Disdetta dal CCNL, contratti pirata ed esercizio delle prerogative sindacali

Giovanni Guarini
30 Agosto 2022

L'ordinanza commentata interviene sulla dibattuta questione riguardante l'adesione tacita del datore di lavoro ad un contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato da un'associazione imprenditoriale al quale non è iscritto.
Massime

L'adesione ad un contratto collettivo può essere anche tacita e per fatti concludenti, ravvisabili nella concreta applicazione delle relative clausole.

La disdetta dal CCNL da parte dell'imprenditore non iscritto, ma che ha applicato il CCNL per fatti concludenti, va data nei termini previsti dal CCNL sei mesi prima della scadenza del CCNL, con comunicazione da dare alle OO.SS.

Pone in essere un comportamento antisindacale il datore di lavoro che non applica più il CCNL senza valida disdetta e dopo aver stipulato un CCNL con altra sigla sindacale non consente alle OO.SS. firmatarie del CCNL non disdettato di convocare l'assemblea e di eleggere i propri rappresentanti sindacali.

Il caso

Le tre organizzazioni sindacali di categoria del settore della concia di Cgil, Cisl e Uil, agivano dinanzi al Giudice del lavoro di Vicenza, affinché venisse dichiarato il comportamento sindacale di più datori di lavoro consistiti nel non aver permesso lo svolgimento dell'assemblea sindacale e non aver accettato la nomina della RSA, prerogative sindacali previste dal CCNL del settore Concia stipulato da Cgil, Cisl e Uil ed UNIC.

Il datore di lavoro non negava di aver posto in essere le descritte condotte, ma le riteneva legittime poiché le organizzazioni sindacali ricorrenti non erano firmatarie del CCNL applicato in azienda e quindi non avevano titolo per indire l'assemblea e per nominare proprie rappresentanze sindacali. Infatti, le datrici di laoro avevano documentato di aver stipulato nel frattempo il CCNL Federconcia, non sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil.

Le questioni

La controversia è di notevole interesse poiché attinge direttamente al dibattuto tema dei cd “contratti pirata”.

Con il termine contratti pirata si definiscono alcuni contratti collettivi sottoscritti da sindacati minoritari e associazioni imprenditoriali, alternativi ai contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale.

Vengono definiti “pirata” poiché di solito prevedono condizioni normative ed economiche inferiori rispetto a quelle prevista dai contratti siglati dai sindacati confederali (ad esempio in tema di retribuzioni minime inferiori; di minor numero di ferie o permessi etc).

Lo scopo delle imprese (spesso di piccola dimensione) è avere condizioni di lavoro più convenienti (costo del lavoro più basso), finalità alla quale alcune associazioni di lavoratori aderiscono per ottenere la legittimazione negoziale che storicamente non riuscivano a ottenere nel confronto con le organizzazioni confederali.

L'applicazione di contratti pirata determina trattamenti economici e normativi deteriori per i lavoratori in quanto solitamente incidono sulla riduzione dei minimi retributivi, a volte sul numero di ore di permesso, sulla facoltà di accedere alla formazione erogata dagli organismi bilaterali (in quanto solo le rappresentanze sindacali effettivamente rappresentative possono istituire enti bilaterali).

Inoltre, è fuori di dubbio che anche sul fronte datoriale l'applicazione di tali convenzioni determina un fenomeno di dumping contrattuale, poiché il ricorso ad un contratto pirata determina un'alterazione della concorrenza.

Inoltre, l'applicazione del “contratti pirati” non permette ai lavoratori ed ai datori di lavoro di stipulare contratti collettivi di livello prossimità (derogatori, con alcuni limiti, delle disposizioni legge e delle relative regolamentazioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro), poiché il d.l. 13 agosto 2011, n 138 attribuisce il potere di stipulare tali contratti di prossimità esclusivamente alle «associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

Vi sono, infine, leggi che prevedono l'applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale come onere per accedere a benefici od opportunità, come l'art. 36 l. 20 maggio 300 n 1970 che stabilisce: «Nei provvedimenti di concessione di benefici accordati ai sensi delle vigenti leggi dallo Stato a favore di imprenditori che esercitano professionalmente un'attività economica organizzata e nei capitolati di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, deve essere inserita la clausola esplicita determinante l'obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona», oppure l'art. 1, c. 1175 L. Legge 27 dicembre 2006 n 296 che prevede: «A decorrere dal 1° luglio 2007, i benefìci normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» o, ancora, l'art. 30, comma 4 d.lgs. 18 aprile 2016 n 50 codice degli appalti pubblici che recita: «Al personale impiegato nei lavori oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto o della concessione svolta dall'impresa anche in maniera prevalente».

