Questioni in tema di espulsione dal territorio dello Stato: competenze del giudice di sorveglianza
04 Agosto 2022
Premessa
Nel (complesso, se non addirittura caotico) sistema normativo vigente sono previsti vari tipi di espulsione. In funzione dell'organo competente a disporre l'espulsione dal territorio dello Stato è possibile distinguere tra espulsione amministrativa (art. 13 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 e s.m.i.) ed espulsione giudiziale. La prima può essere disposta dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato ovvero dal prefetto nei casi previsti dall'art. 13, comma 2 e segg. d.lgs. n. 286 del 1998 cit.
L'espulsione giudiziale, a sua volta, si articola in tre diverse figure: A) l'espulsione come misura di sicurezza: appartengono a questa categoria: a-1) l'espulsione prevista dall'art. 235 c.p. che è ordinata dal giudice in caso di condanna alla reclusione per un tempo superiore a due anni ed è applicabile anche nei confronti dello straniero extracomunitariomunito di permesso di soggiorno “atteso il preminente interesse dello Stato all'allontanamento di una persona che, commettendo reati di una certa gravità si è rivelata incline a delinquere e, dunque, socialmente pericolosa” (Cass. sez. III, 12.01.2016, n. 6707, Caushi, in C.E.D. Cass., n. 266276; Cass. sez. V, 29.11.2018, n. 1953, Negu, in C.E.D. Cass., n. 274439). L'art 235 c.p. prevede anche la misura di sicurezza personale non detentiva dell'allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell'Unione europea sempre in caso di condanna del medesimo ad una pena superiore ai due anni;
a-2) l'espulsione prevista dall'art 86 del d.P.R.n. 309 del 1990 e s.m.i. applicabile in caso di condanna per reati commessi in violazione della disciplina sugli stupefacenti. L'inquadramento di tale figura nella categoria delle misure di sicurezza si deve alla giurisprudenza della Corte Costituzionale ed in particolare alla sentenza n. 58 del 1995. Invero l'art. 86, comma 1 nella sua versione originaria configurava l'espulsione come una conseguenza automatica della sentenza di condanna; tale automaticità è venuta meno per effetto della citata sentenza della Corte Costituzionale. In ogni caso, come precisato in giurisprudenza, l'espulsione di cui all'art 86, comma 1, « deve essere disposta ogni volta che si riconosca la pericolosità sociale del condannato. Tale speciale configurazione obbligatoria impone che sia comunque esplicitata la valutazione in ordine alla pericolosità sociale: questa, pur se negativa (con conseguente mancata applicazione della misura) deve essere comunque espressa. Diversamente la natura facoltativa della misura prevista dall'art. 235 c.p. non comporta alcun onere di esplicitazione della valutazione negativa in ordine alla pericolosità, che può considerarsi implicita ogni volta che la misura non venga applicata » (Cass. sez. II, 20 luglio 2016, n. 39359, Adna, massimata in C.E.D. Cass., n. 260303; il carattere facoltativo, ai sensi del principio generale enunciato dall'art 202 c.p., dell'espulsione prevista dall'art. 235 c.p. è confermato anche da Cass. sez. IV, 26.02.2019, n. 13599, Proc. Gen. Brescia-Hamdani, inedita nonché da Cass. sez. II, 17.02.2021, n. 16400, PG - JA, in C.E.D. Cass., n. 281123-01, a tenore della quale nel caso in cui tale misura non venga applicata con la sentenza di condanna deve ritenersi implicita la valutazione negativa in ordine alla pericolosità sociale del condannato). Cass. sez. II, 2.02.2021, n. 7104, Keizie, in C.E.D. Cass., n. 280546, ha puntualizzato che l'espulsione dello straniero può essere disposta anche in caso di condanna per il reato di cui all'art. 73, comma 5 d.P.R.cit., « non assumendo alcuna rilevanza che tale fattispecie costituisca una ipotesi autonoma e non un ipotesi attenuata della norma in questione ». Tale tipo di espulsione è applicabile anche al cittadino appartenente ad uno Stato membro dell'Unione Europea trattandosi di previsione non contrastante con gli artt. 18, 39 e 46 del Trattato istitutivo della Comunità (che fa espressamente salve le limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri giustificate da motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità pubblica) ferma restando la necessità che la misura de qua non venga adottata in modo automatico ma soltanto a seguito della preventiva valutazione della pericolosità sociale del soggetto (Cass. sez. VI, 17.09.2004, n. 40808, El Mezoughi, in C.E.D. Cass., n.230262; Cass. sez. IV, 3.05.2007, n.22511, Bleta e altri, in C.E.D. Cass., n. 237029; Cass. sez. I, 18.11.2008, n. 44336, Grosso, in C.E.D. Cass., n. 242202);
a-3) l'espulsione prevista dall'art .15, comma 1 del d.lgs. 286 cit., in forza del quale il Giudice può, fuori dei casi previsti dal codice penale, ordinare l'espulsione a titolo di misura di sicurezza dello straniero extracomunitario condannato per uno dei delitti previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p. (e cioè i reati per i quali è previsto l'arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza);
B) l'espulsione come pena sostitutiva che può essere disposta dal giudice in caso di condanna a pena detentiva non superiore a due anni: in presenza delle condizioni previste dall'art. 16, comma 1 del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudice, nel pronunciare sentenza, anche di patteggiamento ex art 444 c.p.p., per un reato non colposo, può sostituire la pena detentiva con l'espulsione dal territorio dello Stato;
C) l'espulsione come pena alternativa disciplinata dall'art. 16, comma 5 del d.lgs. 286/1998 cit., riservata alla competenza funzionale del giudice di sorveglianza. L'espulsione dal territorio dello Stato, come ogni altra misura di sicurezza personale, può essere ordinata e concretamente eseguita solo a condizione che il giudice abbia accertato la pericolosità sociale dell'imputato prima e del condannato poi. L' art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 ha stabilito che tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa. L'accertamento della pericolosità sociale effettuato dal giudice della cognizione ai fini dell'applicazione dell'espulsione deve pertanto essere seguito da un ulteriore accertamento, riservato alla competenza funzionale del giudice di sorveglianza che procede su impulso del Pubblico Ministero; ed è proprio all'esito di questo secondo accertamento che è subordinata la concreta esecuzione della misura di sicurezza. Ai fini della eseguibilità della misura di sicurezza è dunque necessario che il giudice di sorveglianza ritenga ancora sussistente e, quindi, attuale, la pericolosità sociale illo tempore accertata dal giudice della cognizione.
