Trasferimento di azienda assoggettata a fallimento: sulla prosecuzione dei rapporti di lavoro si pronuncia la CGUE

Luigi Andrea Cosattini
24 Agosto 2022

La questione esaminata dalla Corte di Giustizia è relativa alla richiesta di interpretazione degli artt. 3-5 della direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti
Massima

Nell'ipotesi in cui il trasferimento d'azienda sia stato preordinato per essere poi perfezionato nell'ambito di una procedura fallimentare che abbia l'obiettivo principale di consentire la cessione dell'azienda in attività (operazione cd. di “pre-pack”), ove ciò avvenga al fine di assicurare la migliore soddisfazione del ceto creditorio, non si applicano gli artt. 3 e 4 direttiva 2001/23/CE. Costituisce però condizione necessaria al fine di consentire la deroga agli artt. 3 e 4 di tale Direttiva il fatto che la procedura di “pre-pack” sia disciplinata da disposizioni legislative o regolamentari secondo il diritto nazionale.

La fattispecie esaminata dalla CGUE

La questione esaminata dalla Corte di Giustizia è relativa alla richiesta di interpretazione degli articoli da 3 a 5 della direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti.

Nella fattispecie, la richiesta di interpretazione della normativa eurounitaria è stata sollevata nell'ambito di una controversia insorta fra un'organizzazione sindacale olandese e due società con sede nella stessa nazione (cedente e cessionaria) e riguarda il mantenimento dei diritti dei lavoratori nel caso in cui il trasferimento d'azienda venga posto in essere nell'ambito della procedura fallimentare alla quale la società cedente era stata ammessa.

In particolare, la società cedente, in considerazione dello stato di insolvenza nel quale versava ed in previsione di accedere ad una procedura fallimentare, già prima di accedervi ha individuato l'acquirente del proprio compendio aziendale nell'ambito di una procedura di origine giurisprudenziale definita “pre-pack che consente, nell'ambito della liquidazione dei beni di un debitore, di pre-organizzare la futura vendita dell'azienda in esercizio, in tutto o in parte, nell'ambito della procedura fallimentare successivamente aperta, al fine di aumentare le possibilità soddisfazione della massa dei creditori.

Secondo quanto indicato nella sentenza in commento, “i preparativi di vendita consistono, in particolare, nel negoziare con uno o più candidati un accordo in base al quale l'impresa in questione sarà loro ceduta, in tutto o in parte, dopo la dichiarazione di fallimento del debitore.Il pre-pack si distingue dagli altri negozi di vendita preliminari alla dichiarazione di fallimento in quanto le operazioni di vendita organizzate nell'ambito di quest'ultimo sono predisposte da un curatore, denominato «curatore designato», sottoposto al controllo di un giudice delegato, denominato «giudice delegato designato». Questi ultimi sono nominati dal tribunale competente e il loro status nonché le loro funzioni sono stabiliti dalla giurisprudenza dello Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi)”.

Nell'ambito della procedura delineata dalla giurisprudenza interna olandese l'effettivo atto di trasferimento d'azienda è concluso e portato ad esecuzione solo dopo l'apertura della procedura fallimentare e nell'ambito di essa, ad opera del curatore e del giudice delegato in forza dei poteri ad essi conferiti. Tale procedura consente dunque di far sì che l'azienda sia mantenuta in attività (going concern) e che essa sia rapidamente ceduta dopo la dichiarazione di fallimento, con ciò evitando la cessazione o la sospensione dell'attività aziendale; ciò consente, solitamente, di perfezionare la cessione a fronte di un corrispettivo più elevato rispetto a quello ottenibile in caso di cessione di azienda non attiva e, quindi, di garantire un più elevato grado di soddisfazione della massa dei creditori.

Il contesto normativo eurounitario

La Direttiva del Consiglio 12 marzo 2001, n. 2001/23/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, afferma al primo comma dell'art. 3 che “I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario”: stabilisce quindi il fondamentale principio secondo il quale in caso di trasferimento d'azienda i lavoratori dipendenti ad essa addetti “seguono” l'azienda, prevedendo che il loro rapporto di lavoro sia ceduto ex lege al cessionario e prosegua alle dipendenze di esso senza soluzione di continuità.

