Chiusura del fallimento in pendenza di giudizi e limiti della cognizione del giudice in sede di reclamo

11 Agosto 2022

La Suprema Corte, sulla questione circa la portata della cognizione del giudice del reclamo al decreto di chiusura del fallimento, si inserisce nel solco del consolidato principio secondo il quale in quella sede è rimessa al giudice soltanto la valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, di una delle ipotesi di chiusura enunciate dall'art. 118 l.fall.
Massima

La cognizione rimessa al giudice in sede di reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento, ai sensi dell'art. 119, comma 2, l.fall., è limitata alla verifica della sussistenza di uno dei casi di chiusura di cui ai numeri da 1) a 4) dell'art. 118 l.fall., potendo il fallito o chiunque altro ne abbia interesse far valere nelle sedi proprie, esterne alla procedura, tutte le doglianze riferite alla conduzione del fallimento da parte dei suoi organi. (Nella specie, la S.C. ha cassato il decreto della Corte d'Appello che aveva revocato la chiusura del fallimento per avvenuta ripartizione dell'attivo in ragione della pendenza di un giudizio di opposizione avverso il decreto di trasferimento di un immobile appreso alla massa).

Il caso

Il Fallimento ricorre per cassazione contro il decreto con il quale la Corte di Appello di Bari, in accoglimento del reclamo proposto dall'aggiudicatario di un immobile venduto nell'ambito del fallimento, aveva revocato il decreto di chiusura del fallimento per avvenuta ripartizione dell'attivo ex art. 118 n. 3 l.fall., in ragione della pendenza del giudizio di opposizione avverso l'esecuzione del decreto di trasferimento dell'immobile. Secondo la Corte di Appello il Tribunale avrebbe dovuto rivedere il riparto accantonando le somme che competono al reclamante oppure tenendo conto di tali somme nel caso in cui la sentenza resa nel giudizio di opposizione fosse già passata in giudicato.

Il Fallimento contesta che la Corte di Appello avrebbe disposto la revoca della chiusura del fallimento al di fuori dei casi previsti dall'art. 118 l.fall. e che, in ogni caso, non vi sarebbe stato interesse a reclamare il provvedimento di chiusura del fallimento in capo al reclamante, in quanto egli non avrebbe tratto alcun beneficio dalla riapertura.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso ribadendo il principio secondo il quale la cognizione rimessa al giudice in sede di reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento riguarda soltanto la ricorrenza di uno dei casi di chiusura elencati all'art. 118 l.fall. e che ogni diversa doglianza deve essere fatta valere nelle sedi proprie, esterne alla procedura. Nel caso di specie, afferma la S.C., il reclamante non ha dedotto l'insussistenza di uno dei casi di chiusura, non avendo mai messo in discussione che vi fosse stato il riparto dell'attivo, e pertanto il reclamo è inammissibile.

Ritiene la Corte così assorbito il secondo motivo di impugnazione, consistente nella carenza di interesse a reclamare il decreto di chiusura.

Questioni giuridiche e soluzioni cui è giunta la Suprema Corte

Limiti della cognizione del giudice in sede di reclamo al decreto di chiusura del fallimento

I giudici di legittimità, investiti della questione circa la portata della cognizione del giudice del reclamo al decreto di chiusura del fallimento, si inseriscono nel solco del consolidato principio secondo il quale in quella sede è rimessa al giudice soltanto la valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, di una delle ipotesi di chiusura enunciate dall'art. 118 l.fall..

La Suprema Corte non si pronuncia invece direttamente, ma solo implicitamente, sulla necessità od opportunità che il fallimento resti aperto in pendenza di giudizio che possa influire direttamente sul riparto: la Corte non ammette la revoca del decreto di chiusura per tale motivo e, al contrario, segnala che ogni questione diversa dalla sussistenza dei casi di chiusura di cui all'art. 118 l.fall. devono essere fatti valere nelle sedi opportune, esterne al fallimento.

Interesse ad agire ai sensi dell'art. 119 l.fall.