La misura dell'espulsione è ordinata con la sentenza di condanna emessa all'esito del giudizio dibattimentale o di quello abbreviato. A certe condizioni l'espulsione può essere ordinata anche con la sentenza di patteggiamento di cui all'
art. 444 comma 1 c.p.p. Sul punto occorre distinguere, sulla scorta dell'
art. 445, comma 1 c.p.p. , tra patteggiamento ordinario e quello c.d. allargato istituito dalla
legge n. 134 del 2003 .Nel caso di patteggiamento ordinario l'unica misura di sicurezza che può essere ordinata dal giudice è la confisca nei casi previsti dall'
art. 240 c.p. Tuttavia, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza (cfr. da ultimo
Cass. sez. unite, 26 settembre 2019, n. 21368 , Savin, in C.E.D. Cass. n. 279348), le parti possono comprendere nell'accordo anche l'applicazione di una misura di sicurezza (quindi anche dell'espulsione dal territorio dello Stato). In tal caso la sentenza di patteggiamento sarà ricorribile per cassazione nei limiti previsti dall'
art. 448, comma 2-bis c.p.p. (che tra i motivi deducibili prevede quello della illegalità della pena o della misura di sicurezza). Se all'esito del ricorso per cassazione la misura di sicurezza dovesse risultare illegale la sentenza di patteggiamento sarà annullata senza rinvio, “dal momento che la rilevata illegalità rende invalido l'intero accordo” (Cass. sez. unite cit. § 11.4 della motivazione).Nel caso in cui il giudice nel pronunciare la sentenza di patteggiamento ordinario abbia ordinato l'applicazione della misura di sicurezza che non abbia formato oggetto dell'accordo delle parti, la decisione sarà impugnabile con ricorso per cassazione per vizio di motivazione. In caso di patteggiamento allargato la misura di sicurezza può essere applicata anche a prescindere dall'accordo delle parti. Come puntualizzato dalle Sezioni Unite se il giudice dispone una misura di sicurezza « sulla quale non è intervenuto l'accordo tra le parti, la statuizione relativa – che richiede accertamenti circa i previsti presupposti giustificativi ed una pertinente motivazione [...] - è impugnabile [...] con ricorso per cassazione anche per vizio di motivazione ex art. 606, comma 1 c.p.p. » (Cass. sez. unite cit. § 12 della motivazione; come noto il “presupposto giustificativo” è costituito dalla pericolosità sociale dell'imputato, pericolosità che deve essere accertata sulla base delle circostanze indicate all'
art 133 c.p. al quale rinvia l'art. 203, comma 2 dello stesso codice).Le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: « a seguito della introduzione della previsione di cui all'
art. 448, comma 2-bis c.p.p. , è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell'accordo»§ 14 della motivazione).
Come noto l'unico mezzo di impugnazione esperibile avverso la sentenza di patteggiamento è costituito dal ricorso per cassazione; alla luce di quanto dispone l'
art. 448, comma 2-bis c.p.p. , tale rimedio è proponibile soltanto « per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto ed alla illegalità della pena o della misura di sicurezza ».Per pena illegale s'intende la pena che per specie o quantità non corrisponde a quella astrattamente prevista dalla fattispecie incriminatrice, così collocandosi fuori dal sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, o che, comunque è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su una cornice edittale inapplicabile perché dichiarata costituzionalmente illegittima (si pensi, con riguardo a quest'ultima ipotesi, alla recente sentenza n. 40 del 2019 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'
art. 73, comma 1 del d.P.R.309/1990 e s.m.i. nella parte in cui tale norma fissava in anni 8 anziché in anni 6 di reclusione il minimo edittale della pena per le condotte delittuose da essa previste).In questa prospettiva l'illegalità della misura di sicurezza è configurabile in caso di radicale estraneità al sistema della misura per mancanza degli elementi strutturali rispetto al modello tipico applicabile al caso concreto. Secondo
Cass. sez. III, 17.12.2018, n. 20781 , P.G. in proc. El Ghazzani, inedita, la nozione di misura di sicurezza illegale non sembra determinabile secondo i parametri utilizzabili per individuare la nozione di pena illegale essendo « difficile ipotizzare una misura che, per specie ovvero per quantità, non corrisponda a quella astrattamente prevista, o che è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su parametri edittali inapplicabili. Piuttosto, la nozione di misura di sicurezza illegale sembra far riferimento alle misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge, cioè dagli
artt. 25, comma 2 cost. e199 c.p. ». In questa diversa prospettiva l'illegalità della misura di sicurezza è configurabile in caso di misura di sicurezza applicata in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge.
Deve escludersi che la sentenza di patteggiamento con la quale il giudice della cognizione abbia omesso di pronunciarsi in ordine all'espulsione ex
art. 86, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 sia impugnabilecon l'appello al Tribunale di Sorveglianza ai sensi degli
artt. 579, comma 2 e
680, comma 2 c.p.p. (che attribuiscono a tale giudice la competenza a decidere sulle impugnazioni limitate al solo capo della sentenza concernente le disposizioni sulle misure di sicurezza): al riguardo è sufficiente osservare che l'unico mezzo di impugnazione esperibile avverso la sentenza emessa ai sensi degli
artt 444 e segg. c.p.p. è costituito dal ricorso per cassazione e che pertanto una diversa soluzione comporterebbe la violazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione (
Cass. sez. III, 3.02.2010, n. 7641 , Grigoras, in C.E.D. Cass., n. 246196).