Aggiunge in proposito il comma 1 dell'art. 4 che “Il trasferimento di un'impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d'organizzazione che comportano variazioni sul piano dell'occupazione”. In forza della Direttiva europea, dunque il trasferimento dell'azienda non costituisce di per sé legittimo motivo che consenta al datore di lavoro, sia esso il cedente o il cessionario, di procedere al licenziamento di uno o più dipendenti addetti all'azienda ceduta.

Consapevole degli effetti negativi che una disciplina così rigida (che sostanzialmente non consente al cedente di “snellire” la propria azienda riducendone il personale, né al cessionario di giustificare la riduzione di personale con il trasferimento in sé e per sé considerato) avrebbe comportato nelle ipotesi di trasferimento di aziende in crisi, e quindi bisognevoli di interventi atti a riequilibrarne la struttura e i costi, il Legislatore eurounitario ha previsto una deroga ad essa. Afferma infatti il comma 1 dell'art. 5 che, salva diversa previsione della legislazione interna degli Stati membri, “gli articoli 3 e 4 non si applicano ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente (che può essere il curatore fallimentare autorizzato da un'autorità pubblica competente)”.

Così disponendo, la normativa eurounitaria prevede la disapplicazione (salva diversa disposizione della normativa nazionale) delle tutele apprestate a favore dei lavoratori dipendenti dagli articoli 3 e 4 della Direttiva (ed in particolare, per l'aspetto che nella decisione in commento assume maggior rilievo, il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario dell'azienda) qualora sussistano, congiuntamente, tre condizioni: (i) che il trasferimento sia attuato nell'ambito di una procedura di insolvenza; (ii) che tale procedura si svolga sotto il controllo di un'autorità pubblica a tal fine designata dalla legislazione nazionale; (iii) che essa abbia una finalità “liquidatoria”. Ove tali condizioni non sussistano, le legislazioni nazionali non possono prevedere deroga alcuna ai principi posti dagli artt. 3 e 4 della Direttiva.

In tale contesto normativo, dunque, la questione fondamentale consiste, dando per scontato che si tratti di una procedura di insolvenza che si svolge sotto il controllo dell'autorità pubblica a tal fine designata dalla legislazione nazionale, nello stabilire se tale procedura abbia una finalità propriamente liquidatoria, cioè quella di dar corso alla liquidazione dei beni dell'impresa cedente con lo scopo di massimizzare la soddisfazione della massa dei creditori, ovvero abbia una finalità diversa, e segnatamente quella di consentire la prosecuzione dell'attività aziendale e/o il mantenimento dell'occupazione: solo nel primo caso, infatti, la disciplina eurounitaria prevede la disapplicazione delle norme che, in ogni altro caso, garantiscono la continuazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze del cessionario.

In argomento è importante evidenziare che la Corte di Giustizia era già stata chiamata a pronunciarsi in merito alle condizioni che, alla luce dell'articolo 5 della Direttiva 23/2001, consentono la disapplicazione della protezione garantita dagli articoli 3 e 4 della stessa Direttiva 23/2001 in caso di trasferimento d'azienda posto in essere a seguito dell'apertura di una procedura fallimentare ed in adempimento del “pre-pack” organizzato anteriormente all'apertura di essa, decidendo un caso analogo proprio di origine olandese. Già in tale occasione la Corte di Giustizia europea si è posta il problema, la cui rilevanza decisiva è di immediata evidenza, della distinzione fra procedure con finalità di salvaguardia della continuità aziendale e procedure con finalità liquidatorie. Approcciando a tal fine il dettato normativo, e rilevato preliminarmente che il comma 1 dell'articolo 5 “in principio, rende inapplicabile il regime di tutela dei lavoratori in determinati casi di trasferimento d'impresa, e si discosta dall'obbiettivo principale alla base della direttiva 2001/23”, con la conseguenza che esso “deve necessariamente essere oggetto di una interpretazione restrittiva”, ha evidenziato, richiamando i propri precedenti in materia (ed in particolare le sentenze del 25 luglio 1991, d'Urso e a., C‑362/89, EU:C:1991:326, punti 31 e 32, e del 7 dicembre 1995, Spano e a., C‑472/93, EU:C:1995:421, punto 25) che “una procedura che miri al proseguimento dell'attività dell'impresa interessata non soddisfa tale condizione”. Nell'evidenziare le differenze tra procedure con finalità liquidatorie e procedure con finalità di salvaguardia del going concern, ha precisato che “l'una mira al proseguimento dell'attività, mentre l'altra mira a salvaguardare l'operatività dell'impresa o delle sue unità economicamente sostenibili. Al contrario, una procedura intesa alla liquidazione dei beni mira a massimizzare la soddisfazione collettiva dei creditori. Sebbene non sia escluso che possa esistere una certa sovrapposizione tra i due obbiettivi perseguiti da una data procedura, l'obbiettivo principale di una procedura mirante al proseguimento dell'attività dell'impresa rimane comunque la salvaguardia dell'impresa interessata”.