Inoltre, vi sono leggi attribuiscono solo ai contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative il potere di introdurre clausole di flessibilità.

Ad esempio: l'art. 4 co. 4 (richiamando l'art. 1 co. 2) del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 prevede la possibilità di deroga alla durata massima dell'orario di lavoro di 48 ore settimanali come media su un periodo non superiore a quattro mesi, elevando il limite fino a sei mesi o a dodici mesi per ragioni obiettive, solo per i contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative.

Ancora, l'art. 2 co 2 del d.lgs. 15 giugno 2015, n 81 nel prevedere l'applicazione della disciplina dei rapporti di lavoro subordinato ai contratti di collaborazione etero organizzati dal 1° gennaio 2016 ha previsto deroga nel caso delle «collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche».

Inoltre, nei rapporti di lavoro per i soci lavoratori delle cooperative, l'art. 7, c. 4, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, conv. dall'art. 1, c. 1, l. 28 febbraio 2008, n. 31 ha posto un limite inderogabile nell'esigenza che i trattamenti economici complessivi per i soci di cooperativa non siano inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria (disciplina, come è noto, dichiarata costituzionalmente legittima, da Corte costituzionale, 26 marzo 2015, n. 51, poiché «Il censurato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, congiuntamente all'art. 3 della legge n. 142 del 2001, lungi dall'assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall'art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell'art. 36 Cost.»).

In conclusione la legge ha escluso l'operatività della disciplina contenuta nei cd “contratti pirata” nelle summenzionate ipotesi tipiche, sul piano giuridico generale, trattandosi, tuttavia, di contratti collettivi pienamente legittimi (il solo caso nel quale potrebbero sollevarsi dubbi sulla legittimità di un contratto collettivo è l'ipotesi di contratto stipulato con un “sindacato di comodo”, c.d. sindacato “giallo”, costituito e finanziato da un datore di lavoro o una associazione di imprese in violazione dell'art. 17 l. 300/1970).

Il fenomeno è numericamente rilevante, posto che nel 2022 dei 992 contratti collettivi di lavoro stipulati in Italia solo 1 su 4 è firmato dai sindacati maggiormente rappresentativi, e terribilmente attuale, visto che di fronte alla emergente deroga dei trattamenti minimi retributivi tramite la contrattazione cd “pirata” si pone inevitabilmente il tema dell'intervento del legislatore nella previsione di un salario minimo legale, suggerito dall'OIL come politica per garantire una “giusta retribuzione” (ed oggetto dell'art. 1, comma 7, lett. g) della legge delega n. 183 del 2014, in questa parte rimasta inattuata).

Ciò in considerazione del fatto che l'art. 39 Cost., che ha previsto l'introduzione di un sistema di contrattazione con efficacia generale, è rimasto inattuato, salvo quella parentesi del 1959, laddove per fronteggiare la crisi causata anche dai pessimi trattamenti attribuiti ai lavoratori fu approvata la legge l. 741/1959 c.d. Vigorelli, che introduceva l'efficacia erga omnes dei contratti collettivi, la quale stante la sua transitorietà fu salvata dalla Corte costituzionale che invece dichiarò l'illegittimità della proroga.

Permane, comunque, il potere del Giudice di vagliare la legittimità delle norme contrattuali (non solo individuali ma anche) collettive al fine di verificare il rispetto di tali criteri da parte dai minimi tariffari fissati in sede collettiva, al fine di garantire il diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente, di cui all'art. 36 Cost. (cfr. art. 2099 co. 2 c.c.).

Si deve tuttavia evidenziare che la questione più frequentemente affrontata dalla giurisprudenza è stata quella della legittimità di accordi individuali che prevedano la corresponsione di una retribuzione che si scosti – in diminuzione – rispetto ai minimi tabellari previsti dal contratto collettivo di categoria (che le parti non applicano).

Più rare sono le sentenze che si occupano del caso in cui, in presenza di più contratti collettivi astrattamente applicabili al rapporto, una delle parti rivendichi giudizialmente l'applicazione di quello più vantaggioso, laddove quello meno vantaggioso sia stipulato da associazioni scarsamente rappresentative.

Fatta quindi questa complessa premessa, nel caso concreto le questioni oggetto di giudizio attenevano in primo luogo vincolatività per le società convenute del CCNL stipulato dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale oppure del contratto collettivo stipulato dalla associazione scarsamente rappresentativa sul piano nazionale al quale le convenute asserivano di aver aderito.