Come detto, il presupposto indispensabile per l'applicazione di ogni misura di sicurezza e, quindi, anche dell'espulsione dal territorio dello Stato, è costituito dalla pericolosità sociale che, come noto, consiste nel pericolo di commissione di nuovi reati. Tale presupposto deve essere accertato sulla scorta delle circostanze indicate dall' art. 133 c.p. e, in particolare, di quelle indicate nel comma 2 della norma.Per quanto riguarda l'accertamento della pericolosità sociale riservato alla competenza del giudice di sorveglianza va osservato che un rilievo particolare deve essere attribuito alla condotta serbata dal condannato in epoca successiva alla consumazione del reato. Se la pena è stata espiata in carcere il giudice deve tener conto, tra l'altro, del comportamento intramurario del reo e delle indicazioni che emergono dall'osservazione della personalità alla quale sono sottoposti di detenuti ai sensi dell'
art. 13 ord. pen. (e27 del d.P.R. n. 230 del 2000 – così detto regolamento penitenziario); mentre se il condannato ha espiato la pena (in tutto o in parte) in regime di misura alternativa (affidamento in prova, detenzione domiciliare …) il giudice di sorveglianza deve tener conto della condotta serbata dal reo durante la sottoposizione alla misura stessa con particolare riferimento al rispetto delle prescrizioni imposte dal Tribunale di sorveglianza con l'ordinanza che applicato la misura.In tema di accertamento della pericolosità sociale ai fini dell'espulsione
Cass. sez. V, 18.05.2020, n.23101 , Jriji, in C.E.D. Cass., n. 279388, ha ritenuto incongrua la motivazione del giudice del merito che, ai fini dell'applicazione della predetta misura di sicurezza, aveva desunto la pericolosità sociale dell'imputato dalla inottemperanza a due precedenti provvedimenti di espulsione. A sua volta
Cass. sez. I, 26.06.2020, n. 23826 , Aynla, in C.E.D. Cass., n. 279987, ha affermato che « la condizione di irregolare presenza in Italia, dovuta alla mancanza di un valido titolo di soggiorno, non costituisce, di per sé, elemento idoneo a fondare un giudizio sfavorevole di prognosi criminale, potendo assumere una tale valenza solo qualora lo straniero, per effetto dello stato di irregolarità, versi nell'impossibilità di procurarsi lecitamente i mezzi di sussistenza». Secondo l'opinione prevalente nella giurisprudenza di legittimità l'espulsione come pena alternativa ex art. 16, comma 5 cit. « si configura come una misura atipica nell'impianto dell'esecuzione penale avente natura sostanzialmente amministrativa, attraverso cui viene anticipato il provvedimento disciplinato dall'art. 13 » del d.lgs. n. 286 del 1998 « la quale assolve il compito di evitare il sovraffollamento carcerario e della quale è obbligatoria l'adozione in presenza delle condizioni fissate dalla legge » (Cass. sez. I, 31.10.2018, n. 1028, El Bouchetaouy, inedita; Cass. sez. II,13.12.2019, n.14443, Rezvazishvili, inedita; Cass. sez. I, 25.01.2019, n. 10456, Beu, inedita; Cass. sez. I, 12 dicembre 2019, n. 6817, Farhat, inedita; Cass. sez. I, 18 giugno 2020, n. 23750, Alja, inedita)
L'applicazione dell'espulsione, diversamente da quanto accade per le misure alternative vere e proprie, prescinde dalla valutazione della pericolosità del condannato e delle sue prospettive di reinserimento sociale; come statuito da Cass. sez. I, 9 aprile 2019 Qosja, n.m., tale particolare natura giuridica comporta che l'espulsione è esclusa dall'ambito di operatività del divieto triennale di concessione di benefici penitenziari di cui all'art. 58-quater, comma 2, ord. pen. Ne consegue che il giudice di sorveglianza può ordinare l'espulsione dello straniero detenuto in carcere a causa della revoca dell'affidamento in prova (revoca che, viceversa, preclude, per il periodo di tre anni, l'applicazione dell'affidamento, della detenzione domiciliare e della semilibertà).
L'espulsione è subordinata alla sussistenza delle seguenti condizioni: - che il condannato sia uno straniero compiutamente identificato; - che sia detenuto in espiazione di pena non superiore a due anni e non imputabile a reati indicati dall'art. 16, comma 5 c.p.p. (es. i delitti previsti dall'art 407, comma 2, lett. a), con esclusione, però, dei reati di rapina aggravata ed estorsione aggravata per i quali pertanto l'espulsione è possibile). In caso di concorso di reati o di unificazione di pene concorrenti, l'espulsione è disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena relativa alla condanna per reati che non la consentano; - che il condannato si trovi in una delle situazioni indicate nell'art. 13, comma 2 del d.lgs. 286 cit. Come evidenziato dalla giurisprudenza, anche costituzionale trattasi si situazioni che consentono di disporne l'espulsione amministrativa « alla quale si dovrebbe comunque e certamente dare corso al termine dell'esecuzione della pena detentiva, cosicché, nella sostanza, viene solo ad essere anticipato un provvedimento di cui già sussistono le condizioni » (C. cost. ord. 226 del 2004).
L'art. 13, comma 2 del d.lgs. n. 286 del 1998prevede che l'espulsione dal territorio dello Stato è disposta dal prefetto quando lo straniero: a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto; b) si è trattenuto nel territorio dello Stato in assenza della comunicazione di cui all'art 27-bis dello stesso decreto; b-1) si è trattenuto nel territorio dello Stato senza avere richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore; b-2) si è trattenuto nel territorio dello Stato quando il permesso di soggiorno è stato revocato, annullato o rifiutato; b-3) si è trattenuto nel territorio dello Stato quando il permesso di soggiorno è scaduto da più di 60 giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo. Secondo quanto affermato da Cass. sez. I, 4.04.2013 n. 20014, Ben Makhlouf, in C.E.D. Cass., n. 256029, non può annoverarsi tra i presupposti legittimanti l'espulsione la situazione del condannato che, avendo chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno se lo sia visto rifiutare, trattandosi di ipotesi che non figura tra quelle tassativamente previste dalla norma di talché una diversa soluzione darebbe luogo ad una analogia in malam partem; b-4)si è trattenuto nel territorio dello Stato in violazione dell'art. 1, comma 3 della legge 28.05.2007, n. 68; c) appartiene ad una delle categorie indicate negli artt. 1, 4 e 16 del d.lgs. 6.09.2011, n. 159 (codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione).
L'art. 1 indica le categorie di soggetti quali possono essere applicate dal Questore le misure di prevenzione del foglio di via e dell'avviso orale; l'art 4 indica le categorie di persone alle quali può essere applicata, con provvedimento del Tribunale, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale (eventualmente con divieto di soggiorno in uno o più comuni ovvero con obbligo di soggiorno nel comune di residenza); infine l'art. 16 si riferisce ai soggetti destinatari delle misure di prevenzione patrimoniali.
Occorre infine tener presente che l'espulsione prevista dall'art. 16 del d.lgs. n.286 del 1998 e s.m.i. (espulsione come sanzione sostitutiva e come pena alternativa) non può essere ordinata: a) nei confronti dei cittadini comunitari, in forza di quanto dispone l'art. 1, comma 1 del d.lgs. 286 cit. (così come sostituito dall'art. 37, comma 2 del d.l. 25.06.2018 n. 112, convertito, con modificazioni, nella l. 6.08.2008 n. 133), che, per altro, prefigura la possibilità di deroga in ragione di quanto previsto delle norme di attuazione dell'ordinamento comunitario; b) quando sussistono le ragioni umanitarie indicate dall'art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998 e s.m.i. che integrano altrettante condizioni ostative all'espulsione (vedi infra). I divieti di espulsione
L'art. 19 è stato modificato prima dal decreto legge 4 ottobre 2018, n.113, convertito con modificazioni nella legge 1dicembre 2018, n. 132, poi dal decreto legge 21 ottobre 2020, n.130, convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n.173 ed è applicabile a tutte le ipotesi di espulsione giudiziale (quindi non solo all'espulsione come sanzione sostitutiva e come pena alternativa previste dall'art. 16 del T.U. sull'Immigrazione, ma anche all'espulsione come misura di sicurezza).