Sulla scorta di tali argomentazioni, ed affrontando il caso specifico di cessione attuata nell'ambito di una procedura fallimentare a seguito di “pre pack” secondo la prassi giurisprudenziale olandese, in tale occasione la Corte (CGUE 22/06/2017, n. 126/16) era giunta alla conclusione secondo la quale la tutela dei lavoratori garantita dagli articoli 3 e 4 della Direttiva 23/2001 deve ritenersi applicabile in una fattispecie come quella sopra descritta, specificando che “non è rilevante, a tal riguardo, che l'obbiettivo perseguito da tale operazione di pre-pack miri anche a massimizzare gli introiti della cessione per l'insieme dei creditori dell'impresa in oggetto”.

La decisione assunta dalla sentenza in rassegna

La sentenza in rassegna si confronta, ovviamente (trattandosi di decidere una fattispecie sostanzialmente analoga, e per di più regolata dal medesimo diritto nazionale), con il precedente costituito da CGUE 22 giugno 2017, evidenziando come risulti indispensabile accertare caso per caso “se la procedura di pre-pack e la procedura fallimentare di cui trattasi siano dirette alla liquidazione dell'impresa a causa della comprovata insolvenza del cedente, e non a una mera riorganizzazione di quest'ultimo. Inoltre, dovrà essere accertato non solo che tali procedure hanno l'obiettivo principale di soddisfare al meglio l'insieme dei creditori, ma anche che l'attuazione della liquidazione mediante la cessione dell'impresa in attività (going concern) o di una parte di essa, come predisposta nell'ambito della procedura di pre-pack e realizzata in seguito alla procedura fallimentare, consente di raggiungere tale obiettivo principale”.

Essa peraltro giunge, piuttosto sorprendentemente, a conclusioni opposte, sotto il profilo della qualificazione della procedura come liquidatoria o non liquidatoria, rispetto a quelle precedentemente accolte.

Nell'argomentare il proprio discostarsi dal precedente sopra citato i giudici di Strasburgo evidenziano che, a differenza di quanto descritto dal giudice del rinvio nel precedente caso, nel procedimento oggetto dell'attuale causa il giudice remittente olandese ha evidenziato che “l'obiettivo principale della procedura di pre-pack è di conseguire, al momento della liquidazione dei beni del debitore, il rimborso più elevato possibile in favore dell'insieme dei creditori e che, in via accessoria, l'operazione di pre-pack contribuisce a mantenere, in parte, l'occupazione”; non solo, ma risulta altresì dalla descrizione della fattispecie posta all'attenzione della Corte Europea che nel momento in cui la procedura di “pre-pack” era stata avviata l'insolvenza del cedente era inevitabile e che l'intera operazione (“pre pack” e successiva procedura fallimentare) erano finalizzate alla liquidazione dei beni dell'impresa.

Alla luce di tali elementi di fatto la decisione in commento ha ritenuto che, nella fattispecie concreta sottoposta al proprio vaglio, l'obiettivo principale della procedura di “pre-pack” seguita dalla cessione dell'azienda in attività nell'ambito della procedura fallimentare successivamente aperta fosse quello di ottenere la massima soddisfazione della massa dei creditori, e quindi che tale procedura, rientrando a pieno titolo nell'ambito di quelle propriamente “liquidatorie”, soddisfacesse, in linea di principio, il secondo presupposto previsto all'art. 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/23.

