Diverbio con il superiore e passaggio alle vie di fatto: il licenziamento è legittimo
25 Agosto 2022
Massima
Il comportamento aggressivo tenuto dal dipendente nei confronti di un superiore gerarchico, anche se al di fuori dell'orario di lavoro, legittima il datore a comminargli la massima sanzione espulsiva, risultando integrata la giusta causa di recesso; infatti una tale condotta è in aperta violazione non soltanto degli obblighi di fedeltà e diligenza, ma anche delle regole del vivere civile, essendo altresì fonte di dubbi circa il futuro rispetto, da parte del lavoratore insubordinato, della disciplina aziendale. Il caso
Un lavoratore ha proposto ricorso dinnanzi al Tribunale di Catanzaro per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dal datore di lavoro e la conseguente condanna alla riassunzione e al risarcimento del danno.
Lo stesso, inoltre, sostenendo di essere stato oggetto di condotte mobbizzanti, ha instato per la condanna della resistente a risarcirgli i danni subiti e, infine, per la condanna alla corresponsione delle differenze retributive conseguenti al mancato pagamento di alcune mensilità, del tfr, della 13^ e 14^, dell'indennità da ferie e permessi non goduti.
A sostegno delle proprie richieste, il lavoratore ha dedotto l'illegittimità del recesso per essere il provvedimento intervenuto mentre egli era assente per malattia, per insussistenza del fatto materiale contestato e, comunque, per sproporzione della sanzione rispetto alle condotte addebitate.
La società, costituendosi, ha argomentato circa l'infondatezza di tutte le tesi avversarie. La questione
La sentenza in esame affronta diverse problematiche, scrutinando, in primo luogo, le diverse censure sollevate dal ricorrente in ordine alla legittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli dalla società e, in secondo luogo, la domanda di risarcimento danno da cd. mobbing.
Quanto al licenziamento, va dato atto che lo stesso è stato disposto con raccomandata del 1° agosto 2019 – ricevuta il successivo 5 agosto 2019 – ed anticipato dalla contestazione disciplinare del 15-18 luglio 2019, con cui veniva addebitato al dipendente di aver avviato, il precedente 20 giugno 2019, un ingiustificato diverbio litigioso con il proprio superiore gerarchico, poi degenerato in una colluttazione, nel corso della quale quest'ultimo aveva riportato danni fisici.
I punti critici, ad avviso del ricorrente, sarebbero i seguenti:
- egli aveva inoltrato giustificazioni con missiva del 2 agosto 2019, ricevuta dalla società il 14 agosto 2019;
- anch'egli aveva riportato postumi, a seguito della colluttazione, documentati in certificato del Pronto Soccorso;
- i fatti, comunque, sarebbero avvenuti al di fuori dell'ambiente di lavoro.
Il provvedimento espulsivo è intervenuto in un'epoca in cui egli era assente per malattia.
Quanto alle dedotte condotte persecutorie asseritamente patite sul luogo di lavoro, il Tribunale ha dato atto della ricostruzione giurisprudenziale dell'istituto del cd. mobbing, specificandone gli elementi strutturali. Le soluzioni giuridiche
Il Tribunale di Catanzaro ha rigettato le domande del ricorrente, sia in punto licenziamento, sia in punto mobbing, dando atto, quanto alle richieste differenze retributive, della cessata materia del contendere per le mensilità maturate sino al recesso – essendo intervenuto spontaneo pagamento da parte della società in corso di causa - e dell'infondatezza delle pretese riferite al periodo successivo alla fine del rapporto, essendo il licenziamento legittimo.
Andando con ordine, le affermazioni del Giudice del Lavoro possono così riassumersi.
Il licenziamento irrogato per giusta causa al dipendente è legittimo.
Ciò in quanto il datore di lavoro ha provato la commissione delle condotte addebitate al ricorrente, vale a dire l'aver avviato un alterco ingiustificato con un superiore gerarchico, poi sfociato in una colluttazione, all'esito della quale quest'ultimo ha riportato lesioni.
La prova, ad avviso del Tribunale, è stata fornita mediante la produzione in giudizio del certificato medico di pronto soccorso, nel quale si legge che il superiore del ricorrente ha subito “trauma al labbro inferiore con evulsione completa di protesi dentale, trauma dello zigomo sx e trauma cranico non commotivo”, e di documentazione da cui si apprendono pregressi difficili rapporti di lavoro tra i due, tanto che la società aveva provveduto a trasferire per incompatibilità ambientale presso altro cantiere il ricorrente, che, tuttavia, si era rifiutato.
