza delle prescrizioni imposte trovava risposta sanzionatoria esclusivamente in termini endo- processuali con l'aggravamento della misura cautelare, soluzione quest'ultima certamente più tempestiva ed efficace rispetto al sistema attuale che prevede l'iscrizione di un ulteriore procedimento penale che, eventualmente, potrebbe spiegare i propri effetti solo all'esito del giudizio e quindi molto tempo dopo. E' davvero difficile, allora, comprendere l'utilità dell'introduzione di questa autonoma figura delittuosa, che ha determinato il proliferare di iscrizioni presso le Procure (dal “Rapporto: un anno di Codice Rosso” presentato dal Ministero della Giustizia e che comprende una rilevazione statistica dei dati raccolti presso gli uffici giudiziari fra il 1° agosto 2019 e il 31 luglio 2020, è emerso che sono state aperte ben 2.735 indagini per violazione dell'art. 387-bis c.p.); in relazione a condotte che probabilmente sarebbe stato più fruttuoso osteggiare in via cautelare con l'aggravamento della misura e/o, in via definitiva, all'esito del medesimo procedimento penale mediante l'applicazione di un trattamento sanzionatorio più severo e/o, magari, mediante la previsione di un'apposita circostanza aggravante (si consideri che, in caso di condanna per il reato principale e poi per la violazione della misura cautelare, presumibilmente tra le due condanne potrà trovare applicazione vincolo della continuazione).

La riforma di alcuni istituti, poi, si pone addirittura in contrasto con lo spirito di altre riforme in itinere: in caso di condanna in relazione alla fattispecie aggravata di cui all'art. 572 comma 2 c.p. introdotta dal Codice rosso, l'ordine di carcerazione non può essere sospeso, traducendosi questo in una presunzione di pericolosità fissata per tipologia di reato, laddove il progetto di riforma cd. Cartabia, ad esempio, contiene una delega per la revisione del sistema sanzionatorio ed in particolare delle sanzioni sostitutive al fine di rendere il carcere un'autentica ultima ratio.

Vero tutto quanto sopra, appare però eccessivamente ingeneroso tracciare un quadro così severo senza tener conto di alcuni fattori: gli episodi di violenza domestica post-riforma sono aumentati di certo anche a causa del confinamento forzato dovuto alla pandemia; la riforma sconta l'oggettiva difficoltà di trovare un equilibrio tra l'esigenza di intervenire rapidamente e quella di non pregiudicare le garanzie del diritto di difesa; infine alcuni ambiti della riforma ancora non hanno trovato una significativa applicazione, circostanza che impedisce di tracciarne una realistica valutazione.

L'obbligo della partecipazione a percorsi di recupero per beneficiare della sospensione condizionale: problemi interpretativi e criticità operative dell'art. 165, comma 5, c.p.

Uno degli aspetti più significativi della riforma è costituito indubbiamente dall'introduzione dell'art. 165, comma 5 c.p., che ha profondamente innovato l'istituto della sospensione condizionale della pena.

Come noto, ai sensi dell'art. 165, comma 5, c.p. (introdotto alla l. 69/2019) la concessione della sospensione condizionale, nei casi di condanna per i delitti di cui agli artt. 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis c.p., nonché agli artt. 582 e 583-quinquies c.p. nelle ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 576, comma 1, n. 2, 5 e 5.1, e 577, comma 1, n. 1, e comma 2, c.p. è sempre subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati. Tale previsione legislativa seppure meritevole di considerazione, inserendosi nel solco delle tematiche culturali e giuridiche volte al recupero e non solo alla punizione, tuttavia è di difficile interpretazione e di problematica attuazione; vediamo quali sono le peculiarità dell'istituto, che ne fanno un unicum nel nostro ordinamento giuridico.

La partecipazione ad un percorso terapeutico è condizione obbligatoria sin dalla prima condanna e prescinde dalla volontà del reo; la riforma, dunque, preclude completamente al Giudice quel giudizio prognostico sul pericolo di recidivanza che solitamente è chiamato a svolgere in vista della concedibilità del beneficio della pena sospesa.

Inoltre, per la prima volta, l'obbligo viene a consistere in una condotta perdurante nel tempo - similmente a quanto avviene con lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità - mentre, secondo l'impostazione tradizionale, l'obbligo di adempiere si perfeziona in un solo momento, potendo consistere o nella prestazione di natura patrimoniale (quando il beneficio è subordinato all'adempimento degli obblighi alle restituzioni) ovvero in un onere (obbligo di facere/non facere) diretto all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. La norma è stata solo tratteggiata e risulta incompleta e mancante della normativa di dettaglio.

