La distribuzione degli utili nelle start up innovative
11 Agosto 2022
Introduzione
Con la Risposta ad interpello n. 334 del 21.06.2022, l'Agenzia delle Entrate ha chiarito alcuni rilevanti aspetti in tema di start up innovativa, in particolare per quanto attiene alla distribuzione di utili. Nel caso di specie, veniva esposto il seguente quesito. La società ALFA S.R.L., a decorrere dal 2020, era iscritta nel registro delle imprese come "start-up innovativa", ai sensi del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, ed aveva per oggetto la progettazione, lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti e servizi innovativi ad alto valore tecnologico; la società aveva sviluppato un servizio innovativo con un progetto la cui realizzazione comportava per la start-up il sostenimento di ingenti costi di investimento, sia nell'acquisto che nell'installazione. La società era, pertanto, intenzionata a realizzare una partnership con investitori, sia persone fisiche che imprese, disposti ad accollarsi le spese, in cambio della partecipazione agli utili. La partnership avrebbe assunto la veste di associazione in partecipazione con apporto di capitali, a fronte del diritto spettante all'associato di partecipare agli utili derivanti dallo specifico affare. L'istante evidenziava che, ai fini delle imposte dirette, l'utile attribuito all'associato persona fisica sarebbe stato considerato reddito di capitale, mentre nel caso di associato imprenditore l'utile sarebbe diventato un componente positivo del reddito di impresa (dividendo). Dunque, a suo avviso, in campo fiscale, l'associazione in partecipazione con apporto di capitale doveva essere trattata alla stregua di un rapporto di natura partecipativa e l'erogazione dell'utile all'associato alla stregua della distribuzione di dividendo. Ciò premesso, considerato che l'art. 25, comma 2, lett. e) del d.l. n. 179 del 2012 prevede che le start-up, oltre ai requisiti elencati nello stesso comma, non debbano aver distribuito e non possano distribuire utili fino a quando sono iscritte nella sezione speciale della CCIAA, la società chiedeva se tale divieto risultasse operante anche nel caso di attribuzione di utili all'associato che apportava capitale nell'ambito di un contratto di associazione in partecipazione sottoscritto con la start-up.
Il divieto di distribuzione degli utili per le start up innovative
Secondo l'istante, il divieto di distribuzione di utili previsto dal citato articolo 25 poteva operare solo per i soci investitori nel capitale sociale, essendo agli stessi riservate agevolazioni fiscali derivanti dalla partecipazione al capitale della start-up, sia in termini di deducibilità dal reddito sia di detrazione di imposta delle somme investite. Tale prospettazione sarebbe stata, a parere dell'istante, confermata dal disposto dell'art. 6, comma 1, d.l. n. 179/2012, che prevede che il diritto alle agevolazioni decade se, entro tre anni dall'investimento, si attua una cessione anche parziale della partecipazione, dal che si poteva evincere l'intento del legislatore di creare un vincolo temporale del socio investitore con la start-up, in cambio di un risparmio fiscale. Nel caso prospettato invece, secondo la società, si era di fronte ad una remunerazione sotto forma di utili, che veniva garantita all'associato che apportava capitale nel singolo affare nell'ambito di un contratto di associazione in partecipazione, forma contrattuale ben distinta da quella del contratto societario. Pertanto, il divieto stabilito dall'art. 25, comma 2, d.l. n. 179/2012, secondo tale prospettazione, non sarebbe stato estensibile al caso prospettato, in quanto sia la forma contrattuale sia la qualifica dell'investitore erano, a parere dell'istante, "diametralmente opposte a quelle regolamentate dal legislatore nella normativa sopra indicata". Nello specifico, l'istante evidenziava infatti che il contratto di associazione in partecipazione si distingue da quello di società, in quanto si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive, oneroso e consensuale, in cui manca un autonomo patrimonio comune, nonché una gestione comune. Rilevava altresì l'interpellante che la qualifica di socio è ben diversa da quella di associato, in quanto la titolarità dell'impresa spetta all'associante, il quale svolge ogni attività con responsabilità esclusiva verso i terzi e con il solo obbligo di presentare un rendiconto all'associato.