Nessun rilievo dirimente assumerebbe, sul punto, la produzione da parte del ricorrente di sua certificazione, rilasciata dal medesimo pronto soccorso, attestante la sussistenza di lesioni a suo carico, in quanto ciò non farebbe che dimostrare che il diverbio contestato è realmente avvenuto.
Inammissibile, in proposito, è poi stata ritenuta la prova testimoniale richiesta dal lavoratore, sia perché il ricorso non contiene alcun capitolo di prova (ma un mero richiamo alle circostanze di fatto esposte in premessa), sia perché, comunque, non avrebbe fornito elementi a sua discolpa, essendo la sua ricostruzione di fatto assolutamente generica e non circostanziata, in ogni caso senza offerta di una ricostruzione alternativa alla vicenda contestata dal datore di lavoro.
Quanto alle giustificazioni rese con missiva del 2 agosto 2019 e ricevuta il 14 agosto 2019, il Tribunale ne ha evidenziato la tardività, non soltanto rispetto ai cinque giorni successivi alla ricezione dell'addebito (18 luglio 2019), ma anche con riferimento alla missiva di licenziamento (spedita l'1 agosto 2019 e ricevuta il 5 agosto 2019): ciò in quanto le stesse sono pervenute quando ormai il licenziamento era già stato irrogato e senza che il datore di lavoro ne avesse avuto, prima d'allora, contezza.
Il Giudice calabrese, poi, ha ritenuto la sanzione espulsiva proporzionale alla condotta tenuta dal dipendente, in quanto trattasi di comportamento grave, integrante la giusta causa di recesso giacché violativa non solo dei generali obblighi di fedeltà e diligenza, ma anche delle basilari regole del vivere civile, così dando adito a dubbi circa il futuro rispetto della disciplina aziendale da parte del ricorrente.
Nessun rilievo assumerebbe, poi, la circostanza che il fatto si fosse verificato al di fuori dell'ambiente di lavoro, posto che l'aggressione ha interessato un soggetto interno all'azienda e, addirittura, sovraordinato in grado, incidendo, quindi, in maniera evidente sugli obblighi di collaborazione, obbedienza e subordinazione cui il ricorrente era tenuto nei confronti di un proprio superiore gerarchico.
Infine, la legittimità del recesso neppure sarebbe inficiata dall'essere lo stesso intervenuto in un periodo in cui il dipendente era assente per malattia: il Tribunale ha ricordato, in proposito, come tale situazione non impedisca l'irrogazione del licenziamento per giusta causa e ciò in quanto non vi sarebbe ragione di conservare il posto fino al termine della malattia, a fronte di una grave situazione che non consente neppure la temporanea prosecuzione del rapporto.
Venendo al denunciato mobbing, il Giudice del Lavoro ha rammentato come, in assenza di una specifica normativa, la giurisprudenza abbia fatto applicazione dell'art. 2087 c.c. per accordare tutela al lavoratore “perseguitato”, con l'ovvio corollario che spetta al lavoratore provare il danno, la nocività dell'ambiente lavorativo ed il nesso causale tra i due.
Si è poi puntualizzato che, in ogni caso, gli elementi strutturali della fattispecie sono sia quello oggettivo (frequente reiterazione nel tempo di condotte vessatorie, poste in essere da un collega o da un superiore gerarchico), sia quello soggettivo (coscienza ed intenzione di perseguitare il lavoratore, allo scopo di cagionargli un danno ed eventualmente indurlo alle dimissioni).
Nel caso di specie la fattispecie non può dirsi integrata, e ciò per le carenze probatorie della difesa ricorrente, che già a livello deduttivo non ha allegato la ripetitività e sistematicità delle condotte, oltre ad aver, comunque, solo genericamente lamentato vessazioni. Osservazioni La sentenza del Tribunale di Catanzaro appare certamente condivisibile in punto rigetto domanda risarcitoria per cd. mobbing, dal momento che, come noto, sarebbe stato onere del lavoratore non solo provare, ma ancora prima dedurre, gli elementi fondanti la fattispecie e ciò in modo circostanziato.
È, infatti, oramai definizione consolidata in giurisprudenza quella che definisce il mobbing come il comportamento posto in essere da un superiore gerarchico o da un collega, consistente in una serie di atti, sistematicamente attuati e reiterati nel tempo, che siano animati da un'intenzione persecutoria nei confronti del destinatario e che gli cagionino un danno, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Nel caso di specie, la difesa ricorrente si è mostrata carente già in punto allegazione, non essendo state precisamente descritte le condotte integranti la fattispecie e non essendo stata dedotta la ripetitività e sistematicità degli atti asseritamente lesivi.