Il nuovo testo del citato art. 19 prevede che l'espulsione non può essere ordinata: 1) se lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, di orientamento sessuale, di identità di genere (art. 19, comma 1);
2) se sussistono fondati motivi per ritenere che straniero rischia di essere sottoposto a tortura o a trattamento inumano e degradante, ovvero qualora ricorrano gli obblighi di cui all'art 5, comma 6 del decreto delegato (art. 19, comma 1.1); Con riguardo a dette ipotesi grava sullo straniero che si oppone all'espulsione l'onere di provare « in modo efficace » di essere esposto « a un rischio oggettivo, realistico e personale » di subire i trattamenti vietati dalla norma (Cass. sez. III, 19.03.2019, n.19662, Imarhiagb, inedita: nel caso di specie, relativo ad un'espulsione disposta ai sensi dell'art. 86 del d.P.R. n. 309 del 1990, il condannato aveva allegato di essere titolare di un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria e di essere esposto, nel paese di origine, ad un serio rischio per la propria incolumità in ragione del credo religioso);
3) se sussistono fondati motivi per ritenere che l'allontanamento del territorio nazionale comporti la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare. A tal fine occorre tener conto della « natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese di origine». In ogni caso il pericolo di violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare non può integrare una causa ostativa all'espulsione quando tale misura sia necessaria « per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute », fermo restando il rispetto della Convezione di Ginevra sullo status di rifugiato (art. 19 comma 1.1, seconda parte). Mette conto osservare che è errato considerare il “diritto all'unità del nucleo familiare” come una condizione di per sé ostativa all'espulsione: cfr Cass. sez. I, 11 marzo 2021, n. 13054, Ali, n.m., che nel rigettare il ricorso proposto avverso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino (che, a sua volta, aveva rigettato l'appello proposto dal condannato avverso l'ordinanza con la quale il Magistrato di sorveglianza di Cuneo aveva dichiarato eseguibile la misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato), ha osservato: « non ritiene il Collegio che sul punto siano fondate le censure mosse in ricorso quanto all'omessa considerazione del diritto all'unità del nucleo familiare, che il Tribunale ha preso in esame in modo specifico, ma ritenuto non costituire una remora efficiente in grado di neutralizzare i motivi che possono indurre Ali a violare nuovamente la legge penale e comunque non tali da realizzare una delle condizioni ostative all'espulsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, posto che il condannato è convivente con genitori e fratelli non cittadini italiani»(il Tribunale aveva valorizzato, oltre alla gravità dei reati commessi, «la radicata dedizione al traffico anche internazionale di droga in quantità ingenti», la mancata concessione di benefici penitenziari, la presenza di un contesto familiare poco rassicurante per la presenza di padre e fratelli gravati da plurimi precedenti di polizia, l'assenza di occupazione e di fonti di reddito, la negazione della condizione di tossicodipendenza, pur affermata durante la detenzione, e poi negata, appunto, una volta riacquistata la libertà).
4) se si tratta di straniero minore degli anni 18 non accompagnato (art. 19, comma 1-bis);
5) se si tratta di straniero minore degli anni 18, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi (art. 19, comma 2, lett. a));
6) se lo straniero è in possesso della Carta di Soggiorno, salvo il disposto dell'art 9 stesso d.lgs. (art. 19, comma 2, lett. b));
7) se lo straniero convive con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana (art. 19, comma 2, lett. c)). A seguito dell'equiparazione operata dalla legge 20.05.2016, n. 76, del contratto di convivenza al matrimonio civile e della parificazione, prevista dall'art 38, comma 1 ord. pen. ai fini delle facoltà previste dalla legge penitenziaria, del convivente di fatto al coniuge tra le situazioni ostative all'espulsione figura anche la convivenza more uxorio tra lo straniero ed un cittadino italiano (per la giurisprudenza: Cass. sez. I, 27.06.2016, n.44182, Zagoudi, in C.E.D. Cass., n. 268038; Cass. sez. I, 31.10.2018, n.1028, cit. che richiama anche la necessità di osservare l'art 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo che impone all'autorità pubblica l'obbligo di rispettare la vita privata e familiare; Cass. sez. I, 15.03.2019, n.16385, Chigri, inedita, riguardante proprio l'espulsione prevista dall'art 16 del d.lgs. n. 286 del 1998 e s.m.i.). Quanto alla convivenza more-uxorio Cass. sez. I, 11 marzo 2021, n.13052, Mullaj, n.m., ha puntualizzato che essa consiste «in una situazione di fatto, da accertare nella sede di merito, caratterizzata da stabile condivisione delle condizioni di vita e di interessi fra il condannato straniero e il soggetto che sia cittadino italiano o di altro Paese dell'Unione Europea regolarmente presente nel territorio dello Stato»; deve pertanto ritenersi irrilevante, ai fini dell'operatività del divieto di espulsione, un mero legame sentimentale. In argomento Cass. sez. I, 11 giugno 2021, n. 29006, Hiba, n.m., ha affermato che ai fini dell'operatività della causa ostativa all'espulsione costituita dalla convivenza con un parente entro il secondo grado di nazionalità italiana occorre che sussista un rapporto di coabitazione del quale sia stata accertata l'effettività secondo indici di apprezzabilità esterna, essendo per contro insufficiente la semplice “disponibilità all'accoglienza” del congiunto di nazionalità italiana (cfr. anche Cass. sez. I, 26 febbraio 2021, n.15114, Kinani, in C.E.D. Cass. n. 280904). Con riguardo al caso in cui i familiari conviventi non siano cittadini italiani Cass. sez. V, 29.11.2018, n. 1953, Neagu, in C.E.D. Cass., n. 274439, ha affermato, con riferimento all'espulsione quale misura di sicurezza ex art 235 c.p., che il giudice nella formulazione del giudizio di pericolosità che conduce all'espulsione (nel caso di specie non vietata, ex art. 19 d. lgs. 286 cit., per ragioni familiari) « dovrà tener conto dell'efficacia socializzante e risocializzante che ha il nucleo familiare, disponendo la misura solo quando il grado della stessa sia talmente elevato da non poter essere contrastato dall'esistenza del legame familiare (e da imporne il sacrificio) ».