L'Agenzia delle Entrate, nel rispondere al quesito, evidenzia che il decreto legge n. 179 del 2012 ha introdotto un quadro organico di disposizioni, riguardanti la nascita e lo sviluppo di imprese start-up innovative. La disciplina in questione è stata poi oggetto di diversi interventi normativi di modifica, tra cui il d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12) e la legge 30 dicembre 2018, n. 145. Ai fini d'interesse, l'art. 25 del citato d.l. n. 179 del 2012, rubricato "Start-up innovativa e incubatore certificato: finalità, definizione e pubblicità", al comma 2 stabilisce dunque i requisiti necessari per assumere la qualifica di start-up innovativa, tra i quali, alla lettera e), è previsto anche che la start-up "non distribuisce, e non ha distribuito, utili". L'istanza in oggetto concerneva quindi, come visto, la sussistenza di tale requisito in caso di stipula da parte della start-up, in qualità di associante, di un contratto di associazione in partecipazione con determinati investitori, ai fini della realizzazione di uno specifico progetto, laddove, ai sensi dell'art. 2549 c.c., con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce ad un altro soggetto, l'associato, una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto. La determinazione della natura e dell'oggetto dell'apporto, rileva l'Amministrazione finanziaria, è peraltro rimessa alla volontà delle parti e può consistere in una somma di denaro, nella cessione di beni mobili o immobili, o nella prestazione di un'opera o di un servizio (con la limitazione che, nel caso in cui l'associato sia una persona fisica, l'apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro). Con l'apporto reso, l'associato partecipa ordinariamente al rischio dell'attività di impresa, o dell'affare posto in essere dall'associante, stabilendo infatti l'art. 2553 c.c. che l'associato partecipa agli utili ed alle perdite, con il limite che "le perdite che colpiscono l'associato non possono superare il valore del suo apporto". Il contratto di associazione in partecipazione assume pertanto, per l'associante, una funzione prettamente "finanziaria", di reperimento dei mezzi necessari per lo svolgimento dell'attività, o per il compimento dell'affare, evitando il ricorso all'ordinario mercato finanziario, mentre per l'associato assume una funzione "associativa", tesa a soddisfare l'interesse a partecipare ai vantaggi conseguenti al raggiungimento degli scopi prefissati attraverso l'attività o gli affari svolti, con i rischi di impresa che ne conseguono. A seconda della preminente rilevanza che si attribuisce alle sopradette funzioni, la causa giuridica del negozio in oggetto può essere quindi ricondotta, rispettivamente, nell'ambito dei contratti sinallagmatici a carattere aleatorio, ovvero nell'ambito dei contratti associativi. Ciò posto, ai fini della risposta al quesito, l'Agenzia delle Entrate rileva che, al di là dell'inquadramento giuridico della figura negoziale in esame, assumeva comunque valenza dirimente la circostanza che il legislatore fiscale abbia equiparato il trattamento fiscale della remunerazione corrisposta in relazione ai contratti di associazione in partecipazione (allorché, come nel caso in esame, sia previsto un apporto diverso da quello di opere e servizi) a quello della remunerazione dovuta in relazione a titoli e strumenti finanziari comunque denominati, per la quota di essa che direttamente o indirettamente comporti la partecipazione ai risultati economici della società. Ai sensi dell'art. 109, comma 9, del TUIR, infatti, entrambi i tipi di remunerazione risultano indeducibili per il soggetto emittente/associante e, in base all'art. 44, comma 1, rispettivamente lettere e) ed f), del TUIR, sia gli utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società, sia gli utili derivanti da associazioni in partecipazione sono per il percettore da considerarsi redditi di capitale (eccetto il caso in cui l'apporto dell'associato sia costituito da solo lavoro). Il trattamento fiscale è dunque, sia per l'associato che per l'associante, equivalente a quello di una partecipazione ad una società di capitali: la distribuzione dell'utile non è deducibile in capo all'associante, mentre il regime di imposizione fiscale, in capo all'associato varia a seconda che si tratti di un soggetto IRES, di un soggetto IRPEF imprenditore o di un soggetto IRPEF privato, secondo le rispettive regole previste per le diverse categorie di percettori. Tenuto conto del relativo regime di tassazione, pertanto, secondo l'Amministrazione finanziaria, nel caso in cui la start-up innovativa avesse proceduto a corrispondere utili all'associato in partecipazione avrebbe perso i requisiti previsti dall'art. 25, comma 2, d.l. n. 179/2012, che, come visto, alla lettera e), dispone che la start-up "non distribuisce, e non ha distribuito, utili". Tale conclusione, rileva ancora l'Agenzia, era peraltro anche avvalorata dall'essere il divieto di distribuzione di utili finalizzato a favorire l'investimento degli stessi per la crescita della start-up innovativa; con la conseguenza che nel caso in cui si procedesse a remunerare l'associato in partecipazione con tali utili verrebbe meno il comportamento virtuoso che la norma agevolativa intendeva premiare con le corrispondenti agevolazioni fiscali. In definitiva, la normativa relativa alle start-up innovative preclude la distribuzione di utili anche nell'ipotesi di ricorso a contratti di associazione in partecipazione.
