La tutela penale contro la violenza di genere. Il fenomeno del c.d. revenge porn

02 Agosto 2022

L'autrice esamina la questione del revenge porn inquadrando la fattispecie normativa declinata nei suoi vari aspetti nell'attesa di nuovi sviluppi giurisprudenziali.
Inquadramento

Con la l. 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. codice rosso), il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento, oltre a due nuove figure di reato volte alla repressione dei fenomeni dello sfregio permanente al viso e del matrimonio forzato, anche il reato di Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (c.d. “revenge porn”). La fattispecie di cui al nuovo art. 612-ter c.p. punisce, infatti, la condotta di chi pubblica, o comunque diffonde, immagini e video dal contenuto sessualmente esplicito in assenza del consenso della persona rappresentata. Nonostante una formulazione legislativa non propriamente felice, che deterina infatti non pochi dubbi interpretativi, la scelta del legislatore di approntare una tutela ad hoc del fenomeno deve essere decisamente salutata con favore: il c.d. “revenge porn” costituisce purtroppo un fenomeno “in crescita”, i cui effetti sono sempre più pervasivi e devastanti per le vittime.

Fonte: ilpenalista

Violenza di genere e violenza domestica: una premessa

Molti anni sono passati da quando nel 1988 la Cassazione aveva pronunciato, in tema di violenza sessuale, la tristemente nota “sentenza sui jeans” (Cass. pen. n. 1636/1998), suscitando l'indignazione dell'opinione pubblica di allora.

Da allora, la necessità di predisporre un sistema di tutela adeguato ed efficace per contrastare le forme di violenza poste in essere nei confronti di soggetti c.d. “deboli” ha trovato un sempre più diffuso consenso nella società civile.

In campo internazionale, diverse fonti normative si sono occupate del tema. Tra queste, possiamo citare la Convenzione di Lanzarote del Consiglio d'Europa del 25 ottobre 2007, ratificata con legge n. 172/2012, relativa alla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali; la Convenzione del Consiglio d'Europa di Istanbul sulla "Prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica" dell'11 maggio 2011, ratificata anche dall'Italia con la l. 27 giugno 2013 n. 77, cui dobbiamo la definizione del concetto di violenza contro le donne e violenza domestica; la Direttiva 2011/99/UE sull'ordine di protezione europeo (OPE); la Direttiva 2012/29/UE (cd. direttiva vittime), relativa alle «norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato», cui è stata data attuazione con il d.lgs 15 dicembre 2015 n. 212. Oggi, le espressioni “violenza di genere”, “violenza contro le donne”, “violenza domestica” sono entrate a far parte del linguaggio comune.

Con riferimento a queste espressioni, però, è opportuno svolgere qualche osservazione preliminare, per meglio comprendere le dinamiche specifiche di queste forme di violenza.

La definizione del concetto di “violenza contro le donneè contenuta nella Convenzione di Istanbul sulla Prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del Consiglio d'Europa dell'11 maggio 2011, ratificata anche dall'Italia con la l. 27 giugno 2013 n. 77. In particolare, «con l'espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata». La violenza può essere integrata anche dal compimento di un atto singolo (non è necessario che ci siano più episodi, si pensi alla violenza sessuale di una sconosciuta) e può consistere anche in una violenza di tipo psicologico.

Per “violenza di genere” s'intende, invece, la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere (considerato n. 18 della c.d. Direttiva vittime 2012/29/UE): comprende le violenze sessuali, la tratta di esseri umani, la schiavitù, i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. reati d'onore.

La “violenza domestica” si caratterizza, infine, per la c.d. relazione di prossimità tra l'autore del fatto e la vittima, ossia per la posizione di stretta vicinanza, fisica o psicologica, tra i due soggetti, nella quale può verificarsi – per gradi – il passaggio ad una situazione di violenza. La relazione di prossimità non viene necessariamente meno nel caso in cui la vittima interrompa il rapporto affettivo (diventando ex partner) oppure non sia convivente o non lo sia mai stato con l'autore del fatto. Infatti, sempre secondo la definizione della citata Convenzione di Istanbul, il concetto di violenza domestica comprende uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.

Sul piano interno, l'attuale quadro repressivo delle cd. violenze di genere e violenze domestiche è articolato in una serie di ipotesi criminose di varia intensità: dalle molestie alle minacce, ai maltrattamenti contro familiari e conviventi, alla riduzione o mantenimento in schiavitù, alla prostituzione e minorile, alla tratta di persone, all'acquisto o alienazione di schiavi, alla violenza sessuale, agli atti sessuali con minorenne, alla corruzione di minorenne, alla violenza sessuale di gruppo.