La Corte, ritenendo il secondo motivo di impugnazione assorbito nell'accoglimento del primo, non si pronuncia in merito all'interesse ad agire per proporre il reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento.

Osservazioni

Si premette, per completezza, che la presente disamina ha ad oggetto le disposizioni sulla chiusura del fallimento di cui alla legge fallimentare, ma che le considerazioni esposte valgono anche con riferimento al Codice della Crisi che non ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina in esame.

Casi di chiusura del fallimento e accantonamenti

Ai sensi dell'art. 119 l.fall., la procedura di fallimento si chiude, su istanza del curatore, del debitore o d'ufficio, con decreto motivato del tribunale, nei casi previsti dall'art. 118 nn. da 1) a 4) l. fall.. Tali casi di chiusura sono tassativi (se è pur ammessa l'interpretazione estensiva) e, in estrema sintesi, si suddividono in due macro aree: la prima che annovera i casi di mancanza del passivo originaria (in quanto non vi sono domande di ammissione al passivo - art. 118 n. 1 l.fall.) oppure sopravvenuta (in quanto i creditori sono stati integralmente soddisfatti - art. 118 n. 2 l.fall.), la seconda le ipotesi in cui invece vi è mancanza di attivo originaria (in quanto l'attivo non è sufficiente a soddisfare, nemmeno in parte, i creditori concorsuali, i crediti prededucibili e le spese della procedura - art. 118 n. 4 l.fall.) oppure sopravvenuta (in quanto quello esistente è già stato tutto distribuito - artt. 118 n. 3 l.fall.) . In presenza di una di tali ipotesi, il Tribunale deve procedere alla chiusura della procedura (previo adempimento delle operazioni finali quali rendiconto e liquidazione del compenso del curatore), senza alcuna discrezionalità al riguardo.

Nel caso di chiusura di cui all'art. 118 n. 3 l.fall., fattispecie oggetto della sentenza in commento, occorre, in particolare, che si sia esaurito il procedimento di riparto dell'attivo a norma dell'art. 117 l.fall. ovvero che: i) il progetto di riparto finale predisposto dal curatore sia divenuto esecutivo ex art. 110 l.fall.; ii) il curatore abbia provveduto al pagamento delle somme assegnate ai creditori ex art. 115 l.fall. ed effettuato ex art. 117 comma 2 l.fall. gli eventuali accantonamenti delle somme relative, inter alia, a provvedimenti non ancora passati in giudicato; iii) siano stati definiti gli eventuali reclami avverso il progetto di riparto finale ex art. 110 comma 3 l.fall. e sia stata data esecuzione ai relativi provvedimenti. Nel caso di specie sembrerebbe che non sia stato effettuato, in sede di riparto, l'accantonamento del prezzo di aggiudicazione dell'immobile pendendo il procedimento di opposizione al decreto di trasferimento e che di tale circostanza il reclamante, aggiudicatario dell'immobile, si sia lamentato mediante l'impugnazione del decreto di chiusura del fallimento.

A tale proposito, la riforma del 2015 (D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito nella L. 6 agosto 2015 n. 132) ha introdotto la possibilità, per il caso in cui si è compiuta la ripartizione finale dell'attivo (art. 118 n. 3 l. fall.), di chiudere la procedura di fallimento anche qualora vi siano giudizi pendenti, per i quali prevede che il curatore mantenga la legittimazione processuale ai sensi dell'art. 43 l.fall..