E' importante notare, anche al fine di valutare la portata delle valutazioni espresse dai giudici di Strasburgo in relazione al panorama giurisprudenziale interno (sul quale si aggiungerà infra qualche osservazione), che essi negano per la seconda volta, pur giungendo sul punto a conclusioni opposte da quelle accolte da CGUE 22 giugno 2017, un assioma che sembrava indiscutibile: quello della finalità liquidatoria della procedura fallimentare. Anche nel caso oggetto della sentenza in rassegna, infatti, la procedura concorsuale esaminata dal giudice nazionale è chiaramente individuata come “fallimento” (v. parr. 28 e 31). Ma la Corte non ne trae automaticamente la conseguenza che tale procedura sia caratterizzata da finalità liquidatoria; afferma invece a chiare lettere che anche qualora si tratti di fallimento occorre porsi il problema, e verificare nel concreto, se la finalità della procedura sia quella di consentire il massimo realizzo a beneficio della massa dei creditori (e quindi propriamente liquidatoria) ovvero quello della salvaguardia della continuità aziendale. Assume quindi un approccio “sostanzialistico” che, a prescindere dall'aspetto formale della procedura concorsuale alla quale l'impresa viene assoggettata, pone al centro della propria valutazione la concreta finalità perseguita, con ciò non escludendo che una procedura normalmente e “istituzionalmente” liquidatoria possa essere invece utilizzata dalle parti coinvolte per una finalità preminentemente conservativa del going concern.

La decisione in rassegna, però, non si arresta a tale considerazione, ed introduce un'ulteriore questione che la porta, in conclusione, ad escludere comunque che la fattispecie posta al suo esame consenta l'applicazione della deroga apprestata dal primo comma dell'articolo 5 della Direttiva 23/2001. Osservano infatti i giudici di Strasburgo che “dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta che la procedura di pre-pack di cui trattasi è disciplinata esclusivamente da norme giurisprudenziali e che la sua applicazione da parte dei diversi organi giurisdizionali nazionali non è uniforme, sicché essa sarebbe fonte, come rilevato dall'avvocato generale al paragrafo 83 delle sue conclusioni, d'incertezza del diritto”. Orbene, in siffatte circostanze non si può ritenere che la procedura di pre-pack determinata dalla giurisprudenza del giudice del rinvio disciplini l'attuazione dell'eccezione prevista all'art, 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/23 e tale procedura non soddisfa il requisito della certezza del diritto. Il fatto che le operazioni di “pre-pack” risultino disciplinate nel diritto olandese solo da prassi giurisprudenziali e non da norme di legge, dunque, genera agli occhi dei giudici di Strasburgo una inammissibile d'incertezza del diritto. Ne consegue, secondo la decisione in rassegna, che tale operazione, pur portando alla cessione dell'azienda nell'ambito di una procedura fallimentare caratterizzata da una preminente finalità liquidatoria (così è stata ricostruita, in concreto, la fattispecie sottoposta al vaglio della Corte), non rientra fra quelle disciplinate dall'art. 5, comma 1, della Direttiva 23/2001, e non consente quindi la deroga alla disciplina degli artt. 3 e 4 della stessa Direttiva: una considerazione che, con tutta evidenza, rischia di assumere rilievo assorbente di ogni considerazione sulla natura liquidatoria o meno della procedura in esame, posto che non risulta agevole rinvenire sistemi giuridici nei quali le operazioni di “pre-pack” in ottica di vendita fallimentare sono disciplinate per legge (o comunque con disposizioni aventi efficacia normativa) e, quindi, consentono la deroga alla disciplina di cui agli artt. 3 e 4 della Direttiva secondo quanto disposto dall'articolo 5 di essa.

Uno sguardo al contesto italiano

La disciplina normativa eurounitaria è stata recepita in Italia con un travagliato percorso che ha imposto al nostro Legislatore di intervenire più volte per rendere la normativa interna compatibile con i principi dettati dalla Direttiva 23/2001.

La norma di riferimento è l'art. 47 L. 428/1990, il cui tenore prevedeva (nel testo in vigore fino al 15 luglio 2022), così come la normativa europea, la distinzione fra procedure caratterizzate dalla continuità aziendale, per le quali non è consentito derogare al principio della continuità dei rapporti di lavoro pendenti alla data del trasferimento (art. 47, comma 4 bis, L. 428/1990) e procedure liquidatorie, per le quali tale deroga è prevista, salve diverse disposizioni contenute in apposito accordo sindacale (art. 47, comma 5, L. 428/1990): fra di esse la norma annoverava la “dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all'amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata”.

Le modifiche apportate dal Codice della crisi d'Impresa e dell'Insolvenza con decorrenza dal 15 luglio 2022 continuano a salvaguardare tale distinzione (sostituendo ovviamente la locuzione “liquidazione giudiziale” al termine “fallimento”) e prevedono però, per le procedure considerate “liquidatorie”, non la disapplicazione della continuità del rapporto, salva diversa disposizione dell'accordo sindacale, ma il contrario: si applica il principio della continuità del rapporto di lavoro a meno che la contrattazione collettiva preveda la deroga. Afferma infatti il nuovo testo del comma 5 dell'art. 47 L. 428/1990 che “Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario. Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia dell'occupazione, contratti collettivi ai sensi dell'articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in deroga all'articolo 2112, commi 1, 3 e 4, del codice civile”.