8) se trattasi di donna in stato di gravidanza e nei sei mesi successivi alla nascita del figlio (art. 19, comma 2, lett. d). Per effetto della sentenza n. 376 del 2000 della Corte Costituzionale il divieto di espulsione si applica anche al marito convivente della donna;
9) se lo straniero « versa in gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie » (art. 19, comma 2, lett. d-bis). Formulazione di non agevole comprensione introdotta dal decreto legge n. 120 del 2020 con il quale, per ragioni essenzialmente ideologiche, che ha sostituito il testo previgente nel quale figurava l'espressione « condizioni di salute di particolare gravità ». Tale requisito deve essere accertato mediante idonea documentazione rilasciata da struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato col S.S.N.; in presenza di tale documentazione il Questore rilascia allo straniero un permesso di soggiorno “per cure mediche” della durata non superiore ad un anno, eventualmente rinnovabile in ragione della persistenza di condizioni di salute di particolare gravità eventualmente convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro (dovendosi al riguardo osservare che se lo straniero è in grado di svolgere attività lavorativa e, quindi, beneficiare del permesso di soggiorno è ragionevole ipotizzare che le condizioni di salute dello stesso non siano gravi al punto da giustificare l'operatività del divieto di espulsione). In argomento si è affermato: a) che la generica allegazione della sottoposizione del condannato a un programma terapeutico finalizzato al superamento della tossicodipendenza non consente di configurare, in caso di rimpatrio, l'esposizione a gravi e irrimediabili pregiudizio per la propria salute in quanto l'interessato ha l'onere di dimostrare che, nel Paese di provenienza, « non potrebbe giovarsi di analoghi interventi di recupero sociale e che, dunque, l'interruzione del percorso riabilitativo in atto comporterebbe, definitivamente, un vulnus assoluto delle sue legittime aspettative di cura e riabilitazione » (Cass. sez. I, Qosja, cit.). b) che la necessità di assicurare la tutela del diritto alla salute dello straniero integra una causa ostativa all'espulsione non solo con riguardo alle « alle prestazioni di pronto soccorso e di medicina d'urgenza » ma anche con riguardo a « tutte quelle altre da ritenersi parimenti essenziali per la vita. Tra queste ultime possono annoverarsi anche gli interventi terapeutici richiesti da patologie che non risultano pericolose nell'immediato, ma che nel tempo potrebbero determinare maggio danno alla salute e conseguenti gravi rischi per la vita (per complicanze, cronicizzazioni o aggravamenti) così da doversi considerare in tal caso la necessità di assicurare la continuità delle cure » Cass. sez. I, 15.03.2019, n.16383, Mlouki, n.m.). Ambito di applicazione dei divieti di espulsione
La giurisprudenza è divisa in merito al carattere tassativo o meno delle cause ostative all'espulsione. Secondo un primo orientamento le norme che prevedono le condizioni ostative all'espulsione hanno carattere eccezionale e, in quanto tali, non possono essere oggetto di applicazione analogica, (Cass. sez. I, 29.09.2015, n. 48648, Bachtragga, in C.E.D. Cass., n. 265387: nel caso di specie la Corte ha affermato che ai fini dell'applicazione dell'espulsione dal territorio dello Stato non rilevano legami familiari diversi da quelli espressamente contemplati dal citato art 19. Tale orientamento è condiviso anche da Cass. sez. I, 16 marzo 2018, n. 25373, Gabsi, inedita; Cass. sez. I, 16 marzo 2018, n. 25378, Lofti, inedita; Cass. sez. I, 5 dicembre 2019, n.136, dep. il 5 gennaio 2021, Kibja, inedita; Cass. sez. I, 19.12.2019, n. 10846, Otaigbe, in C.E.D. Cass., n. 278892, ove si afferma che « Nessuna modifica, viceversa, ha subito - ad eccezione dell'estensione giurisprudenziale al convivente more uxorio - l'ipotesi ostativa alla espulsione di cui alla lett. c) dell'art. 19 in favore degli “ stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana”. Pertanto, ai fini dell'applicazione della misura in questione, non rilevano i legami familiari diversi da quelli espressamente contemplati dall'art. 19 del medesimo decreto e, come già affermato dalla Corte Costituzionale, ai fini della norma citata, il concetto di “nazionalità” deve intendersi coincidente con quello di “cittadinanza” ». È stato, al riguardo, condivisibilmente affermato (sez. 1, n. 4). Al riguardo si è osservato che la disciplina dell'istituto costituisce espressione del « contemperamento tra esigenze contrapposte: quella dello Stato all'allontanamento del condannato straniero sulla base di norme di ordine pubblico e quella di quest'ultimo a trattenersi per conservare i legami familiari e personali, tanto da aver previsto per esigenze umanitarie una serie di esenzioni dalla soggezione all'espulsione, che, stante la loro eccezionalità non possono essere oggetto di interpretazione analogica, al fine di scongiurare facili scappatoie che renderebbero il regime di regolamentazione dell'immigrazione facilmente aggi e che costituiscono un ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco frutto di valutazioni discrezionali del legislatore » (Cass. sez. VII, 21.06.2018, n. 20319, Mendoza, inedita; nel caso di specie il condannato aveva dedotto che la madre aveva conseguito la cittadinanza italiana senza tuttavia fornire alcuna prova in ordine alla convivenza con la stessa nel periodo antecedente alla carcerazione).
Muovendo da tale premessa (eccezionalità delle cause ostative all'espulsione) si è affermato che «la mancata presentazione dell'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno scaduto da parte di un cittadino extracomunitario deve ascriversi alla sua negligenza e non può essere ritenuta una causa ostativa, rilevante ai sensi dell'art 19, commi 1 e 2, d.lgs. n. 286 del 1998 » (Cass. sez. I, 25.09.2018, n. 50964, Fouda, inedita; nel caso di specie il condannato aveva dedotto l'impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno che gli era stato rilasciato, per effetto dello stato detentivo in cui versava; in termini cfr. anche Cass. sez. I, 22.03.2018, n.4288/2019, Abdel Kabir, inedita, che in motivazione evidenzia che «la condizione detentiva deriva da una condotta imputabile al ricorrente»). Si è inoltre affermato che ai fini dell'espulsione non rilevano i legami familiari diversi da quelli espressamente contemplati dal citato art. 19: dalla natura amministrativa della misura non può discendere l'automatica applicabilità dei parametri di valutazione dettati da altre norme disciplinanti l'immigrazione a fini differenti, quali, ad esempio, dall'art. 13 comma 2-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, trattandosi di norma che riguarda l'espulsione amministrativa di coloro che si trovano nelle situazioni indicate dalla norma (comma 2) e non già di soggetti stranieri condannati e sottoposti ad esecuzione, destinatari dei provvedimenti specificamente regolati dall'art. 16, comma 5 cit.. Tale norma, come lucidamente puntualizzato dalla Suprema Corte, contiene « la regolamentazione specifica dell'istituto e la relativa disciplina costituisce essa stessa un contemperamento tra esigenze contrapposte – quella dello Stato all'allontanamento del condannato straniero sulla base di norme di ordine pubblico e quella dello straniero a trattenersi per conservare i legami familiari e personali – tanto da aver previsto per esigenze umanitarie una serie di esenzioni dalla soggezione all'espulsione che, fatte salve praticabili vie di interpretazione estensiva integratrice, conservano, pur sempre, un carattere tendenzialmente eccezionale, come tale insuscettibile di interpretazione analogica, e ciò al fine di scongiurare facili scappatoie che renderebbero il regime di regolamentazione dell'immigrazione facilmente aggirabile e che costituiscono un ragionevole bilanciamento tra gli interessi in giuoco, frutto di valutazioni discrezionali del legislatore » (Cass. sez. I, Kibja, cit..).
