Atp ex lege Gelli: sono ammissibili le contestazioni sull'an debeatur? Quando si avvera la condizione di procedibilità?

24 Agosto 2022

Le riflessioni sui limiti all'ammissibilità del ricorso ex art. 696-bis c.p.c. si inseriscono, tra l'altro, in un acceso dibattito concernente la sussistenza di possibili contestazioni da parte del resistente in ordine all'an debeatur.
L'art. 8 della Legge Gelli Bianco: problemi ancora aperti

L'art. 8 della Legge Gelli-Bianco (legge 8 marzo 2017, n.24), com'è noto, rappresenta la grundnorm del tentativo obbligatorio di conciliazione nella malmed, istituto avente finalità deflattiva che consente alla parte interessata di esperire un'azione risarcitoria nelle ipotesi di responsabilità sanitaria.

La succitata norma contempla due condizioni di procedibilità, tra loro alternative: il ricorso di cui all'art. 696-bis c.p.c. – su cui risulta maggiormente concentrato il dettato dell'art. 8 – ovvero il procedimento di mediazione ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010.

Entrambi gli istituti hanno dato e continuano a dare del filo da torcere agli interpreti del diritto sotto diversi profili.

In questa sede si è ritenuto d'incentrare l'attenzione sull'ATP per fare il punto sullo stato dell'arte in dottrina e in giurisprudenza in relazione a due problematiche: la possibilità per la parte resistente di sollevare contestazioni in merito all'an debeatur e, infine, l'individuazione del timing di attivazione della condizione di procedibilità. Esaminiamole partitamente.

Le contestazioni sull'an debeatur

Come accennato, le riflessioni sui limiti all'ammissibilità del ricorso ex art. 696-bis c.p.c. si inseriscono, tra l'altro, in un acceso dibattito concernente la sussistenza di possibili contestazioni da parte del resistente in ordine all'an debeatur.

Sul punto si intersecano tesi più restrittive e tesi di più ampio respiro. Per esigenze di chiarezza rispetto ai limiti e alla funzione del presente scritto, saranno prese in esame le sole due linee interpretative che sfociano in direzioni opposte.

  • Una prima posizione, incline a considerare le eccezioni meritali, ritiene che non si potrebbe dar seguito al procedimento laddove siano opposte contestazioni circa l'an debeatur;
  • Una seconda impostazione, restrittiva e di matrice (asseritamente) letterale, afferma l'assoluta ininfluenza delle contestazioni della parte resistente in merito al quantum e all'an debeatur, muovendo, in particolare, dalla natura deflattiva dell'istituto in esame.
La teoria restrittiva: irrilevanza delle contestazioni sull'an debeatur

Partendo dall'esame di quest'ultima linea interpretativa, si ritiene che, rappresentando l'ATP una condizione obbligatoria di procedibilità, non vi sarebbe per il giudice alcun margine di apprezzamento discrezionale in merito alla delibazione del ricorso, con la conseguenza che non si potrebbe mai dichiarare l'inammissibilità dello stesso (cfr., ex multis, la recente ordinanza del Trib. Trieste del 20 maggio 2022, rel. Sirza: «Il giudice rigetta l'eccezione di inammissibilità della consulenza tecnica preventiva, che avendo anche finalità conciliativa, integra una delle condizioni di procedibilità dell'introduzione di una causa di merito in materia di responsabilità conseguente all'esercizio delle professioni sanitarie».

Sul punto si registrano, per vero, posizioni ancora più estreme, come quella espressa dal Trib. Pordenone, rel. Appierto, con ordinanza dd.17 marzo 2022: «la presente procedura ha scopo conciliativo e deflattivo e sono, pertanto, inammissibili le argomentazioni meritali contenute negli scritti introduttivi delle parti.

Il procedimento ex art. 696 c.p.c. non è, infatti, un procedimento ordinario, non è regolato dagli art. 163 e ss c.p.c., non è un procedimento cautelare, non è impugnabile, non è reclamabile, non è appellabile, non esita un provvedimento decisorio, limitandosi il Giudice, a spese del ricorrente, a nominare un Consulente tecnico perché indaghi liberamente sui fatti di causa e proponga soluzioni conciliative.

Nulla vieta alle parti interessate di adire, poi, il Giudice di merito, nel cui contesto verranno proposte le domande e le eccezioni che si ritiene di portare all'attenzione del Giudice, assumendosi, tuttavia, la responsabilità del processo anche ai sensi e per gli effetti dell'art. 96, comma 3, c.p.c.»).