Il Legislatore, infatti, si è limitato a fare un generico riferimento alla “partecipazione a specifici percorsi di recupero” senza chiarire se sia sufficiente l'impegno di una futura partecipazione (una dichiarazione di volontà dell'imputato di parteciparvi in caso di futura condanna), ovvero se la sospensione condizionale della pena possa essere concessa solo in caso di avvenuta o perdurante partecipazione al momento della condanna.

Inoltre non sono stati minimamente illustrati né i contenuti né la durata dei percorsi di uscita dalla violenza.

Soprattutto il Legislatore non ha specificato se alla fine si dovrà dar prova che il percorso abbia effettivamente portato alla rieducazione: non è chiaro, in definitiva, se per ottenere il beneficio basti la partecipazione ai percorsi secondo la tempistica indicata nella sentenza di condanna ovvero se il percorso di recupero dovrà necessariamente concludersi con una relazione positiva dell'ente o dell'associazione.

Invero, guardando alle prime applicazioni del nuovo istituto, la tendenza pare sia quella di privilegiare quest'ultima soluzione, così che la concessione della sospensione condizionale della pena rimane subordinata alla positiva conclusione del percorso di recupero.

A sommesso parere di chi scrive tale impostazione, oltre a costituire una evidente forzatura interpretativa (il testo della norma parla di partecipazione), evidenzia un ulteriore elemento di criticità in quanto la decisione circa l'ottenibilità del beneficio è rimessa alla discrezionale valutazione dell'ente somministrante, soggetto del quale il Legislatore non ha indicato né i requisiti né le professionalità minime.

Non è tutto. L'istituto di nuova introduzione sconta ulteriori criticità a livello sistemico-strutturale, che determinano non pochi problemi in termini applicazione concreta.

I centri per uomini autori di violenza sono oggettivamente pochi, soprattutto in prospettiva e sono stati raggiunti, improvvisamente, da un elevato numero di richieste, tanto che bisogna mettersi in fila qualora si volesse intraprendere un percorso.

I predetti centri, inoltre, prima di intraprendere un percorso, organizzano degli incontri preliminari, così da operare una sorta di “selezione all'ingresso”: verificano la predisposizione del richiedente e valutano la potenziale utilità del percorso.

Quid iuris nel caso in cui, in base alla loro discrezionale valutazione, le associazioni/enti presenti sul territorio non dessero la disponibilità ad accogliere il richiedente oppure dovessero interrompere unilateralmente il percorso già intrapreso?

Potrebbe questa situazione essere intesa quale impossibilità originaria o sopravvenuta di adempiere l'obbligo, con conseguente concessione del beneficio, o determinerebbe la mancata concessione ovvero la revoca dello stesso?

E ancora: cosa accadrebbe qualora il richiedente non riuscisse incolpevolmente a concludere il percorso nel termine indicato in sentenza? Il PM promuoverebbe direttamente incidente di esecuzione per ottenere la revoca del beneficio? A chi dovrebbero essere inviate eventuali istanze rivolte a dar prova che il mancato rispetto del termine indicato in sentenza non è dipeso dalla condotta colpevole del condannato?

E allora è evidente come una certa approssimazione del testo normativo si traduca in incertezza interpretativa e, di conseguenza, in inaccettabili trattamenti disomogenei di situazioni simili. Si rileva poi un ulteriore problema pratico: i centri richiedono come prerequisito necessario per la partecipazione ad un percorso la perfetta conoscenza della lingua italiana.

La sospensione condizionale della pena sarebbe comunque concedibile al condannato straniero che è stato rifiutato da tutte le associazioni presenti sul territorio perché non conosce perfettamente la lingua italiana? Ovviamente non sono contemplabili limitazioni alla possibilità di vedersi riconosciuto un beneficio previsto dalla legge; si profilano dunque anche problemi di tenuta costituzionale del nuovo art. 165, comma 5, c.p. in relazione all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede la partecipazione ai percorsi con il supporto di un interprete per chi non conoscesse la lingua italiana.

Altro aspetto meritevole di approfondimento riguarda il rapporto tra la sentenza di condanna a pena sospesa ex art. 165 comma 5 c.p. e la misura cautelare in atto: ci si chiede se la pronuncia della sentenza determini l'automatica ed immediata inefficacia della misura cautelare ovvero se l'inefficacia della misura sia correlata all'esito positivo del percorso. Il problema si pone soprattutto in relazione alle ipotesi di patteggiamento, poiché in tali ipotesi la sentenza potrebbe essere pronunciata ad una minima distanza di tempo rispetto alla denuncia dei fatti. Si ritiene che qualora si optasse per la seconda soluzione, si violerebbe inesorabilmente il disposto normativo dell'art. 300, comma 3, c.p.p.