Il fallimento (o liquidazione giudiziale), dunque, è annoverato fra le procedure “istituzionalmente” liquidatorie per le quali può non operare, in caso di accordo in tal senso con le organizzazioni sindacali (che devono necessariamente essere consultate nei termini e con le forme di cui all'art. 47 L. 428/1990), e sempre che la continuazione dell'attività aziendale non sia stata disposta dagli organi della procedura, il principio della continuità dei rapporti di lavoro. Occorre quindi chiedersi se tale soluzione dettata dalla normativa interna sia conforme all'interpretazione che della normativa europea ha fornito la giurisprudenza della Corte di Giustizia con la pronuncia in commento e con il proprio precedente sopra richiamato.

L'approccio “sostanzialistico” adottato dalla Corte europea, che spezza l'assioma secondo il quale il fallimento ha sempre e necessariamente finalità liquidatoria, si pone infatti in contrasto con l'orientamento espresso, anche recentemente, dalla nostra Corte di Cassazione.

Nell'affrontare un caso che per certi versi presenta elementi di somiglianza con il “pre-pack” delibato dalla sentenza in commento (si discuteva infatti del caso, piuttosto frequente, in cui un'impresa in crisi stipula, prima di essere dichiarata fallita, un contratto di affitto di azienda che poi prosegue fino alla cessione dell'azienda, nell'ambito della procedura fallimentare, all'affittuario stesso), Cass. 24691 del 14 settembre 2021 ha affermato che le procedure fallimentari sono “ontologicamente ed esclusivamente preordinate alla liquidazione della società dichiarata fallita, rappresentando - eventuali segmenti di prosecuzione dell'attività imprenditoriale, quali l'affitto o la vendita del ramo di azienda - solamente, strumenti orientati ad una funzione liquidatoria, finalizzati a conservare il valore di avviamento sul mercato per incrementare il più possibile il compendio aziendale per la distribuzione ai creditori”; a differenza di quanto fanno i giudici di Strasburgo non contempla dunque, la nostra Suprema Corte, che alla procedura fallimentare si acceda non solo (e non tanto) al fine di massimizzare la soddisfazione dei creditori, ma anche (ed anzi prioritariamente) con la finalità di consentire la prosecuzione dell'attività aziendale, alleggerendola dal fardello dei debiti su di essa gravanti. Pur menzionando nell'ambito della motivazione la decisione CGUE 22.6.2017 (ovviamente non CGUE 28.4.2022, essendo successiva) la S.C. non sembra cogliere il fatto che, secondo l'opinione espressa dalla Corte europea, è possibile che la procedura fallimentare assuma in concreto, e prevalentemente, la finalità di consentire la prosecuzione dell'attività aziendale, anziché quella che le istituzionalmente propria di massimizzare la soddisfazione del ceto creditorio e disattende quindi l'insegnamento secondo il quale è necessario compiere un vaglio del caso concreto che prescinda dal nomen iuris della procedura adottata e dalle finalità astrattamente ad essa attribuite dal legislatore. Se ne trova conferma nel passaggio in cui Cass. 24691/2021 afferma che “Le procedure fallimentari sono, invero, espressamente richiamate nel paragrafo 1 del comma 5 della Direttiva 2001/23/CE e soddisfano ontologicamente tutti e tre i requisiti ribaditi dalla Giurisprudenza comunitaria come innanzi illustrati (ossia, l'impresa cedente sia oggetto di una procedura fallimentare - o di una, procedura d'insolvenza analoga -, la procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente, la procedura si svolga sotto il controllo di un'autorità pubblica competente); non vi, è, dunque, alcun bisogno, di verificarne la ricorrenza, come può, invece, accadere per i casi di amministrazione straordinaria o di concordato preventivo ove può mancare il fine liquidatorio potendo essere orientato, il piano predisposto dal giudice, o alla soddisfazione dei creditori attraverso la continuità aziendale ovvero alla liquidazione del patrimonio”.