Il punto di fuga di queste linee interpretative si colloca nella constatazione secondo la quale l'ammissione del mezzo istruttorio non debba essere impedita da aprioristici dinieghi alla definizione conciliativa della controversia (sul punto, M. Marrone, L. Marrone, E. Gorini, A. Stellacci, A. Dell'Erba, Articolo 8 della Legge 8 marzo 2017/ Accertamento Tecnico Preventivo art. 696-bis c.p.c. e tentativo di conciliazione: i compiti del CTU, in Riv. it. med. leg., 2021, pp. 977 ss.).

In pratica, il mezzo istruttorio dovrebbe ammettersi a prescindere dalla negazione della definizione conciliativa: la consulenza tecnica preventiva finalizzata alla conciliazione della lite ex art. 696-bis c.p.c. non presenterebbe, fra i requisiti di ammissibilità, la non contestazione in ordine all' an debeatur.

In una tale prospettiva, il ricorrente non sarebbe, conseguentemente (e paradossalmente, n.d.a.), nemmeno tenuto a provare il proprio diritto presentando il ricorso: un requisito così stringente, secondo la teorica in parola, andrebbe a vanificare la funzione conciliativa dell'istituto (cfr. F. Santagada, Meccanismi deflativi e acceleratori per le controversie di risarcimento del danno da responsabilità sanitaria: note a prima lettura sull'art. 8 l. 8 marzo 2017, n. 24, in Riv. Trim., 3, 2018, pp.1123 ss.).

La teoria estensiva: inammissibilità del ricorso in presenza di contestazione sull'an debeatur

Le riflessioni finora condotte si contrappongono all'opinione giurisprudenziale favorevole a considerare le contestazioni in merito all'an debeatur quale requisito di ammissibilità dell'istituto.

La giurisprudenza ha, così, rilevato l'inammissibilità del ricorso ex art. 696-bis c.p.c. qualora la decisione della causa di merito implichi la soluzione di questioni giuridiche complesse o l'accertamento di fatti che esulino dall'ambito delle indagini di mera natura tecnica (ex multis, Trib. Roma, sez. XVI, 29 dicembre 2020).

Nello stesso contesto interpretativo assai interessante appare, altresì, la motivazione con la quale il Tribunale di Treviso, rel. Saran, ha recentemente rigettato un ricorso in tema di malpractice: «pur dando che l'art. 696-bis c.p.c. – introdotto con la novella del 2005 – ha anch'esso attinto, nella sostanza alle analoghe e precedenti esperienze francesi e tedesche al fine di consentire di esperire in via preventiva una consulenza tecnica anche al di fuori delle condizioni previste dall'art. 696 c.p.c., con lo scopo di deflazionare il contenzioso avanti il giudice e la cosiddetta economia dei giudizi, nondimeno appare necessario interpretare restrittivamente l'istituto in esame ritenendo che – in accordo con la dottrina e la giurisprudenza di merito maggioritaria – presupposto dell'accertamento tecnico preventivo sia che la controversia fra le parti abbia come unico punto di dissenso ciò che in sede di processo di cognizione può costituire oggetto di consulenza tecnica acquisita la quale, secondo le preventive e dichiarate intenzioni delle parti appare assai probabile che esse si concilieranno. Pertanto, secondo una corretta applicazione di tale principio, la domanda del ricorrente deve essere dichiarata inammissibile qualora le parti non controvertano – come nel caso di specie – solo sulla misura dell'obbligazione e su questioni meramente tecnico-specialistiche bensì anche sull'effettiva sussistenza della stessa» (Trib. Treviso, ord. 30 maggio 2022).

In un precedente specifico, oltretutto, lo stesso Tribunale di Treviso aveva significativamente evidenziato che «qualora il petitum introdotto dal ricorrente trascenda le competenze del consulente tecnico d'ufficio, e la causa necessiti dunque di un'istruttoria maggiormente approfondita (…) il procedimento ex art. 696-bis c.p.c. subirebbe uno sviamento rispetto al fine per il quale è stato introdotto, consentendo unicamente alle parti di precostituirsi un mezzo di prova utilizzabile nel successivo giudizio di merito pur in assenza del periculum in mora, la cui sussistenza legittimerebbe l'esperimento del ricorso in via d'urgenza ex art. 696 c.p.c.» (Trib. Treviso, rel. Barbazza, ord. 4 febbraio 2020).

Considerazioni conclusive: la teoria estensiva condizionata all'esame delle contestazioni

Ad avviso di chi scrive, la teorica in parola appare perfettamente consonante con la ratio dell'istituto in esame proprio perché valorizza le esigenze deflattive dello stesso: laddove venisse opposta un'eccezione sull'an (con le caratteristiche di cui infra), verrà immancabilmente meno quel presupposto dell'accertamento tecnico preventivo che vuole che «la controversia abbia come unico punto di dissenso ciò che in sede di processo di cognizione può costituire oggetto di consulenza tecnica acquisita la quale, secondo le preventive e dichiarate intenzioni delle parti appare assai probabile che esse si concilieranno».