Tutte le sopra individuate criticità operative hanno praticamente gettato nello sconforto tutti gli operatori di diritto e non a vario titolo coinvolti nell'applicazione pratica del disposto normativo.

Per sopperire a tale nebulosità in diversi distretti sono state emanate delle indicazioni operative livello territoriale, relative alle nuove modalità operative per l'applicazione del disposto di cui all'art. 165, comma 5, c.p., cui va il merito di avere fornito delle direttrici idonee ad orientare l'azione degli operatori e a garantire soluzioni omogenee quantomeno a livello territoriale. Nonostante gli sforzi profusi, tuttavia, persistono in materia dubbi, interrogativi e problemi irrisolti.

L'istituto è in fieri e i quesiti superano di gran lunga le certezze.

In quest'ottica si segnala che in data 16 febbraio 2022 è stato presentato in Senato lo schema del nuovo disegno di legge in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne presentato che, relativamente all'art. 165 comma 5 c.p. prevede al fine di individuare gli enti o le associazioni e gli specifici percorsi di recupero cui il condannato deve partecipare il giudice si avvalga degli U.E.P.E., cui spetterà poi accertare l'effettiva partecipazione del condannato al percorso di recupero e comunicarne l'esito al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza.

Il divieto di sospensione delle pene detentive brevi in caso di violenza assistita: la natura “mobile” e non “materiale” del rinvio operato dall'art. 656 comma 9, lettera a), c.p.p.

La l. n. 69/2019, tra l'altro, ha reinserito l'art. 572, comma 2 c.p. fra i reati ostativi alla sospensione dell'ordine di esecuzione; vale la pena, in premessa, fare un breve cenno all'excursus normativo che ha interessato l'art. 656 c.p.p. in riferimento all'art. 572 c.p.

In particolare con il d.l. 78/2013 l'art. 656 comma 2, lett. a) c.p.p. era stato modificato mediante l'introduzione del riferimento all'art. 572, comma 2 c.p.; tale comma era stato poi abrogato con il successivo d.l. n. 93/2013 e il relativo contenuto era stato trasferito nell'art. 61, comma 1, n. 11-quinquies), c.p. che presenta identica formulazione testuale, ad eccezione del limite di età del minore, elevato da quattordici a diciotto anni.

Con la l. 19 luglio 2019, n. 69 è stato, infine, reinserito l'art. 572, comma 2, c.p. con la previsione della circostanza aggravante speciale della c.d. violenza assistita, sia pure in una versione più ampia rispetto a quella prevista dalla versione vigente prima della riforma del 2013; anteriormente alla modifica, infatti, non era mai stata contemplata quale aggravante del reato di maltrattamenti la circostanza della presenza del minore.

Con la novella legislativa è sorto in giurisprudenza un dibattito avente ad oggetto la successione normativa in tema di maltrattamenti in famiglia e sospensione della pena detentiva; in particolare il nodo che la giurisprudenza è stata chiamata a sciogliere riguarda nello specifico la natura “mobile” o “materiale” del richiamo contenuto nell'art. 656 comma 9, lett. a), c.p.p. all'art. 572, comma 2, c.p., al fine di stabilire se il richiamo alla circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 11-quinquies c.p.p. («…l'avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza…») determini l'ostatività del reato e, quindi, il divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena, anche per le condotte di violenza assistita antecedenti alla novella dell'agosto 2019.

Secondo gli ultimi approdi della Corte di legittimità la commissione del reato in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge stessa costituisce comunque titolo ostativo alla sospensione, già previsto come tale dall'art. 656, comma 9 lett. a) c.p.p. il cui testo è rimasto sempre immutato (Cass. pen., sez. I, 17 marzo 2021, n. 10373).

Tale approdo interpretativo valorizza la natura "mobile" del rinvio contenuto nell'art. 656 c.p.p., comma 9, all'art. 572 c.p., comma 2, e la continuità normativa tra l'ipotesi (solo) formalmente abrogata e l'analoga previsione di cui all'art. 572 c.p., comma 1 e art. 61, comma 1, n. 11-quinquies, c.p.: in sostanza con la novella non sarebbe intervenuto un mutamento sostanziale e la trasformazione dell'elemento aggravatore da circostanza ad affetto comune a circostanza ad effetto speciale non avrebbe spiegato alcuna incidenza sulla disciplina della sospensione dell'esecuzione.