Secondo un diverso orientamento « le cause ostative alla stessa, indicate nel successivo art. 19, commi 1 e 2, non hanno natura tassativa, ma devono essere interpretate alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 252 del 2001, secondo cui il provvedimento di espulsione pronunciato nei confronti di persona irregolarmente soggiornante nello Stato non può essere eseguito qualora dall'esecuzione derivi un irreparabile pregiudizio per la salute dell'individuo; ne consegue che, nel caso in cui il condannato sia affetto da grave disabilità, ancorché questa non rientri tra le condizioni legislativamente poste a fondamento del divieto di espulsione, il giudice è comunque tenuto a verificare, in concreto, se del caso anche ricorrendo a mezzi istruttori, che l'espulsione non leda il nucleo irriducibile del diritto alla salute garantito dall'art. 32 Cost. » (Cass. sez. I, 31.10.2018, n. 1028, cit..; Cass. sez. I, 26.05.2017, n.38041. Mokkadi, in C.E.D. Cass., n. 270975). Tale impostazione è accolta anche da Cass. sez. I, 4.04.2018, n. 41949, S., in C.E.D. Cass., n. 273973, secondo cui le cause ostative previste dall'art. 19 devono essere integrate attraverso l'analisi delle fonti sovranazionali – quali la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la Carta di Nizza e le Direttive dell'Unione Europea sul tema – « tese a fornire tutela ai soggetti cui spetta il riconoscimento non solo dello status di rifugiato, ma anche della c.d. protezione sussidiaria, spettante anche nell'ipotesi di minaccia grave alla vita di un civile derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale »(Cass. sez. I, 18 maggio 2017, n. 49242, Lucky, ivi, n.271450, relativa ad un caso di espulsione quale misura di sicurezza, nel caso in cui sussista il fondato pericolo che lo straniero sia sottoposto alla pena di morte o a trattamenti disumani o degradanti). Ancora è stato affermato che ai fini dell'applicazione dell'espulsione dello straniero come misura alternativa alla detenzione il magistrato di sorveglianza non deve limitarsi a verificare l'insussistenza delle condizioni ostative previste dall'art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998 ma - previa eventuale acquisizione di informazioni - deve procedere, dandone adeguata motivazione, ad un'attenta ponderazione della pericolosità concreta ed attuale dello straniero in rapporto alla sua complessiva situazione familiare, tenuto conto della natura e dell'effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno in Italia nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali e sociali con il paese di origine (cfr. in questo senso Cass. sez. 1, 30.10.2019, n. 45973, Ramirez Chavez, in C.E.D. Cass., n. 277454 e Cass. sez. 1, 7.11.2019, n. n. 48950, Merawarage Fernando, in C.E.D. Cass., n. 277824). Da ultimo la Corte di legittimità ha affermato che il descritto contrasto interpretativo deve essere risolto alla luce della evidenziata modifica normativa introdotta con il decreto legge 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173, che ha novellato il terzo periodo dell'art. 19, comma 1.1., d.lgs. n. 286 del 1998 nei termini riportati al paragrafo 4. n. 3 del presente scritto. Ad avviso della Corte di Cassazione « Così facendo, il legislatore — con disposizione senz'altro rilevante nella fattispecie, in forza sia del principio generale per cui le modifiche normative che incidono in bonam partem sull'applicazione della legge penale hanno effetto sui procedimenti in corso che dell'espressa previsione dell'art. 15, comma 1, del citato decreto legge — ha stabilito che, nel valutare l'adozione del provvedimento di espulsione ex art. 16, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, l'autorità giudiziaria deve tener conto delle conseguenze che l'allontanamento del condannato dal territorio nazionale determinerebbe sulla sua vita privata e familiare e, dunque, riconosciuto la rilevanza, tra l'altro, di legami affettivi non inquadrabili nelle ipotesi tipizzate all'art. 19, comma 2, lett. c) » (così Cass. sez. 1, 6.05.2021, n. 34134, Braka, n.m.; nello stesso senso cfr. Cass. sez. I, 14.09.2021, n. 36513, Ben Chaabane, n.m.; nello stesso senso cfr. anche Cass. sez. I, 9.03.2021, n. 40087, Nagaz, n.m.). La protezione sussidiaria
La protezione sussidiaria costituisce, unitamente alla status di rifugiato, una delle forme nelle quali si attua, ai sensi del d.lgs. n. 251 del 2007, emanato in attuazione della direttiva 2004/83/CE, una delle forme di protezione internazionale. Giusto il disposto dell'art. 2 lett. e) del predetto decreto delegato per rifugiato s'intende lo straniero che non intende fare rientro nello Stato di cui è cittadino per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Si tratta di ipotesi previste anche dall'art. 19, comma 1 del d.lgs. n. 286 del 1998 ai fini dell'operatività del divieto di espulsione dal territorio dello Stato. Mette conto segnalare che il decreto legge n. 130 del 2020, sopra richiamato, ha introdotto tra i casi divieto di espulsione anche il pericolo che lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di orientamento sessuale e di identità di genere. Il riconoscimento dello status di rifugiato comporta la concessione del permesso di soggiorno con validità quinquennale (art. 23, comma 1 d.lgs. n. 251 del 2007). L'art. 2 lett. g) del d.lgs. n. 251 del 2007, stabilisce che può chiedere la protezione sussidiaria, il riconoscimento della quale si traduce nella concessione di un permesso di soggiorno avente durata quinquennale (art. 23, comma 2 del decreto come modificato dall'art. 1, comma 1, lett. p) d.lgs. n. 18 del 2014), eventualmente rinnovabile, lo straniero che non possiede i requisiti per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, ma nei confronti del quale sussistono fondati motivi di ritenere che, in caso di ritorno nel paese di origine, sarebbe esposto al rischio effettivo di subire un grave danno.
A tal fine l'art. 14 del decreto delegato considera grave danno: a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte; b) la sottoposizione a tortura o ad altra forma di trattamento disumano o degradante (ipotesi prevista dall'art 19, comma 1.1. del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n.110, poi modificato dal decreto legge n. 130 del 2020). c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Mette conto segnalare che in forza di quanto dispone l'art. 20 del d.lgs. n.251 del 2007, lo straniero ammesso a beneficiare della protezione sussidiaria può essere espulso: a) quando sussistono motivi per ritenere che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato; b) nel caso in cui rappresenta un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, quando è stato condannato con sentenza definitiva per un reato per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni. Resta ferma, in ogni caso, l'operatività dei divieti di espulsione previsti dall'art. 19, comma 1 del d.lgs. n. 286 del 1998 nonché la conformità agli obblighi internazionali ratificati dall'Italia. In particolare si è affermato che il Giudice di sorveglianza non può limitarsi alla verifica di una delle condizioni impeditive all'espulsione di cui al citato art. 19, « dovendo invece operare - acquisendo, ove occorra, le necessarie informazioni - un giudizio di contemperamento tra le esigenze poste a fondamento del provvedimento e quelle di salvaguardia delle relazioni familiari, con particolare riguardo alle necessità di cura dei figli minori conviventi, ancorché di nazionalità non italiana: invero, trattandosi di una forma di espulsione comunque amministrativa, la stessa è soggetta alle medesime garanzie, in particolare quelle previste dall'art. 13, comma 2-bis del citato d.lgs., che accompagnano l'omologa fattispecie espulsiva» (Cass. sez. I, 10 dicembre 2020, n. 5066, Sabouti, inedita; Cass. sez. I, 7 novembre 2019, n. 48950, Merawarge, in C.E.D. Cass. n. 277824). L'art. 13, comma 2-bis, introdotto dal d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5, dispone che nell'adottare il provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, ovvero del familiare ricongiunto, « si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il Paese di origine ». L'asserito carattere non tassativo dei divieti di espulsione previsti dall'art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998 apre dunque la possibilità alla interpretazione estensiva o integrazione analogica delle fattispecie delineate dalla citata norma alla luce di principi costituzionali o sovranazionali. Con riguardo a quest'ultimo aspetto, che concerne l'adempimento degli obblighi internazionali dello Stato, garantito dagli artt. 11 e 117 cost., occorre tener presente la Direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione, e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Tale Direttiva è stata recepita nell'ordinamento interno dal d.lgs. 6 febbraio 2007, n.30. Il decreto si applica al cittadino di uno Stato dell'Unione europea e ai suoi familiari « che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo » (art 3, comma 1, d.lgs. n 30 del 2007).
Ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. b) del decreto, per familiare deve intendersi: a) il coniuge; b) la persona che abbia contratto con il cittadino di uno Stato membro “una unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio”; c) i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni e quelli del coniuge o della persona convivente d) gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o della persona convivente. L'art. 20 del decreto prevede che il diritto di ingresso e di soggiorno del cittadino di uno Stato dell'Unione (e di un suo familiare nei termini sopra indicati) possa essere limitato, con apposito provvedimento, solo per motivi di sicurezza dello Stato, per motivi imperativi di pubblica sicurezza o per altri motivi di ordine pubblico o di sicurezza pubblica. La norma (comma 4) aggiunge che i provvedimenti di allontanamento « sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità » e non possono essere motivati « da ragioni estranee ai comportamenti individuali dell'interessato che rappresentino una minaccia concreta, effettiva e sufficientemente grave all'ordine pubblico o alla pubblica sicurezza » con la precisazione che « l'esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l'adozione di tali provvedimenti ». Il citato art. 20 stabilisce inoltre (comma 5) che nell'adottare il provvedimento di allontanamento occorre tener conto « della durata del soggiorno in Italia dell'interessato, della sua età, della sua situazione familiare e economica, del suo stato di salute, della sua integrazione sociale e culturale nel territorio dello nazionale e dell'importanza dei suoi legami con il Paese di origine ». Al riguardo si è statuito che ai fini dell'espulsione di un condannato extracomunitario che vanti legami familiari con un cittadino dell'Unione europea regolarmente soggiornante in Italia, il Giudice di sorveglianza « non può limitarsi a verificare che non ricorra una condizione ostativa prevista dall'art 19 del citato decreto, ma è tenuto ad accertare in via incidentale, con valutazione discrezionale assoggettata all'ordinario controllo di legittimità, la sussistenza delle rigide condizioni alle quali l'art. 20, del d.lgs. 6 febbraio 2007, n.30 di attuazione della Direttiva 2004/38/Convenzione Europea del 29 aprile 2004, subordina la misura dell'allontanamento del cittadino europeo o del familiare con lui convivente » (Cass. sez. I, 17 ottobre 2019, n. 915, Kouadio, in C.E.D. Cass. n. 278065; nel caso di specie l'espulsione era stata disposta nei confronti di uno straniero extracomunitario, ma coniugato, e convivente, con una donna di nazionalità bulgara, stabilmente residente in Italia; nello stesso senso Cass. sez. I, 14 luglio 2020, n.23399, Perndoj, in C.E.D. Cass., n.279440). Rapporti tra espulsione e misure alternative alla detenzione
Il carattere obbligatorio dell'espulsione e la finalità di ridurre la popolazione carceraria hanno indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio in forza del quale l'adozione di tale misura (il riferimento è sempre all'art. 16, comma 5 del T.U. sull'immigrazione) da parte del giudice di sorveglianza è preclusiva alla valutazione nel merito di istanze di applicazione di misure alternative alla detenzione (Cass. sez. I, Cass. sez. I, 25.09.2020, n. 36082, Zequiri, Cass. sez. I, 1. 12.2020, dep. il 16.02.2021, n. 115 Muja¸ Cass. sez. I, 14.12.2018, n .15887, Singh, n.m.; Cass. sez. I, 7.05.2008, n.20949, Mani, in C.E.D. Cass. n. 240130). In altri termini una volta disposta l'espulsione si determina una condizione ostativa « all'introduzione o alla prosecuzione del procedimento inteso alla ammissione ad una delle altre misure alternative alla detenzione ». Tale regula iuris è stata confermata con riguardo alla detenzione presso il domicilio di cui all'art 1 della legge n. 199 del 2010 e s.m.i. (c.d. legge Alfano), anche nella versione speciale introdotta dall'art 123 del decreto legge n. 18 del 2020, convertito nella legge n. 27 del 2020 al fine di fronteggiare l'emergenza epidemiologica determinata dalla diffusione del contagio da corona virus (Cass. sez. I, 2.03.2021, n.27872, Funes, n.m.); ed è stata ritenuta applicabile anche alla liberazione anticipata (Cass. sez. I, 8.01.2014, n.4752, Zyba, in C.E.D. Cass. n. 259166), che, come noto, non appartiene in senso stretto, al genus delle misure alternative. La Corte ha affermato che con l'applicazione dell'espulsione « la pena irrogata dal giudice viene meno essendo riversata nella sanzione (amministrativa) dell'espulsione, sicché perde giuridicamente la sua autonomia penale. Il nuovo punto di riferimento per il condannato diviene infatti il decreto espulsivo e il relativo divieto di reingresso » in Italia, che se violato, comporta non solo la reviviscenza della pena detentiva sostitutiva, ma anche, l'integrazione dell'autonomo reato di cui all'art. 13, comma 13-bis e ter del d.lgs. n. 286 del 1998 e s.m.i.. Nella motivazione della sentenza si è evidenziato che la concessione della liberazione anticipata « verrebbe a costituire, in concreto, in capo al richiedente, la tesaurizzazione di una sorta di credito di pena che consentirebbe al condannato, che ha ottenuto la sostituzione della pena detentiva con l'espulsione ai sensi dell'art 16, comma 5 del d.lgs. n.286 del 1998, e che dovesse rientrare illegittimamente » in Italia prima del termine previsto per l'estinzione della pena « di poterlo invocare al fine scontarlo sulla pena espianda. Ciò si pone in contrasto col principio della deterrenza della norma e la puntuale disciplina dell'art. 657 c.p.p., la quale prevede, per la sua concreta applicazione, il requisito temporale dell'anteriorità della consumazione del reato oggetto della condanna da espiare (e il rientro in Italia entro il periodo di interdizione costituirebbe pur sempre una violazione successiva al bonus di pena e l'avveramento della condizione sospensiva utile ai fini della revoca della sanzione sostitutiva ai sensi dell'art 16, comma 4 del d.lgs n. 286 del 1998). Il principio di infungibilità per altro trova la sua giustificazione, a un tempo logica e giuridica, nella fondamentale esigenza sistematica di non creare una sorta di impunità per future condotte illecite che avrebbe il solo effetto di integrare un inammissibile incentivo alla realizzazione di altri comportamenti criminosi con evidente e palese pregiudizio delle ragioni connesse alla sicurezza collettiva ».