Tuttavia, la necessità di contrastare il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza e di rendere più efficace, sia sotto il profilo sostanziale che processuale, la tutela riservata alle vittime di violenza in generale, e delle donne in particolare, ha indotto il legislatore ad intervenire a più riprese.

Il d.l. 23 settembre 2009 n. 11, conv. in l. 23 aprile 2009 n. 38, ha introdotto nel nostro ordinamento il c.d. reato di stalking (art. 612-bis c.p.). Successivamente, il d.l. 14 agosto 2013 n. 93 (c.d. “decreto - femminicidio”), conv. in l. 15 ottobre 2013 n. 119 ha introdotto, tra l'altro, nuove circostanze aggravanti, tra cui, in relazione al reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), la previsione dell'aggravante della relazione affettiva sic et sempliciter, a prescindere cioè dalla convivenza o dal vincolo matrimoniale attuale o pregresso. Ed ancora, in relazione al reato di atti persecutori, l'aggravante è stata estesa anche al coniuge non separato o separato di fatto e alla persona legata da una relazione affettiva attuale ovvero anche al caso del fatto «commesso attraverso strumenti informatici o telematici».

Più di recente, la l. 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. codice rosso) ha introdotto alcune modifiche al codice penale, al codice di rito e ad altre disposizioni, con l'obiettivo, esplicitato nel titolo, di assicurare la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. La ratio, espressa nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, è quella di assicurare la tempestività degli interventi, cautelari o di prevenzione, a tutela della vittima. Lo pseudonimo “codice rosso” è stato scelto, infatti, proprio per evidenziare le similitudini con le situazioni emergenziali del Pronto soccorso, al fine di individuare una corsia privilegiata più rapida e snella per la tutela delle vittime di violenze domestiche e di genere. Infine, oltre ad un aumento delle pene per i reati commessi in ambito familiare o di convivenza, oltre che per i reati di violenza sessuale e atti persecutori, è stata prevista l'introduzione di nuove figure di reato volte alla repressione dei fenomeni dello sfregio permanente al viso, del matrimonio forzato e del c.d. revenge porn, ovvero della pubblicazione in rete di immagini e video sessualmente espliciti di cui è protagonista l'ex partner dell'agente.

Il reato di "Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti" ex art. 612-ter c.p. (c.d. “revenge porn”)

In Italia, il tema della tutela delle vittime della pornografia virtuale e del cyberbullismo è stato a lungo sottovalutato. Solo con l'aumentare dei casi di cronaca, i mezzi di comunicazione hanno iniziato a interessarsi sempre più del fenomeno, contribuendo a sensibilizzare l'opinione pubblica.

Constatate le difficoltà di assicurare la punibilità delle condotte di diffusione di materiale pornografico non autorizzato attraverso il ricorso alle preesistenti ipotesi criminose, quali la diffamazione, le interferenze illecite nella vita privata, di riprese e registrazioni fraudolente, la diffusione di materiale pedopornografico (art. 600-ter c.p.), il legislatore ha deciso - all'ultimo, attraverso la previsione di un emendamento – di introdurre nel Codice Rosso una nuova previsione incriminatrice ad hoc, al fine di colmare la lacuna.

In particolare, il reato di Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.) è stato inserito all'interno dei delitti contro la libertà morale, subito dopo il reato di atti persecutori.

Innanzitutto, occorre premettere che l'etichetta “revenge porn” utilizzata durante i lavori parlamentari trae in equivoco, perché sembra limitare la tutela penale solo ai casi di diffusione del materiale per finalità di vendetta da parte dell'ex partner. Invece, come vedremo, almeno per quanto riguarda il primo comma, la rilevanza penale è molto più estesa.

Passando al piano strutturale, il legislatore ha tipizzato due fattispecie: la prima (primo comma) si realizza quando la diffusione è commessa dal c.d. “distributore iniziale” (cioè da colui che ha realizzato o sottratto il materiale); mentre la seconda (secondo comma) si realizza quando la diffusione è commessa dal c.d. distributore secondario (cioè da colui che ha ricevuto o «comunque» acquisito il materiale).