La ratio della norma è da rintracciare nell'esigenza di abbreviare i tempi delle procedure fallimentari, evitando di tenerle aperte a causa dei tempi lunghi di definizione dei giudizi nei quali la curatela fallimentare è parte, e ridurre l'incremento dei ricorsi volti ad ottenere gli indennizzi da irragionevole durata delle procedure concorsuali. L'attenzione del legislatore è volta alla tutela dell'interesse del debitore alla rapida chiusura del fallimento: il ritardo ingiustificato nella chiusura della procedura è fonte di responsabilità per il curatore fallimentare che, in tal modo, non adempie diligentemente al suo mandato ai sensi dell'art. 38 l.fall.. Il fallito è, infatti, titolare di un diritto soggettivo alla chiusura del fallimento sia sotto il profilo della ingiusta compressione dei suoi diritti e delle sue capacità costituzionalmente garantiti (con il decreto di chiusura cessano gli effetti particolarissimi, patrimoniali, personali e processuali della dichiarazione di fallimento) quando non sia più necessario per l'esigenza di soddisfare i creditori, sia in relazione all'equa durata del processo. Egli è pertanto legittimato a chiedere il risarcimento dei danni subiti dall'eccessivo protrarsi della procedura in presenza delle condizioni necessarie e sufficienti per la chiusura.

In realtà, nel caso di avvenuto riparto dell'attivo e di pendenza di giudizi, si tratta di una sorta di “finzione” di chiusura, come evidenziato fin dai primi commentatori della riforma, in quanto: (a) restano pur sempre in carica il giudice delegato e il curatore, il primo ai fini della concessione delle autorizzazioni di cui all'art. 118, comma 2, l. fall. (ad esempio, per le rinunce alle liti e le transazioni) e il secondo al fine di mantenere la legittimazione processuale in quei giudizi ed effettuare i riparti supplementari all'esito di tali giudizi; (b) le somme per le spese future e gli oneri relativi ai giudizi pendenti, così come le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non passati in giudicato devono essere accantonate e depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato ai sensi del combinato disposto degli artt. 118, comma 2, e 117, comma 2, l.fall. (tali somme, divenuti definitivi i provvedimenti, saranno oggetto di riparti supplementari fra i creditori da parte del curatore, secondo quanto disposto nel decreto di chiusura); (c) le sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non determinano la riapertura del fallimento.

È pacificamente riconosciuto (e ora previsto dall'art. 234 Codice della Crisi) che nel novero dei giudizi pendenti che non ostano alla chiusura del fallimento vi siano anche le procedure esecutive: si ritiene che non impediscono la chiusura tutte le cause pendenti che possono favorevolmente incidere sulla massa attiva, determinando sopravvenienze rispetto a quanto realizzato in sede di chiusura, e, pertanto, anche le procedure esecutive che tendono proprio ad assicurare una sopravvenienza per la massa dei creditori.

Ne consegue, nel caso di procedura esecutiva pendente (in ogni stato e grado), che il fallimento potrà ben essere chiuso, ma dovranno essere accantonate le somme ricevute dalla procedura per effetto dei provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato. Come sopra evidenziato, nel caso sottoposto all'esame della Cassazione, sembrerebbe che il tribunale non abbia effettuato l'accantonamento del prezzo di aggiudicazione dell'immobile il cui decreto di trasferimento è stato oggetto di opposizione ex art. 617 c.p.c., nonostante la pendenza di tale impugnazione.

Reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento

Contro il decreto di chiusura della procedura fallimentare, il curatore, il fallito, il comitato dei creditori e chiunque vi abbia interesse possono proporre, ai sensi del combinato disposto degli artt. 119, comma 3, e 26 l.fall., reclamo avanti alla Corte di Appello e contro tale decisione ricorso per Cassazione.

Nel caso di specie, come esposto, avverso il decreto di chiusura del fallimento ha proposto reclamo l'aggiudicatario dell'immobile, il cui decreto di trasferimento è stato impugnato da soggetti terzi, proprio in considerazione della pendenza di tale giudizio di opposizione: la Corte di Appello ha accolto il reclamo revocando il decreto di chiusura, in quanto il Tribunale avrebbe dovuto considerare nel riparto l'esito del giudizio di opposizione, accantonare le relative somme in sua pendenza.