Va tuttavia dato atto dell'esistenza di un diverso orientamento giurisprudenziale che, tenendo conto dei principi enunciati dal Giudice delle leggi nella sentenza 32 del 2020, sostiene invece che la modifica dell'articolo 572 c.p. e l'espunzione del collegamento tra l'articolo 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies abbia realizzato una modifica sostanziale e sia pertanto idonea a limitare l'effetto ostativo alle sole fattispecie ora inserite nel testo dell'articolo 572 c.p., comma 2, oggetto di modifica. Secondo questo orientamento le modifiche normative indicate non possono operare retroattivamente, estendendosi a fatti commessi prima dell'entrata in vigore della l. 19 luglio 2019, n. 69 in forza del principio dell'irrettroattività della legge penale sfavorevole e alla maggiore afflittività che riguarda anche la possibilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione, quali quelle previste dalle misure alternative alla detenzione (Cass. pen., sez. I, 3 dicembre 2020, n. 34492).

In definitiva, dunque, come peraltro affermato dal Giudice delle Leggi in una recente pronuncia (Cass. pen., sez. V, 4 gennaio 2021, n. 74) la continuità normativa tra l'originaria forma aggravata del reato di maltrattamenti e quella introdotta con l'art. 61, n. 11-quinquies, c.p. deve intendersi limitata alle condotte commesse "in danno" dei minori di anni 14, unico terreno comune ad entrambe le aggravanti; non rientrano, viceversa, nell'originaria previsione, nè possono ritenersi richiamate in forma "mobile" o formale, ai fini di cui all'art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a), le ulteriori forme di aggravamento della condotta introdotte solo successivamente; l'effetto ostativo della “violenza assistita” è da intendersi quindi introdotto ex novo con l'aggravante ad effetto speciale di cui al secondo comma dell'art. 572 c.p., come inserito dalla legge n. 69/2019 e il divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti del condannato per il delitto di maltrattamenti aggravato dalla presenza di minori non si applica alla condanna per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 69/2019.

Chiariti tali aspetti di diritto intertemporale, quanto alle condotte poste in essere dopo l'entrata in vigore della riforma della riforma “Codice rosso”, pare opportuno fissare alcuni princìpi, stigmatizzando il rischio di possibili disguidi che potrebbero essere originati della novella legislativa.

In tema di cd. violenza assistita (la violenza assistita è stata definita dal Cismai - Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso dell'Infanzia - come «il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori») la giurisprudenza di legittimità è solita porre un netto distinguo tra i casi in cui il minore è vittima del reato perché, sebbene non direttamente oggetto delle condotte di maltrattamento, ha comunque subito nella crescita l'effetto negativo causato dall'avere assistito a condotte concretanti una situazione abituale di sopraffazione all'interno del proprio nucleo familiare, dalla differente ipotesi in cui il minore, senza subire un tale effetto, sia stato solo presente durante la commissione di una delle condotte integranti il reato di cui all'art. 572 c.p. o altri delitti contro la libertà personale, affermando l'applicabilità, in tale seconda ipotesi, dell'aggravante disciplinata dall'art. 61 c.p., n. 11-quinquies (C. cost., 7 luglio 2021, n. 183).

Si auspica, allora, che tale “distinguo” continui ad operare, evitando che, con la novella normativa, la circostanza aggravante ad affetto speciale prevista dall'art. 572, comma 2, c.p. finisca per trovare un'applicazione automatica e che vi si faccia rientrare ogni ipotesi di condotta commessa in presenza di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità; la precitata circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall'art. 572, comma 2, c.p. (con conseguente ostatività del reato) potrà e dovrà trovare applicazione in luogo della circostanza aggravante comune di cui all'art. 61, comma 1, n. 11-quinquies c.p., solo laddove si sia in presenza di una percezione ripetuta di condotte maltrattanti che sia foriera di esiti negativi nei processi di crescita morale e sociale del soggetto “colpito” indirettamente dalla violenza.

Da ultimo merita un cenno una recentissima sentenza della Corte di cassazione (Cass. pen., sez. I, 18 marzo 2022, n. 9228), in tema di rilevanza del percorso trattamentale per uomini maltrattanti ai fini della concessione di misure alternative alla detenzione in caso di condanna per uno dei reati a sfondo sessuale previsti dall'art. 4-bis, comma 1-quater, l. 354/1975 (Legge sull'Ordinamento Penitenziario).