È interessante notare che nel caso del primo comma, pur venendo incriminata una condotta posta in essere da “chiunque”, il reato appare in realtà realizzabile solo da chi abbia previamente realizzato o sottratto le immagini o i video a contenuto sessualmente esplicito: siamo dunque in presenza di una c.d. “qualifica implicita” (ovvero, desumibile per via interpretativa dal modo in cui viene descritta la fattispecie tipica) idonea a connotare l'ipotesi in commento come un caso di reato proprio, o meglio “di mano propria”.

Nell'ipotesi del secondo comma, si tratta invece di un reato comune perché il fatto può essere commesso da chiunque, cioè anche da un soggetto che non conosce la vittima. In questa ipotesi, il legislatore ha richiesto espressamente dolo specifico, prevedendo che il c.d. “secondo distributore” debba agire «con il fine di recare nocumento» alla vittima.

Sul piano della tipicità, le fattispecie sono reati di mera condotta: la scelta è lineare con l'intento perseguito dal legislatore e il bene giuridico protetto. Il disvalore si incentra, infatti, nella condotta di diffusione illecita, senza la necessità di dover attendere che l'effetto dannoso (es. la visione del materiale da parte di terzi) si verifichi.

Venendo alle modalità della condotta, è da notare come le stesse siano descritte secondo la deprecabile tecnica normativa dell'esemplificazione (invia, consegna, cede, pubblica, diffonde): il ricorso a tale tecnica desta quasi sempre preoccupazione per il pericolo che restino fuori modalità innovative non previste, oltre che per l'indistinta parificazione sotto il profilo del disvalore.

Infine, il legislatore ha scelto di prevedere la mancanza del consenso della vittima come “elemento negativo di tipicità”, idoneo ad escludere la stessa configurabilità della dimensione oggettiva dell'illecito. Ne discende che l'agente deve rappresentarsi il dissenso: in caso di dubbio, dovrebbe astenersi dalla diffusione del materiale. Qualora però l'agente sia caduto in errore derivato da colpa (consenso putativo) si dovrebbe escludere il dolo (ex art. 47 c.p.)

Il problema della rilevanza del c.d. sexting

Il primo comma della previsione prevede, come presupposto della condotta, che l'agente (o distributore iniziale) abbia realizzato o sottratto il materiale pornografico.

Per quanto riguarda il concetto di “realizzazione”, esso comprende sia le forme lecite (si pensi alla mutua scelta di fotografarsi) o che quelle illecite (il caso è, ad es., quello delle foto carpite con dolo). Il concetto di “sottrazione” sembra richiamare, invece, le forme di sottrazione materiale o telematica che si traducono in furto (art. 624 c.p.) o appropriazione indebita (art. 646 c.p.).

Tuttavia, esistono alcune ipotesi in cui l'agente di fatto non realizza né sottrae alcun materiale: si pensi al caso della vittima che registra autonomamente il contenuto sessualmente esplicito e lo invia ad un soggetto terzo tramite cellulare (c.d. sexting).

In relazioni a tali ipotesi, si dovrebbe escludere l'integrazione della fattispecie, dato che sotto il profilo strettamente letterale è espressamente richiesto il presupposto della realizzazione o sottrazione del materiale. Onde evitare il rischio di un'inammissibile interpretazione analogica in malam partem, si dovrebbe escludere la rilevanza penale di simili condotte, nonostante sotto il profilo del disvalore siano particolarmente offensive del bene giuridico protetto.

Il requisito della natura privata del materiale “sessualmente esplicito”

Alcuni dubbi derivano anche dal requisito, previsto dal legislatore, secondo cui le immagini o i videoa contenuto sessualmente esplicito, oggetto di diffusione, devono essere originariamente «destinati a rimanere privati».

Innanzitutto, per quanto riguarda la nozione di «immagini o video a contenuto sessualmente esplicito», la dottrina ha rivelato come si tratti di un concetto vago. L'esatta definizione di tale nozione sembrerebbe essere lasciata al discrezionale apprezzamento dell'interprete in sede applicativa, a seconda che si faccia riferimento alla c.d. tesi anatomica o, con un'interpretazione estensiva, alla diversa e più moderna tesi c.d. contestuale.

Per quanto attiene, invece, al requisito dell'originaria destinazione privata del materiale, le perplessità riguardano il rischio di creare pericolosi vuoti di tutela. In effetti, a stretto rigore, si dovrebbe arrivare ad escludere la rilevanza penale, ad esempio, delle pubblicazioni – non autorizzate – di materiale girato da attori che, dopo aver girato il video con l'intento di diffusione, abbiano un ripensamento e revochino il consenso alla pubblicazione.