Tuttavia, come ricordato nel precedente paragrafo, oggetto del reclamo può essere soltanto la contestazione della sussistenza nel caso concreto di una delle fattispecie di cui all'art. 118 l.fall., in quanto non sussistente oppure perché ricorrente un caso diverso. Nessuna altra questione è deducibile con il reclamo: in tal senso è chiara e univoca la giurisprudenza. Per questo motivo la Corte di Cassazione che si commenta, accoglie il ricorso del Fallimento, cassa il decreto della Corte di Appello di revoca del decreto di chiusura del fallimento e dichiara inammissibile il reclamo proposto dall'aggiudicatario avverso tale decreto, in quanto egli non ha contestato la sussistenza dell'avvenuto riparto finale, ma ha lamentato che tale riparto non avrebbe dovuto esservi in pendenza del giudizio di opposizione.

Infine si precisa, in quanto utile per quanto si dirà in prosieguo, che nell'ambito dei legittimati a proporre reclamo, la categoria dei terzi interessati viene ritenuta comprensiva di tutti coloro che possano provare che la cessazione della procedura cagioni loro un pregiudizio concreto ad un interesse giuridicamente tutelato e che perciò abbiano interesse alla rimozione del provvedimento e a far proseguire le operazioni di cui alla procedura fallimentare.

Decisione conforme ai precedenti

La decisione in commento risulta conforme all'uniforme e consolidato indirizzo giurisprudenziale che ritiene che il reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento possa avere ad oggetto unicamente la contestazione della sussistenza di uno dei quattro casi di chiusura elencati dall'art. 118 l.fall..

Nel caso concreto, come detto, il Tribunale aveva chiuso il fallimento per avvenuta ripartizione dell'attivo ex art. 118 n. 3 l.fall., circostanza non contestata dal reclamante quanto alla sua ricorrenza, ma quanto alla sua correttezza.

La questione è semplice: il reclamante deduce che il fallimento non poteva essere chiuso a causa della pendenza di un giudizio di opposizione al decreto di trasferimento emesso nell'ambito della vendita forzata in sede fallimentare; la Corte di Appello accoglie il reclamo e revoca il decreto di chiusura sulla base dei motivi dedotti dal reclamante, riportati in estrema sintesi nel testo della sentenza e consistenti nella circostanza che non erano stati effettuati in sede di riparto i necessari e pertinenti accantonamenti. La Corte di Cassazione, in linea con i propri precedenti, accoglie il ricorso del Fallimento avverso il decreto della Corte di Appello rilevando sic et simpliciter che il motivo di reclamo non è nella cognizione del giudice del reclamo del decreto di chiusura, in quanto non consistente nella contestazione della ricorrenza di uno dei casi di chiusura elencati all'art. 118 l.fall. - peraltro ammesso dal reclamante - e che le doglianze del reclamante avrebbero dovuto essere fatte valere “nelle sedi proprie, esterne alla procedura”.

I giudici di legittimità rinviano in tal senso al loro precedente (Cass. 12 marzo 2018, n. 5892) nel quale non solo hanno ribadito il principio per cui la cognizione del giudice in sede di reclamo è limitata alla verifica della sussistenza di una delle ipotesi di chiusura di cui all'art. 118 l.fall., in presenza delle quali il tribunale non ha alcun ambito di discrezionalità nel protrarre la procedura, ma anche che le eventuali nullità o illegittimità delle fasi precedenti della procedura fallimentare, che afferiscano ad esempio il rendiconto del curatore e il riparto finale, devono essere contestate nelle sedi proprie (ovvero in sede di contestazione del riparto ex art. 116 l.fall. come affermato da Cass., 13 luglio 2017, n. 17337) e non hanno alcun impatto sul provvedimento di chiusura dal fallimento, autonomo e indipendente da esse e da ogni precedente fase della procedura fallimentare.

Essendo il tema di pacifica soluzione in giurisprudenza, quanto meno sotto l'aspetto dei motivi di reclamo che possano condurre alla revoca del decreto di chiusura del fallimento, e ferma restando la astratta possibilità di chiudere il fallimento per avvenuto riparto dell'attivo in caso di pendenza di giudizi, resta da approfondire se la circostanza che il procedimento pendente avrebbe dovuto condurre ad un diverso riparto finale non potrebbe avere impatto concreto sulla chiusura del fallimento e conseguentemente sull'interesse del reclamante al mantenimento della procedura fallimentare.