Il ruolo del giudice in una simile prospettiva, peraltro, è esattamente l'opposto rispetto a quello che si determinerebbe limitandone l'attività alla sola nomina di un Consulente tecnico «perché indaghi liberamente sui fatti di causa e proponga soluzioni conciliative». Siffatto procedimento svilirebbe la funzione giudiziale stessa, poiché sarebbe (assai tristemente) sufficiente presentare un'istanza al Cancelliere affinché egli – e non il giudice – individui nell'albo dei CTU il Collegio che dovrà occuparsi della questione tecnica, tentando, poi, la conciliazione delle parti. Ma ciò – è ovvio – ci condurrebbe in tutt'altra direzione.

Il giudice, al contrario, dovrà attentamente valutare il peso specifico di ogni singola contestazione sull'an proprio per evitare che argomentazioni speciose ed inconsistenti vengano utilizzate con il solo fine di paralizzare l'istituto, privandolo così della primaria finalità deflattiva auspicata dal legislatore.

Ciò vale a dire che se l'esito della (necessariamente sommaria) delibazione che, dunque, il giudice è tenuto a svolgere sulle eccezioni in merito all'an debeatur sarà di reiezione delle relative contestazioni, allorariprenderà vigore e funzione l'istituto e dovrà procedersi alla nomina del Collegio, potendo le parti, al deposito dell'elaborato (e talvolta anche prima, come accade non di rado nella pratica), trovare il componimento della lite; viceversa, se le contestazioni sul merito della vicenda trovassero sponda nella delibazione giudiziale, la declaratoria d'inammissibilità del ricorso impedirà lo svolgimento di un'attività del tutto inutile ai fini conciliativi voluti dal legislatore.

Quando si avvera la condizione di procedibilità

Qui i corni del dilemma si sviluppano intorno all'interpretazione dell'art.8 della Legge Gelli: è sufficiente la mera presentazione del ricorso, come sembra desumersi dalla piana lettura del secondo comma o è altresì necessario lo svolgimento della consulenza tecnica, quale che sia l'esito in funzione della conciliazione, come si potrebbe diversamente evincere dal terzo comma della stessa norma?

E poi, se si dovesse propendere per la prima tesi, quid iuris in caso di ricorso dichiarato inammissibile o, magari, presentato ma non notificato alle altre parti? La condizione di procedibilità potrebbe darsi ugualmente per avverata?

Vediamo, dunque, di districarci attraverso queste diverse interpretazioni.

Avveramento della condizione alla presentazione del ricorso

La linea interpretativa in parola fa leva, come detto, sulla lettera della legge: la presentazione del ricorso – afferma il secondo comma dell'art. 8 – costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento. Et de hoc satis, si potrebbe concludere.

Una lettura costituzionalmente orientata della norma suggerirebbe, infatti, di ritenere adempiuta la condizione con la sola presentazione del ricorso: sembra, infatti, plausibile fare riferimento alla data di deposito del ricorso ex art. 696-bis c.p.c., così come avviene per la mediazione. La l. n. 98 del 2013, infatti, aveva fatto luce sul momento della c.d. litispendenza mediativa ricollegandola al deposito dell'istanza ed uniformando il criterio anche ai fini del calcolo del dies a quo della durata della mediazione. Dunque, lo stesso vale anche per il termine di durata massima stabilito in 6 mesi per il procedimento ex art. 696-bis c.p.c. (sul punto, M. Ragni, La nuova condizione di procedibilità ex art. 696-bis c.p.c. delle controversie di responsabilità medico-sanitaria in Riv. Trim., 1, 2019, pp. 269 ss.).

Cosa accade, tuttavia, se il ricorso è dichiarato inammissibile? Oppure se, una volta depositato in cancelleria, non si provvede alla notifica dello stesso unitamente al decreto?

Secondo questa corrente interpretativa, la condizione di procedibilità è considerata avverata anche se il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. venisse rigettato o dichiarato inammissibile, ovvero senza che venisse dato sfogo ad alcun tentativo di conciliazione (cfr. M. Ragni, op.cit.; F. Cuomo Ulloa, Risoluzione alternativa delle controversie in materia di responsabilità sanitaria: le novità della legge Gelli - I Parte in Resp. civ. prev., 2018, pp. 297 ss.): pretendere che la parte, che ha visto ingiustamente respinta la domanda di nomina del consulente tecnico, riproponga nuovamente il ricorso costituirebbe un'eccessiva limitazione all'esercizio dell'azione, né la si potrebbe gravare di un'impugnazione, non prevista in relazione ai provvedimenti che pronunciano sull'istanza per consulenza tecnica preventiva ;(cfr. M. Zulberti, La consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite in materia di responsabilità sanitaria. Riflessioni a margine dell'art. 8 della l. n. 24/17, in Riv. arb., 2018, pp. 97 ss.).