In particolare, le datrici di lavoro asserivano di non aver aderito all'associazione imprenditoriale firmataria del CCNL sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil con la conseguenza che le clausole di tale accordo collettivo non sarebbero state applicabili ai rapporti di lavoro.

Al contrario le organizzazioni sindacali affermavano che l'adesione della datrice di lavoro a tale CCNL doveva intendersi data per fatti concludenti.

Seconda questione di rilievo oggetto di giudizio: nell'ipotesi in cui fosse ritenuta ammissibile ed accertata l'adesione delle datrici di lavoro ad un CCNL per fatti concludenti, occorreva stabilire se e fino a quando il contratto sarebbe stato vincolante e in che modo la datrice di lavoro avrebbe potuto dare disdetta dallo stesso.

Terza ed ultima questione da affrontare: nel caso in cui fosse appurato che la convenuta datrice di lavoro fosse tenuta ad applicare il CCNL stipulato dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, occorreva valutare se impedire alle organizzazioni sindacali la nomina di proprie rappresentanze ed impedire lo svolgimento delle assemblee sindacali retribuite nei luoghi di lavoro costituisse comportamento antisindacale.

A tal proposito lo Statuto dei lavoratori concede alle associazioni sindacali uno specifico strumento processuale per la repressione dei comportamenti datoriali diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale o del diritto di sciopero: la tutela giurisdizionale ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300.

Si tratta di una norma che finge da norma-cerniera del sistema dei diritti gravante intorno al principio di libertà espresso dall'art. 39 Cost.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Vicenza nell'ordinanza in commento ha accertato che i datori di lavoro convenuti non avevano mai aderito all'associazione imprenditoriale firmataria del CCNL Industria Concia Unic, sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, di conseguenza «Le convenute, pertanto, non possono certo essere ritenute vincolate al rispetto del CCNL in esame per effetto della diretta ovvero della indiretta – per il tramite della rappresentanza di UNIC – sottoscrizione dello stesso».

Tuttavia, il Giudice del lavoro giunge a ritenere che una delle datrici di lavoro abbia in altro modo – per fatti concludenti – aderito al CCNL.

È, infatti, pacifico che l'adesione ad un contratto collettivo possa essere anche tacita e per fatti concludenti, ravvisabili nella concreta applicazione delle relative clausole.

A tal proposito gli elementi di prova valorizzati dall'interprete per suffragare la tesi della tacita applicazione del CCNL Unic sono i seguenti: «il datore di lavoro aveva irrogato ai propri dipendenti, nell'anno 2013 e 2019 (pur lungo tempo e, quindi, per più tornate contrattuali), sanzioni disciplinari facendo riferimento al CCNL Unic.

Risulta poi, questo essendo dato ancor più significativo, avere la convenuta all'atto della stipula, in applicazione di un CCPL, di un contratto di carattere aziendale (il 22 novembre 2017), apertamente affermato di fare applicazione del CCNL industria concia».

Per una delle datrici di lavoro convenute, invece, il Tribunale è giunto ad opposta conclusione sulla base dei medesimi motivi: le comunicazioni della datrice di lavoro ai propri dipendenti con le quali forniva indicazioni in tema di ferie e permessi e prodotte in causa, non contenevano alcun rinvio al CCNL Industria Concia Unic.

Una volta accertata l'adesione tacita al CCNL rivendicato dalle organizzazioni sindacali da parte di uno dei due datori di lavoro convenuti, il Giudice è giunto poi ad acclarare in fatto la condotta tenuta da costui.

A tal proposito, la convenuta aveva stipulato nel mese di ottobre 2021 un contratto c.d. “pirata” pur essendo vincolata dal CCNL Industria Concia Unic.

Il Tribunale di Vicenza ha poi asserito che solo ove la datrice di lavoro avesse dato disdetta al CCNL Industria Concia Unic nei termini previsti dal contratto medesimo avrebbe poi potuto svincolarsi ed applicare un nuovo e diverso contratto collettivo.

A tal riguardo, l'art. 71 del CCNL Unic rubricato «Decorrenza e durata» stabiliva che: «Il contratto, nella sua globalità, si intenderà successivamente rinnovato di anno in anno qualora non venga data disdetta sei mesi prima della scadenza con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. In caso di disdetta resterà in vigore sino a che non verrà sostituito dal successivo».