Analizzando, poi, la pronuncia in tema licenziamento, va dato atto, in linea generale, della correttezza di tutte le affermazioni astratte contenute in sentenza, sia con riferimento alle tardività delle giustificazioni rese dal ricorrente, sia con riferimento alla possibilità di licenziare per giusta causa il dipendente che sia passato alle vie di fatto nel corso di un alterco con un collega – anche al di fuori dell'ambiente di lavoro, sia, ancora, in punto recesso per giusta causa durante l'assenza del lavoratore per malattia.
In ordine a quest'ultimo aspetto, infatti, pare del tutto ovvio che nessun senso avrebbe imporre al datore di lavoro di attendere il rientro del dipendente dalla malattia per irrogare la sanzione espulsiva determinata da suoi gravi comportamenti tenuti prima dell'assenza medesima.
Ed infatti, è proprio la gravità dei comportamenti – tali da integrare la giusta causa – ad impedire la prosecuzione, anche temporanea, del rapporto.
Diversamente opinando, si giungerebbe all'assurdo per cui “mettendosi in malattia” il lavoratore– seppur temporaneamente – si porrebbe a riparo dalle conseguenze di condotte poste in essere in precedenza, ben potendo accadere che il datore di lavoro venga a conoscenza dell'illecito solo in un momento successivo alla presentazione del certificato medico.
Tuttavia, venendo al concreto, ad avviso di chi scrive la sentenza può prestare il fianco a critiche nella parte in cui ha negato qualsivoglia rilevanza al certificato medico di pronto soccorso prodotto in causa dal ricorrente, dal quale emerge che lo stesso ha riportato, al pari del superiore gerarchico, delle lesioni a seguito della colluttazione – causa del licenziamento.
Ed infatti, le affermazioni del Tribunale di Catanzaro, sul punto, appaiono un poco sommarie, dal momento che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, laddove si verifichino tra colleghi delle liti e queste sfocino, poi, in scontri fisici, appare necessario in giudizio vagliare un aspetto importantissimo, e cioè comprendere se i lavoratori siano giunti “consensualmente” alle mani oppure se l'aggressione sia avvenuta su impulso di una parte a danno dell'altra.
Tale accertamento pare imprescindibile per determinare la gravità del comportamento del ricorrente, in quanto il licenziamento può dirsi effettivamente legittimo se sia stato lo stesso ad aver aggredito il superiore, il quale potrebbe aver cagionato qualche lesione all'altro contendente al fine di difendersi dall'aggressione stessa.
Tuttavia, ad analoga conclusione non si potrebbe giungere laddove si appurasse che, invece, nel corso della discussione verbale l'attacco fisico sia stato avviato dal superiore gerarchico, perché, in tal caso, sarebbe stato il ricorrente a doversi difendere.
Inoltre, si rileva come sia passata sottotraccia la durata dello scontro e l'eventuale presenza/assenza di altri soggetti, che abbiano avuto il ruolo di spettatori: la Corte di Legittimità, infatti, in molte pronunce utilizza anche tali circostanze per valutare la gravità dell'episodio.
Da ultimo, poi, pare opportuno rimarcare come spetti sempre al datore di lavoro fornire la prova dell'accadimento dei fatti posti a fondamento dell'addebito e della conseguente sanzione disciplinare: nel caso di specie non appare sufficiente la produzione in giudizio da parte della società del certificato medico attestante le lesioni riportate dal superiore gerarchico del ricorrente, in quanto ciò è meramente prova induttiva dell'accadimento contestato, che, ad avviso del commentatore, avrebbe dovuto essere fornita con altri mezzi, ad esempio mediante l'escussione di testimoni presenti (quale anche, in ipotesi, lo stesso superiore gerarchico) o videoriprese.
In ordine all'adozione della sanzione espulsiva per condotte aggressive:
conformi: Cass., sez. lav., 20 luglio 2018, n. 19458; Cass., sez. lav., 17 luglio 2018, n. 19013; Cass., sez. lav., 4 aprile 2017, n. 8710;
difforme: Cass., sez. lav., 22 aprile 2021, n. 10621; Cass., sez. lav., 11 novembre 2019, n. 29090.
In ordine al licenziamento per condotte extralavorative – conformi: Tribunale Roma, sez. lav., 29 marzo 2022; Appello Reggio Calabria, sez. lav., 15 luglio 2021, n. 343; Cass., sez. lav., 10 novembre 2017, n. 26679.
In ordine all'irrogazione del licenziamento per giusta causa durante l'assenza per malattia – conforme: Cass., sez. lav., 1° ottobre 2021, n. 26709.
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