Interesse ad agire?

A tale riguardo si deve considerare che la S.C. nella sentenza in commento richiama, in relazione all'inammissibilità del reclamo qualora non venga dedotta l'insussistenza di uno dei casi di chiusura, un altro precedente (Cass. 13 gennaio 2010 n. 395) nel quale, in motivazione, precisa altresì che la legittimazione e l'interesse ad agire in sede di reclamo avverso il decreto di chiusura deve essere valutato in relazione allo specifico caso contestato e agli effetti pregiudizievoli che la chiusura del fallimento avrebbe sul reclamante.

Se si muove allora da questo rilievo occorre, per completezza, esaminare altresì l'interesse che il reclamante ha all'impugnazione del decreto di chiusura: l'art. 119 l.fall. nel disporre la possibilità di proporre reclamo al decreto di chiusura richiama infatti l'art. 26 l.fall., il quale consente a chiunque ne abbia interesse di reclamare contri i decreti del giudice delegato e del tribunale fallimentare. I giudici di legittimità hanno avuto in precedenza occasione di precisare che tale interesse a reclamare deve consistere nella minaccia di un pregiudizio scaturente direttamente dal provvedimento emesso, ovvero, come sostenuto dalla dottrina, nell'interesse al mantenimento della procedura ricevendo diversamente pregiudizio dalla sua chiusura.

Nel caso di specie, si tratterebbe di valutare l'interesse dell'aggiudicatario-reclamante a che il fallimento non venga chiuso nelle more della definizione del giudizio di opposizione all'esecuzione del decreto di trasferimento dell'immobile, che si è aggiudicato e per il quale ha versato il relativo prezzo che è già stato oggetto di riparto finale. È vero che l'aggiudicatario ha utilizzato un mezzo di impugnazione, ovvero il reclamo avverso il decreto di chiusura, per motivi che esorbitano da quelli ormai pacificamente ritenuti nella cognizione del giudice del reclamo, ma si potrebbe compiere questo ulteriore passo, al fine di valutare se il soggetto reclamante avrebbe effettivamente potuto contestare efficacemente lo svolgimento della procedura fallimentare, e in particolare l'“erroneo” riparto finale di un attivo nel quale erano comprese somme che avrebbero dovute essere accantonate, nelle competenti sedi (ovvero, nel caso di specie, in sede di contestazione del riparto o del rendiconto come affermato dalla sentenza n. 17337 del 2017) e se non riceve un pregiudizio dalla chiusura del fallimento.

Il tema è delicato: i giudici di secondo grado, nell'esaminare il reclamo, non devono sconfinare nella mera valutazione della legittimazione al reclamo e dell'interesse ad agire. A tale riguardo, come giustamente osservato dalla Cassazione n. 3819/2001, la Corte di Appello nell'esaminare i motivi di reclamo deve limitarsi a verificare se sussiste uno dei casi di chiusura di cui all'art. 118 l.fall. e non sconfinare nell'analisi degli effetti che il giudizio in corso, che viene dal reclamante posto a motivo ostativo della chiusura, avrebbe sulla procedura concorsuale, arrivando a valutare esclusivamente tale effetto.

Irrilevanza dell'effetto del giudizio pendente sulla chiusura del fallimento

Nel caso di specie i giudici di legittimità osservano che era pacificamente riconosciuto anche dal reclamante che sussistesse il presupposto di chiusura, consistente nella avvenuta liquidazione dell'attivo e nel conseguente riparto, e che la valutazione del fatto che tale riparto non avrebbe dovuto esserci (o meglio avrebbe dovuto essere fatto in modo diverso, effettuando gli adeguati accantonamenti) esorbita dai poteri cognitivi del giudice del reclamo. È, infatti, previsto dall'art. 116 l.fall. che i creditori e il fallito possono presentare osservazioni e contestazioni al rendiconto e al conto finale: che l'aggiudicatario risulti legittimato a presentare tali osservazioni è da valutare attentamente e non è questa la sede per tale approfondimento, se pur sembrerebbe che la dottrina ritenga che possono formulare osservazioni e partecipare all'udienza di approvazione del rendiconto anche i terzi che abbiano subito danni diretti per effetto dell'operato del curatore, terzi che avranno quindi diritto a prendere visione del rendiconto e dei documenti giustificativi (in tal senso D'Attorre).