Applicando tale clausola il Giudice del lavoro ha ritenuto valida la disdetta dal contratto solo ove fosse inviata «sei mesi prima del termine di efficacia del contratto e parimenti, con riferimento all'imprenditore non iscritto, consente di svincolarsi sempre mediante disdetta da comunicare, quantomeno con riferimento alle questioni attinenti ai rapporti con le OOSS, alle stesse almeno dei mesi prima della scadenza del contratto», nel caso concreto sei mesi prima della scadenza contrattuale fissata per il 30 giugno 2023 e, quindi, con effetto dal 30 giugno 2023.

Sulla base di tali argomentazioni il Tribunale ha ordinato ad una delle due convenute l'integrale applicazione del CCNL Unic e imposto alle ricorrenti di consentire la convocazione dell'assemblea e di riconoscere le rappresentanze sindacali nominate.

Osservazioni

L'ordinanza commentata interviene sulla dibattuta questione riguardante l'adesione tacita del datore di lavoro ad un contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato da un'associazione imprenditoriale al quale non è iscritto.

A tal riguardo la Suprema Corte (Cass. civ., sez. lav., ord., 4 gennaio 2022, n. 74; Cass. civ., sez. lav., 18 settembre 2015, n. 18408; Cass. civ., sez. lav., 1° luglio 2014, n. 14944; Cass. civ., sez. lav., 29 ottobre 2013, n. 24336; Cass. civ., sez. lavoro, 30 luglio 2001, n. 10375; Cass. civ., sez. lav., 3 agosto 2000, n. 10213; Cass. civ., 11 marzo 1987, n. 2525; Cass. civ., sez. I, 11 marzo 1987, n. 2525; Cass. civ., 5 novembre 1990, n. 10581) ha enucleato la massima secondo cui: «il contratto collettivo di lavoro è un contratto aperto alla adesione di altri soggetti non iscritti alle associazioni stipulanti, che può essere sia esplicita, sia implicita, come quando possa desumersi da fatti concludenti, generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative clausole» ed «il giudice del merito dovrà valutare nel caso concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata».

La sentenza ha aderito a tale consolidato orientamento ed ha accertato nel merito della causa che solo uno dei due datori di lavoro convenuti aveva fatto concreta applicazione delle clausole del CCNL, con la conseguenza che era da ritenersi implicita l'adesione allo stesso.

Maggiormente controversa appare, invece, la tematica relativa alle modalità ed alla tempestività della disdetta dal CCNL applicato per fatti concludenti dal datore di lavoro.

Come è noto la giurisprudenza, data per acquisita l'inapplicabilità alla contrattazione collettiva cosiddetta di diritto comune del disposto di cui all'art. 2071, comma 3, c.c. (Cass., 12 febbraio 1990, n. 987, Cass., 10 novembre 2000, n. 14163) - secondo cui il contratto collettivo «deve (...) contenere la determinazione della sua durata»-, riconosce, da lungo tempo oramai, tanto la legittimità della apposizione di un termine alla efficacia del contratto collettivo (Cass., 7 giugno 1963, n. 1514), quanto la possibilità che un contratto collettivo di lavoro venga sottoscritto senza indicazione del termine finale (tra le tante, Cass., 16 aprile 1993, n. 4507; Cass., 1° luglio 1998, n. 6427).

L'osservazione dei reali meccanismi di funzionamento del nostro sistema di relazioni industriali - così come di quelli di altri Paesi - indica, invero, come l'efficacia del contratto collettivo di lavoro abbia, nella generalità dei casi, una durata determinata nel tempo.

L'art. 1373 co. 2 c.c. prevede che «Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, tale facoltà può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione». Nei rapporti di durata, la facoltà di recesso non è ammessa se non espressamente prevista dalle parti (Cass., 22 dicembre 1983, n. 7579; Cassazione 6354/1981), insieme ad un preciso termine entro cui esercitarla (App. Genova 11 marzo 1999).

Inoltre, se il contratto non prevede termine finale, o se esso venga superato con rinnovazione automatica del rapporto, allora le parti sono libere di recedere, in questo senso la giurisprudenza ammette il recesso dal contratto collettivo sine die, atteso che il contratto stesso non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti vanificandosi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve essere parametrata su una realtà socio-economica in continua evoluzione; in ogni caso, anche in tale ipotesi, il principio enunciato è valido sempre che il recesso sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto e non siano lesi i diritti intangibili de i lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio (in questi termini si esprime la sentenza 20 agosto 2019, n. 21537, richiamando sul punto i precedenti Cass., 25 febbraio 1997, n. 1694; Cass., 18 ottobre 2002, n. 14827; Cass., 20 settembre 2005, n. 18508; Cass., 20 dicembre 2006, n. 27198; Cass., 20 agosto 2009, n. 18548; Cass., 28 ottobre 2013, n. 24268).