Così ragionando, ed ancorandosi dunque all'idea che il fallimento (ora liquidazione giudiziale) consente la deroga di cui all'art. 5 comma 1 della Direttiva per il solo fatto di essere ivi menzionato, la S.C. giunge alla conclusione secondo la quale “Il testo del comma 5 dell'art. 47 della legge n. 428 del 1990 interpretato conformemente alla norma comunitaria di cui reca, attuazione nonché alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, consente pianamente di includere tutte le procedure fallimentari nell'ambito delle imprese che possono disapplicare l'art. 2112 c.c.”.

Osservazioni

La soluzione adottata dalla Suprema Corte è con tutta evidenza più semplice, posto che si affida ad un principio definitorio: il fallimento è espressamente menzionato fra le procedure che, ai sensi dell'art. 5, comma 1, Direttiva 23/2001 e dell'art. 47 comma 5 L. 428/1990, prevedono la deroga al principio di continuità del rapporto di lavoro, e quindi nulla quaestio, non è necessario (né consentito) porsi il problema della concreta finalità della procedura.

L'approccio della Corte di Giustizia risulta invece più problematico, posto che impone di valutare caso per caso ed in concreto, anche prescindendo dalla veste formale della procedura concorsuale adottata, la finalità di essa alla luce del concreto assetto di interessi rilevabile dal progetto dei soggetti coinvolti.

La difficoltà di tale approccio risiede, a parere di chi scrive, nel fatto che la finalità di massimizzare la soddisfazione del ceto creditorio tramite la liquidazione del patrimonio e quella di consentire la continuazione dell'attività aziendale non sono necessariamente fra di loro alternative, ed anzi spesso sono complementari: proprio salvaguardando la continuità aziendale, anche con accordi posti in essere nella fase prodromica all'apertura della procedura concorsuale, è possibile far sì che il compendio aziendale venga poi ceduto, nell'ambito del fallimento/liquidazione giudiziale, ad un prezzo superiore, con ciò aumentando la soddisfazione del ceto creditorio.

Al tempo stesso, è possibile (ed anzi non del tutto infrequente) che la continuità aziendale sia il vero fine perseguito dai soggetti coinvolti (titolare dell'impresa in crisi e soggetto che si propone di acquisire l'azienda “ripulita” dai debiti concorsuali) e che la procedura fallimentare sia solo lo strumento attraverso il quale tale fine viene perseguito; anche in tal caso, verosimilmente, la soddisfazione del ceto creditorio è maggiore rispetto all'ipotesi puramente liquidatoria costituita dalla cessione parcellizzata dei beni di un'azienda non più attiva, ma non è detto che tale considerazione sia quella che orienta le parti ad accedere alla procedura fallimentare.

Certo è che, ove si condivida l'approccio adottato dalla Corte di Giustizia, l'interesse ad accedere ad una procedura fallimentare con l'intento di acquisire l'azienda, in attività ma alleggerita dalla massa debitoria, dal fallimento/liquidazione giudiziale, risulterebbe fortemente compromesso: la riduzione della forza lavoro in occasione del trasferimento, consentita in caso di procedura liquidatoria e preclusa invece in caso di continuità aziendale, è infatti uno strumento spesso indispensabile per adattare l'organico aziendale alle esigenze del cessionario.

Guida all'approfondimento

Utili indicazioni sulle tematiche sopra richiamate sono rinvenibili, in dottrina, in M. MARAZZA E D. GAROFALO, Insolvenza del datore di lavoro e tutele del lavoratore, Torino; I. ALVINO, Continuità aziendale, trasferimento d'azienda e tutela dell'occupazione nel nuovo codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in RIDL, 2019, I, 431; E.BARRACO, A. SITZIA e M. LUCCHIARI, Trasferimento d'azienda e giurisprudenza europea, in DPL, 2020, 2567; G. PROIA, Trasferimento d'azienda e rapporti di lavoro nelle ‘nuove' procedure concorsuali, in DML, 2020, 305; P. TOSI, Circolazione dell'impresa in crisi e interpretazione comunitariamente orientata dell'art. 47 comma 4 bis l. n. 482/90, in LDE, 2018, n. 2; R. ROMEI, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell'azienda, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021.

In giurisprudenza, oltre alle sentenze citate nel testo, Cass. civ., Sez. lav., Ord., 27/06/2022, n. 20531; Corte di appello civile Roma, 12 marzo 2021; Cass. civile, sez. lav., 6 dicembre 2019 n. 31946; Cass. civ., sez. lav., sent., 19 gennaio 2018 n. 1383.

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