Tuttavia, una riflessione si impone in merito alle conseguenze di un riparto finale che è sussistente e che quindi comporta de plano la chiusura del fallimento, ma che potrebbe essere ritenuto non corretto in quanto non dispone i dovuti accantonamenti conseguenti alla pendenza di un giudizio il cui esito potrebbe influire sulle somme ripartite.

Si consideri a tale riguardo che se, come nel caso di specie, il conto finale non ha disposto l'accantonamento del prezzo di vendita dell'immobile, versato dall'aggiudicatario, in pendenza del giudizio di opposizione al decreto di trasferimento, due possono essere le ipotesi concrete che si possono verificare: (i) il giudizio di opposizione viene respinto e allora l'aggiudicatario nessun pregiudizio riceve da questo giudizio e dalla chiusura del fallimento; (ii) il giudizio di opposizione viene accolto, il decreto di trasferimento annullato e conseguentemente il pagamento del prezzo deve essere restituito all'aggiudicatario. In tale ultima eventualità ci si interroga se, come sostenuto dai giudici di legittimità, il riparto finale non ha effettivamente impatto sul decreto di chiusura del fallimento.

Innanzitutto, si osserva che effettivamente i casi in cui il decreto di trasferimento venga reso inefficace e ciò sia opponibile al terzo acquirente risultano abbastanza residui: non essendo questa la sede per una analisi dei casi di propagazione dei vizi della fase di vendita sull'efficacia della vendita forzata e dell'assegnazione del bene, si osserva – in estrema sintesi – che si tratta di casi gravi, quali vizi formali gravi oppure casi di collusione tra il creditore procedente (il fallimento in questo caso) e l'acquirente ai sensi dell'art. 2929 c.c..

Al di là di tale prima constatazione, si deve considerare che in ogni caso il tribunale in sede di emissione del decreto di chiusura per ripartizione finale dell'attivo, effettua una valutazione in merito all'attività di liquidazione posta in essere in concreto, intendendo come tale non solo le attività di alienazione ma anche tutte le azioni volte alla ricostruzione del patrimonio, compiendo una valutazione prognostica in relazione all'esito dei giudizi pendenti e delle eventuali azioni di recupero possibili, bilanciando le esigenze di celerità con le problematiche connesse alle cause pendenti.

Nel caso di specie, il Tribunale fallimentare in sede di emissione del decreto di chiusura del fallimento ha probabilmente valutato scarsamente probabile l'accoglimento del giudizio di opposizione all'esecuzione del decreto di trasferimento e, in ogni caso, anche in caso di accoglimento, ha probabilmente ritenuto che rari sono i casi di impatto di tale accoglimento sull'efficacia della vendita. In effetti, è ormai prevalsa in giurisprudenza, a seguito della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2020, la tesi sostanzialista in base alla quale si afferma la trascrivibilità del decreto di trasferimento emesso a seguito di una vendita giudiziaria individuale o concorsuale perfino indipendentemente dal decorso dei termini per proporre opposizione ex art. 617 c.p.c.: il decreto di trasferimento viene infatti considerato, al fine della certezza e della speditezza dei traffici giuridici, immediatamente efficace ex art. 2878 n. 7 c.c. e definitivo ai sensi dell'art. 2884 c.c., in quanto conclusivo di una sub fase del procedimento esecutivo di liquidazione del bene, che inizia con l'ordinanza di vendita.