Le conseguenze di politica criminale che ne discenderebbero sono discutibili: sotto il profilo del bene giuridico offeso, la diffusione non autorizzata di materiali pornografici lede partimenti la libertà sessuale e il diritto alla riservatezza, sia che tali materiali siano stati realizzati con l'originario intento di diffusione oppure fin dall'inizio con l'intento di rimanere privati. Nell'ambito delle limitazioni di diritti personali indisponibili, infatti, il consenso, per poter essere valido, deve essere sempre revocabile fino all'ultimo, valendo la regola – vista l'importanza dei beni coinvolti - del recesso ad nutum.

La previsione del dolo specifico da parte del c.d. “distributore secondario”

Nel caso di cui al secondo comma, cioè di colui che sia venuto in possesso del materiale come distributore secondario, il legislatore ha richiesto espressamente il dolo specifico, ossia il «fine di recare nocumento» alla vittima. La scelta di richiedere il dolo specifico solleva, tuttavia, ulteriori perplessità.

Per effetto di tale requisito, infatti, sembrano destinati a restare fuori dal campo applicativo della tutela tutti quei casi – potenzialmente più gravi e statisticamente più probabili – in cui il secondo distributore diffonda i materiali non per motivi di vendetta personale, ma molto più semplicemente per mera leggerezza o superficialità, per trarne un beneficio personale, per acquisire visibilità (like e visualizzazioni sui propri profili), oppure per finalità economiche (come nel caso di siti scandalistici nei confronti di personaggi celebri).

In conclusione

Nonostante le perplessità appena espresse in ordine alla formulazione (non felicissima) della fattispecie ed in attesa delle prime applicazioni giurisprudenziali, la scelta del legislatore di approntare una tutela ad hoc deve essere salutata con favore: il c.d. “revenge porn” costituisce purtroppo un fenomeno esponenziale, i cui effetti sono sempre più pervasivi e devastanti per la vittima stante la diffusione dei mezzi di comunicazione e dei “social” che ormai pervadono la nostra vita.

Eppure, da solo, lo strumento penalistico si rivela insufficiente. L'irreversibilità della pubblicazione e l'intensità del danno psicologico subito dalle vittime contribuiscono a rendere la tutela penale, che interviene solo ex post, a danno verificatosi, un rimedio del tutto inefficace sotto il profilo riparatorio della dignità e dell'integrità lese.

La lotta contro la violenza di genere e familiare dovrebbe essere condotta, piuttosto, partendo dalla consapevolezza dei limiti e dell'insufficienza dello strumento penalistico. Nel contesto di violenze di genere e di relazioni affettive “tossiche”, lo strumento penale difficilmente riesce a svolgere una funzione general-preventiva verso i consociati, se non è accompagnato da un sistema – prima di tutto culturale – che condanni aspramente tali forme di violenza attraverso lo stigma sociale.

Oltre alle previsioni penali, volti al rafforzamento della tutela repressiva, occorrerebbe infatti che l'attenzione del legislatore fosse rivolta al potenziamento degli interventi preventivi, volti all'informazione e alla sensibilizzazione della collettività, alla predisposizione di programmi di prevenzione, assistenza, aiuto psicologico preventivo ai soggetti “pericolosi” a rischio di future violenze (es. soggetti già condannati per altri reati o segnalati dagli assistenti sociali), oltre che alla predisposizione di percorsi rieducativi e di risocializzazione dei soggetti a rischio, con controlli periodici da parte degli assistenti sociali e del servizio sanitario pubblico.

Riferimenti

In dottrina sul tema: G.M. Caletti, “Revenge porn” e tutela penale, in DPC-Riv. trim., 2018, 3 67 ss.; G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all'epoca di internet. L'art. 612 ter c.p. e l'incriminazione della pornografia non consensuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 4, 2044 ss.; M. Mattia, “Revenge porn” e suicidio della vittima: il problema della divergenza tra ‘voluto' e ‘realizzato' rispetto all'imputazione oggettiva degli eventi psichici, in www.lalegislazionepenale.eu, 19.7.2019; C. Zannelli, “Revenge porn”. Pregi e aporie della nuova fattispecie di cui all'art. 612 ter c.p., in Dir. fam. pers., 2021, 3, 1427 ss.

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