Considerazioni conclusive
Al di là dello specifico caso processuale, quanto alla disciplina generale in tema di start up innovative, si ricorda che sono riconosciute misure agevolative, sia nella fase di avvio che in quella di sviluppo per gli investimenti in tali tipologie di imprese. I soggetti Irpef detraggono dall'imposta lorda un importo pari al 30% della somma da loro investita nel capitale sociale di una o più start-up innovative direttamente, ovvero per il tramite di organismi di investimento collettivo del risparmio che investano prevalentemente in start-up innovative. L'investimento massimo agevolabile per ciascun periodo d'imposta è di 1.000.000 euro e comporta, quindi, un risparmio Irpef massimo all'anno di 300.000 euro (=30% x 1.000.000). La detrazione, che in un dato periodo d'imposta non trova capienza nell'Irpef, può essere utilizzata nei successivi periodi d'imposta, ma non oltre il terzo. L'agevolazione spetta esclusivamente ai fini delle imposte sui redditi e non opera ai fini Irap. L'investimento deve essere mantenuto per almeno 3 anni, pena la decadenza dal beneficio e l'obbligo di restituire quanto detratto maggiorato degli interessi in misura legale. Per il riconoscimento dell'agevolazione è necessario che la start-up innovativa non riceva, complessivamente, più di 15 milioni di euro di investimenti agevolabili negli anni di vigenza del regime agevolativo.
Il Decreto Rilancio ha poi introdotto, in via alternativa a quella del 30%, una detrazione al 50% della somma investita dal contribuente nel capitale sociale di una o più start-up innovative direttamente ovvero per il tramite di organismi di investimento collettivo del risparmio che investano prevalentemente in start-up innovative. L'investimento massimo detraibile non può eccedere, in ciascun periodo d'imposta, l'importo di euro 300.000 per le PMI e di euro 100.000 per le Start-up e deve essere mantenuto per almeno tre anni. L'eventuale cessione, anche parziale, dell'investimento prima del decorso di tale termine, comporta la decadenza dal beneficio. I soggetti IRES possono infine dedurre dal proprio reddito complessivo il 30% delle somme investite nel capitale sociale di una o più start-up innovative. L'investimento massimo agevolabile per ciascun periodo d'imposta è di 1.800.000 euro, con una deduzione massima di € 540.000 che comporta un risparmio IRES massimo all'anno di 129.600 euro (= 540.000 x 24%). Qualora la deduzione non trovi capienza nel reddito imponibile, l'eccedenza è utilizzabile nei periodi d'imposta successivi, ma non oltre il terzo. L'agevolazione spetta esclusivamente ai fini delle imposte sui redditi e non opera ai fini Irap. L'investimento deve essere mantenuto per almeno 3 anni, altrimenti si decade dal beneficio. Anche in questo caso per il riconoscimento dell'agevolazione è necessario che la start-up innovativa non riceva, complessivamente, più di 15 milioni di euro di investimenti agevolabili negli anni di vigenza del regime agevolativo.
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