Viceversa, qualora l'ammissione ad una misura alternativa preceda l'adozione del provvedimento di espulsione quest'ultimo non potrà esser emesso dovendosi riconoscere preminenza alla risocializzazione del condannato (Cass. sez. I, Muja, cit.; Cass. sez. I, 25.09.2019, n. 43855, De La Cruz, in C.E.D. Cass. n. 277328, relativa al caso di uno straniero ammesso ad espiare la pena in regine di detenzione domiciliare). Ed invero le misure alternative sono concedibili anche agli stranieri privi del permesso di soggiorno. Occorre tuttavia segnalare che Cass. sez. I, 13.10.2005, n. 39781, Iselaci, ha affermato che « l'ammissione alla misura alternativa della semilibertà non è ostativa all'emissione del decreto di espulsione … dato che tale misura comporta comunque la permanenza del condannato in un istituto penitenziario, sebbene limitatamente a determinati orari ». La semilibertà costituisce infatti non tanto una vera e propria misura alternativa alla detenzione, quanto piuttosto una modalità di espiazione della pena detentiva connotata da un significativo affievolimento della componente afflittiva della carcerazione. Lo stesso principio (non ostatività all'espulsione dal territorio dello Stato) è stato affermato con riguardo l'ammissione al lavoro esterno ex art. 21 ord. pen. ed i permessi premio ex art. 30-ter ord.penit. (Cass. sez. I, 16.02.2016, n. 44143, Ben Fraj Zouhair, in C.E.D. Cass. n. 268290), né la pendenza del ricorso per cassazione avverso il provvedimento di diniego della richiesta di concessione di una misura alternativa (Cass. sez. I, 15.05.2019, n. 33153, Curri Sokol, in C.E.D. Cass. n. 276495).
Per concludere sul punto è opportuno segnalare Cass. sez. I, 18.06.2020, Aljai, cit., secondo cui « il provvedimento di espulsione dello straniero dal territorio nazionale, adottato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 16, comma 5 d.lgs. n. 286 del 1998 quale misura alternativa alla pena detentiva inferiore a due anni, se emesso nel ricorso delle condizioni legittimanti e successivamente non annullato in sede di opposizione o non revocato dall'autorità che lo ha emesso, è valido ed efficace e può essere portato ad esecuzione anche se nel frattempo l'espiazione della pena detentiva sia terminata”. Ed invero in “assenza di esplicite previsioni normative che depongano in tal senso, non può rinvenirsi una causa sopravvenuta di invalidità o di inefficacia dell'espulsione, già legittimamente disposta, in conseguenza della successiva conclusione dell'esecuzione della pena, che […] può rilevare soltanto sotto il profilo della inapplicabilità del comma 4 dell'art 16, nel senso di impedire il ripristino dell'espiazione della pena residua, nonostante il rientro anticipato ed illegale ». Espulsione e reingresso nel territorio dello Stato
L'espulsione ordinata dal giudice di sorveglianza ai sensi del citato art. 16, comma 5 ha durata decennale (come confermato anche da Cass. sez. I, 18.06.2020, Aljai, cit., e da Cass. sez. I, 7.03. 2019, n.26873, Dalipaj, in C.E.D. Cass. n. 276914), mentre il limite dei cinque anni si riferisce all'espulsione ordinata in via amministrativa o disposta come sanzione alternativa ai sensi del comma 1 del citato art. 16 dal giudice della cognizione (Cass. sez. I, 7.03.2019, cit.).
In materia di espulsione amministrativa la legge prevede che il divieto di reingresso possa protrarsi per una durata superiore a cinque anni qualora lo straniero costituisca una grave minaccia per l'ordine pubblico, per la pubblica sicurezza o per la sicurezza nazionale (art 13, comma 14 del d.lgs. n. 286 del 1998). Sul punto Cass. sez. I, 20.12.2019, n.12301, Lemtaoui, in C.E.D. Cass. n. 278695, ha puntualizzato che ai fini dell'integrazione di tali presupposti « non è sufficiente l'inquadramento del soggetto in una delle categorie di pericolosità tipica previste dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, ma è necessario che il provvedimento di espulsione renda conto di una concreta ed accurata verifica del particolare livello di potenziale pericolosità del soggetto in relazione ai beni protetti ».
La violazione del divieto di reingresso nel territorio dello Stato, in difetto della speciale autorizzazione del Ministro dell'Interno, integra il reato di cui all'art. 13, comma 13-bis d.lgs. n. 286 del 1998. La giurisprudenza ha precisato che la configurabilità del reato non è esclusa in ragione del ripristino dell'esecuzione della pena, ma concorre con essa (Cass. sez. I, 13.02.2020, n. 9921, Zotaj Klodian, in C.E.D. Cass. n. 278504). Come puntualizzato da Cass. sez. I, 20.10.2011, n.8181, Zyba, in C.E.D. Cass. n. 252210, « il reato di reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato dello straniero espulso ha natura permanente, perché è diretto ad impedire l'illegale rientro e l'illecita permanenza del territorio dello Stato, e dunque la continuità della condotta antigiuridica protratta nel tempo”, ne consegue, continua la Corte, che in caso di modificazioni legislative in pejus, la disciplina applicabile non è quella vigente al “momento di inizio della condotta che, perdurando, legittimamente ricade sotto il regime meno favorevole della normativa sopravvenuta » . Cass. sez. I, 30.09.2020, n. 27918, Balloumi, in C.E.D. Cass. n. 279640, ha affermato che in caso di reingresso non autorizzato il reato di cui all'art 13 del d.lgs. n. 286 del 1998 si configura anche nel caso in cui lo straniero, destinatario di un precedente provvedimento di espulsione, abbia contratto matrimonio con una cittadina italiana, domiciliata nel territorio nazionale, poiché al fine di poter legittimante attuare il proprio diritto al ricongiungimento con il coniuge, il soggetto espulso deve preventivamente richiedere l'autorizzazione alle Autorità italiane. Si è inoltre statuito che il reato di cui al citato art. 13 è configurabile anche nel caso in cui l'espulsione sia stata materialmente eseguita dopo l'avvenuta espiazione della pena, non perdendo, per ciò solo il relativo decreto validità ed efficacia (Cass. sez. I, 18.06.2020, cit.. La Corte ha inoltre precisato che il condannato che abbia espiato la pena ha la facoltà di chiedere la revoca dell'espulsione al giudice di sorveglianza che l'ha ordinata ovvero di far valere l'esaurimento del rapporto esecutivo quale motivo legittimante il rilascio dell'autorizzazione ministeriale al rientro anticipato nel territorio nazionale).
Occorre infine segnalare con riguardo all'espulsione disposta dal giudice di sorveglianza che la decorrenza del termine decennale comporta, giusto il disposto dell'art. 16, comma 8 d.lgs. n. 286 del 1998, l'estinzione del reato sanzionato con la pena detentiva che lo straniero stava espiando quando è stato espulso. |