Si privilegia la certezza e la stabilità della vendita, esentando quanto più possibile l'aggiudicatario dalle conseguenze negative di vizi del procedimento, al fine di tutelare la massima fiducia riposta nella serietà ed affidabilità della vendita giudiziaria, quale espressione dell'attività di un organo pubblico istituzionalmente a tanto deputato ed essendo la tutela del potenziale pubblico degli offerenti uno dei principi fondamentali del processo di espropriazione.

A ciò si aggiunga che, in termini generali, la dottrina si è interrogata sulla possibilità di chiudere il fallimento in pendenza di giudizi che potessero comportare addirittura la retrocessione di beni, anche in considerazione dei poteri del curatore e del giudice delegato all'esito della chiusura della procedura: se in prima battuta la dottrina tendeva a escludere tale possibilità, anche tale dottrina ha poi ritenuto possibile la chiusura del fallimento, considerando che nel decreto di chiusura dovranno essere date, ai sensi dell'art. 118, ultimo comma, l.fall., le disposizioni esecutive necessarie allo scopo, tra le quali anche le modalità di liquidazione del bene (eventualmente anche soltanto rinviando alle norme fallimentari in tema di vendita). È infatti pacifico che il bene non torna nella disponibilità del fallito, in quanto parte titolare del diritto controverso nel giudizio pendente non è costui ma la massa dei creditori ed è pacifico che in relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento.

In tal modo si scioglie anche il dubbio circa l'eventuale impatto dell'erroneità del riparto finale sulla chiusura del fallimento: essa ben potrà avvenire anche in caso di vizi del riparto finale, non solo in quanto altri sono i mezzi per contestarne la correttezza, ma in quanto se anche il riparto non ha previsto gli accantonamenti necessari per tenere conto dei giudizi pendenti che possano al loro esito perfino far retrocedere dei beni alla massa attiva, il decreto di chiusura ben potrà essere validamente emesso, disponendo esso per tale, se pur remota, eventualità. D'altronde, come detto sopra, nel caso di giudizi pendenti si tratta pur sempre di una finzione di chiusura del fallimento, che consente al fallito di recuperare le proprie capacità personali a lungo compresse e che non troverebbero più motivo per ulteriori limitazioni. Tutto ciò, tuttavia, se pur in casi rarissimi, rischia di sacrificare l'interesse dell'aggiudicatario che si vede costretto a restituire il bene al fallimento senza garanzie sulla restituzione dell'intero prezzo di aggiudicazione (la nuova vendita potrebbe infatti essere meno proficua della prima), ma d'altronde si tratterebbe di fatto – in buona sostanza – di un errore degli organi fallimentari che non hanno proceduto ai dovuti accantonamenti prudenziali in pendenza di un giudizio oppure non hanno svolto regolarmente la fase di vendita, inficiandola di vizi formali, oppure perfino un caso di collusione tra il fallimento e l'aggiudicatario, tutte ipotesi da valutare sotto il profilo delle conseguenti responsabilità, a prescindere dall'avvenuta chiusura o meno della procedura fallimentare. Quindi, nessun interesse al mantenimento della procedura fallimentare, meritevole di tutela, si può ravvisare in capo all'aggiudicatario reclamante.

Conclusioni

Una sentenza che si inserisce nel solco di un indirizzo consolidato e che si condivide: il decreto di chiusura del fallimento non è reclamabile in presenza dei casi di chiusura che lo legittimano ed è autonomo ed insensibile ad eventuali conseguenze derivanti dall'esito di giudizi in corso. In caso di riparto dell'attivo senza i dovuti accantonamenti, infatti, nessun interesse si potrebbe comunque ravvisare al mantenimento della procedura concorsuale, non cagionando la sua chiusura alcun pregiudizio, ma essendo semmai stato il riparto delle somme che avrebbero dovute essere accantonate ad averlo, se del caso, cagionato.