Inoltre, stante il tenore inequivoco della norma, sulla carta il ricorrente potrebbe limitarsi a depositare il ricorso, non provvedere alla notifica del successivo provvedimento di fissazione, impendendo così sostanzialmente lo svolgimento del procedimento ed aver ugualmente soddisfatto la condizione di procedibilità (cfr. A. Melucco, La legge Gelli/Bianco, il processo (l'ATP) e la mediazione, in Giustizia Civile.com, approfondimento del 29 settembre 2017, il quale, peraltro soggiunge che «il legislatore ha tuttavia inteso chiaramente scongiurare ogni comportamento non collaborativo, inserendo a chiusura dell'art. 8 una disposizione particolarmente afflittiva»).

Avveramento della condizione all'esito della CTU

Alla precedente impostazione si contrappone la linea interpretativa che ritiene che la condizione di procedibilità non possa scaturire dalla semplice presentazione del ricorso, come il dato letterale del secondo comma potrebbe indurre a ritenere.

Solo il fallimento del tentativo di conciliazione operato dal Consulente Tecnico nominato dal giudice (o il decorso di sei mesi dal deposito del ricorso) avrebbero la peculiarità di rendere procedibile la domanda, a mente di quanto chiarito dal terzo comma della norma in parola (così M. Zulberti, op. cit.).

Più in generale, si ritiene che la condizione di procedibilità può darsi per avverata nel momento in cui si è dato corso al procedimento che la norma impone come condizione di procedibilità, indipendentemente dall'esito che questo abbia avuto e, dunque, anche per l'ipotesi di esito negativo nel senso del rigetto della domanda, in rito (come sarebbe per il caso del difetto dei presupposti processuali), come in merito (e dunque come sarebbe, per esempio, nell'ipotesi di manifesta infondatezza. Sul punto, L. Querzola, Responsabilità sanitaria e processo: alcune riflessioni, in Riv. trim., fasc.3, 2021, pp. 749 ss.).

Considerazioni conclusive: ubi lex voluit dixit?

Alla linea dottrinale che valorizza – non tanto la formulazione quanto – il contenuto del terzo comma dell'art. 8 della Legge Gelli va dato il merito di avere ricercato nell'impianto normativo un elemento che fungesse da trait d'union tra il dato lessicale e perentorio di cui al secondo comma dell'art.8 («La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento») e quello teleologico di cui al terzo comma (Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile»).

La formulazione della disposizione in esame, com'è stato rilevato da gran parte dei commentatori, non si è distinta né per coerenza, né per chiarezza (per un meditato resoconto dei lavori preparatori in merito alla condizione di procedibilità si rimanda a G. Raiti, Sulle condizioni di procedibilità dell'azione risarcitoria per responsabilità sanitaria, in Riv. dir. proc., 1, 2020, pp. 1-3).

Il solo dato apparentemente incontestabile parrebbe quello evincibile dalla nuda lettera della legge: la presentazione del ricorso costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento.

Ma ciò, come è stato rilevato supra, porterebbe a risultati dissonanti con le finalità dell'istituto. Del resto, nemmeno il legislatore può avere realmente pensato che il mero deposito del ricorso potesse costituire la condizione necessaria e sufficiente ad innescare la procedibilità dell'azione in totale assenza di contradditorio.

Sotto questo profilo, peraltro, se il giudice dichiarasse de plano inammissibile il ricorso senza provocare il contraddittorio, non si potrà certamente ritenere avverata la condizione poiché non c'è stato alcun procedimento e per convincersene è sufficiente riferirsi all'ipotesi parallela della domanda di mediazione depositata ma non comunicata alla controparte dall'organismo.

Posto, dunque, che nella formulazione del secondo comma il legislatore minus dixit quam voluit, appare coerente con l'impianto dell'istituto in esame ritenere avverata la condizione di procedibilità nel momento in cui si è dato corso al procedimento che la norma impone come condizione di procedibilità, indipendentemente dall'esito che questo abbia avuto (e, dunque, anche per l'ipotesi indicata da L. Querzola, op. cit., del rigetto della domanda, in rito come nel merito), sempreché un procedimento in contraddittorio vi sia stato.

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