Con la pronuncia in esame la Corte, ha rigettato il ricorso e dichiarato la legittimità dell'ordinanza di inammissibilità del Tribunale di Sorveglianza di Venezia che aveva dichiarato l'indefettibilità dell'osservazione scientifica integrata e di durata almeno annuale intramuraria per i condannati di reati a sfondo sessuale, laddove il ricorrente sosteneva la legittimità della richiesta di affidamento in prova fondata sul fatto che il condannato avesse intrapreso -prima di entrare in carcere- un percorso di riabilitazione sociale per "uomini maltrattanti", oltre a sollevare dubbi di costituzionalità del requisito previsto dall'articolo 4-bis ord. penit.

La Corte di legittimità, dunque, riprendendo sinteticamente i precedenti in materia (Cass. pen. sez. I, n. 12138/2018), ha affermato che l'osservazione collegiale intramuraria di durata annuale costituisce presupposto indefettibile per la concessione di misure alternative al condannato per atti sessuali e non ammette equipollenti, sancendo il principio della non sovrapponibilità tra il percorso riabilitativo per uomini maltrattanti e il periodo di osservazione psicologica e ribadendo, inoltre, che la norma di cui all'art. 4-bis, comma 1-quater ord. penit. non viola la funzione riabilitativa della pena, in quanto la prescritta collegialità di esperti nell'osservazione annuale in carcere risponde alla gravità e alla complessità dell'iter di recupero di soggetti che si macchiano di tali delitti.

In conclusione

Tra le varie innovazioni che la l. 69/2019 ha portato con sé, si è incentrata la trattazione sull'obbligo del condannato di cui all'art. 165 comma 5 c.p.p. e sul divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione in caso di violenza assistita per le conseguenze “nefaste” che possono determinarsi, a determinate condizioni, facendo applicazione congiunta dei due istituti di nuova introduzione: in particolare, in presenza di una condanna non condizionalmente sospesa, il divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione aprirebbe le porte del carcere anche in presenza di pene detentive brevi.

Da quanto sopra esposto è evidente come agli operatori sia demandato il difficile compito di colmare le lacune e porre rimedio alle incongruenze determinate da un legislatore approssimativo, distante dalle aule giudiziarie e molto più attento al clamore mediatico delle proprie scelte.

Le tematiche trattate e il coinvolgimento di un bene supremo quale la libertà personale avrebbero meritato uno sforzo definitorio ben maggiore di quello profuso dal legislatore nell'elaborazione del nuovo art. 165, comma 5, c.p.

Non si può che confidare nell'adeguata formazione e nella collaborazione di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nell'applicazione dell'istituto, così da dar vita a soluzioni congiunte ed a trattamenti omogenei.

Quanto invece all'ostatività del reato e, quindi, al divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena, in caso di condanna per condotte di cd. violenza assistita o comunque di maltrattamenti in forma aggravata, si ritiene che lo sforzo maggiore sia da demandarsi agli interpreti: si auspica che i capi di imputazione prima e le sentenze poi non contengano automatismi e mantengano il dualismo tra le ipotesi di violenza assistita - con applicazione dell'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 572 comma 2 c.p. - e le ipotesi in cui dovrà essere applicata unicamente l'aggravante comune di cui all'art. 61 comma 1, n. 11-quinquies c.p. a seconda che si versi nell'ipotesi di una percezione ripetuta di condotte maltrattanti che sia foriera di esiti negativi nei processi di crescita morale e sociale del soggetto indirettamente “colpito” dalla violenza, ovvero nell'ipotesi in cui la vittima indiretta sia stato presente durante la commissione di una delle condotte integranti il reato di cui all'art. 572 c.p. o altri delitti contro la libertà individuale.

Da ultimo una considerazione di ordine generale: stupri, femminicidi, atti persecutori e qualsiasi tipo di condotta riconducibile alla violenza domestica e di genere, frutto anche di una cultura ancora troppo intrisa di sessismo, costituiscono le condotte più abiette ed esecrabili e si deve continuare ad affrontare tali fenomeni come una vera e propria emergenza nazionale; questo però non rende accettabile un livellamento delle situazioni nel segno dell'urgenza, né giustificabili applicazioni disomogenee e/o, addirittura, praeter legem di norme approssimative e non univocamente interpretabili.

L'obiettivo di un ordinamento giuridico avanzato non può che essere quello di affinare gli strumenti di prevenzione e repressione di tali fenomeni e cercare di limarne le possibili storture e criticità.

Il tema è molto delicato e, purtroppo, il fenomeno registra ancora percentuali molto alte: allora è auspicabile che gli interventi legislativi - dai contenuti a tratti propagandistici e approssimativi e incentrati prevalentemente sulla repressione -, siano sorretti da interventi strutturali e che pongano al centro la formazione e la cultura.

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