Guida all'approfondimento

Sulla chiusura del fallimento e la ratio della riforma del 2015, in dottrina cfr. S. De Matteis, sub art. 118 e art. 119, in Codice Commentato del Fallimento, diretto da G. Lo Cascio, Milano, 2017, 1622 ss.; F. Iozzo, La chiusura del fallimento, in Crisi di impresa e procedure concorsuali diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, tomo II, Milano 2016, 2250 e ss. e 2428 ss.; E. Mattei, La ripartizione dell'attivo, in Crisi di impresa e procedure concorsuali diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, tomo II, Milano 2016, 2228 ss.; G. Minutoli, La distribuzione dell'attivo e il rendiconto, in Fallimento e concordato fallimentare a cura di A. Jorio, tomo II, Milano, 2016, 2384-2387; I. Iannicelli, Liquidazione “in senso stretto”, procedimento di distribuzione del ricavato e rendiconto del curatore: profili processuali, in Trattato delle procedure concorsuali a cura di A. Jorio e B. Sassani, tomo III, Milano, 2016, 509 ss.; G. Minutoli, La chiusura e la riapertura del fallimento, in Fallimento e concordato fallimentare a cura di A. Jorio, tomo II, Milano, 2016, 2413-2414; M. Spadaro, Casi di chiusura, in A.A.V.V., La nuova riforma del diritto concorsuale, Torino, 2015, 80 ss.; F. Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento, IlFallimentarista.it, 2015; A. Paluchowski, Art. 118 (Della chiusura del fallimento), in P. Pajardi, Codice del Fallimento a cura di M. Bocchiola e A. Paluchowski, Milano, 2013, 1458 ss.. In giurisprudenza cfr. Cass., 22 ottobre 2007, n. 22105; Cass., 15 dicembre 2006, n. 26927; Cass., 16 marzo 20031, n. 3819.

Sull'impugnazione del decreto di chiusura cfr. in dottrina M. Montanari, Il Procedimento di chiusura, in Trattato delle procedure concorsuali a cura di A. Jorio e B. Sassani, tomo III, Milano, 2016, 581 ss.; Norelli, sub art. 119 l.fall., in Codice Commentato del fallimento diretto da Lo Cascio, Milano, 2013, 1318 ss.; A. Paluchowski, Art. 118 (Della chiusura del fallimento), in P. Pajardi, Codice del Fallimento a cura di M. Bocchiola e A. Paluchowski, Milano, 2013, 1472 ss.; in giurisprudenza per l'oggetto del reclamo cfr. Cass., 12 maggio 2018, n. 5892; Cass., 13 luglio 2017, n. 17337; Cass., 30 settembre 2010, n. 395; Cass., 22 ottobre 2007, n. 22105; con particolare riferimento a interesse ad agire cfr. Cass., 28 maggio 2012, n. 8434; Cass., 15 dicembre 2006, n. 26927; Cass., 16 marzo 2001, n. 3819.

Sulla possibilità di chiusura del fallimento in pendenza di un procedimento giudiziale che potrebbe comportare la retrocessione del bene, cfr. in dottrina G. Limitone, La doverosa chiusura del fallimento in pendenza di giudizi, in ilcaso.it, 7 giugno 2016; M. Montanari, Ancora sulla chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, in ilcaso.it, 2 aprile 2016; M. Vitiello, La chiusura anticipata del fallimento nella pendenza di giudizi, in IlFallimentarista.it, 1 febbraio 2016 (in senso dubitativo); M. Montanari, La recente riforma della normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in ilcaso.it, 28 settembre 2015.

Sulla contestazione del riparto finale cfr. D'Attorre, La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro-Sandulli-Santoro, Torino, 2010, 717 ss..

Sull'impugnazione e sulla definitività del decreto di trasferimento cfr. in dottrina I. Iannicelli, op. cit., 455 ss.; M. Montanari, Il Procedimento di chiusura, op. cit., 634; C. Ferri, Le nullità delle vendite concorsuali, Riv. dir. proc., 2003, 432 ss.; R. Oriani, L'opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, 410 ss.. In giurisprudenza Cass., Sez. Unite, 14 dicembre 2020, n. 28387; Cass., 8 febbraio 2022, n. 4005; Cass., 7 maggio 2015, n. 9255; Cass., 29 maggio 2015, n. 11171.

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