Diverso è se il contratto collettivo presenti un termine di scadenza, in tal caso è stata riconosciuta la perdurante efficacia dell'accordo pregresso, quantomeno fino alla sua naturale scadenza, sicché deve ritenersi illegittima la disdetta unilaterale del contratto applicato da parte del datore prima della sua scadenza e deve escludersi la possibilità del recesso dal contratto ante tempus, con conseguente impossibilità di applicazione di nuovo diverso CCNL (così Cass., 20 agosto 2019, n. 21537).

Successivamente alla scadenza del contratto nella nota Cass. civ., sez. un., 30 maggio 2005, n. 11325 si è affermata l'inesistenza di una disciplina normativa che imponesse l'ultrattività dell'efficacia del contratto collettivo, in quanto la regola, cristallizzata nell'art. 2074 c.c., non era più applicabile in quanto norma corporativa e comunque limite della libera volontà delle organizzazioni sindacali e in contrasto con la garanzia posta dall'art. 39 Cost.

Dunque, il contratto scaduto o receduto perde efficacia ed il rapporto resta di norma regolamentato dalle norme di legge e/o altre norme convenzionali eventualmente esistenti, perché non esiste una regola legale di ultrattività del contratto collettivo (Cass., sez. lav., 12 ottobre 2015, n. 20441), salvo non vi sia una espressa previsione negoziale di una clausola di ultrattività.

Nel caso oggetto della sentenza annotata l'adesione implicita riguardava un CCNL con un termine di scadenza al 30 giugno 2023 e con possibilità di disdetta contemplata con preavviso da esercitarsi almeno sei mesi prima della scadenza contrattuale.

Come si è detto, l'art. 71 Unic rubricato «Decorrenza e durata» stabiliva che: «Il contratto, nella sua globalità, si intenderà successivamente rinnovato di anno in anno qualora non venga data disdetta sei mesi prima della scadenza con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno.

In caso di disdetta resterà in vigore sino a che non verrà sostituito dal successivo» e in base a tali presupposti il Tribunale di Vicenza ha concluso che il datore di lavoro non iscritto avrebbe dovuto dare disdetta al CCNL «mediante disdetta da comunicare, quantomeno con riferimento alle questioni attinenti ai rapporti con le OOSS, alle stesse almeno dei mesi prima della scadenza del contratto… fissata per il 30 giugno 2023 e che l'evidente volontà espressa da XXX di non applicare più il CCNL UNIC produrrà i suoi effetti alla data del 30 giugno 2023».

Il tempo e le modalità della disdetta, a parere di chi scrive, sottendono questioni giuridiche di rilievo. Infatti, il CCNL oggetto del giudizio contemplava non solo un termine finale, ma anche una clausola di ultrattività a termine, prevedendo «la perdurante vigenza del contratto fino alla nuova stipulazione».

Da tale clausola di ultrattività a termine derivava la conseguente impossibilità di dare disdetta dal CCNL prima della stipulazione di un nuovo contratto collettivo (Cass. civ., sez. lav., 12 febbraio 2021 n. 3672), ciò in quanto il principio della libertà del recesso unilaterale è previsto soltanto per le ipotesi di mancata indicazione di un termine di scadenza del contratto collettivo di diritto comune.

Sulla base di tali presupposti forse non appare del tutto condividibile l'obiter dictum contenuto nell'ordinanza del Tribunale di Vicenza, secondo cui la disdetta eventualmente comunicata dal datore di lavoro avrebbe dispiegato i suoi effetti al momento della scadenza contrattuale.

Piuttosto la disdetta avrebbe spiegato i suoi fino alla nuova stipulazione del contratto.

Ancora, appaiono controverse le modalità di disdetta dal CCNL, nel caso in cui l'adesione allo stesso è stata data per fatti concludenti.

Il Giudice del lavoro vicentino ha ritenuto ammissibile la disdetta del singolo imprenditore con comunicazione alle organizzazioni sindacali interessate all'applicazione del contratto, tuttavia è conciliabile tale affermazione con il principio secondo cui «nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta; al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l'eccessiva onerosità dello stesso, a i sensi dell'art. 1467 c.c., conseguente ad una propria situazione di difficoltà economica, salva l'ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali dei lavoratori» (Cass., 19 aprile 2011 n. 8994 e, già prima, Cass., 7 marzo 2002, n. 3296, e Cass. 15863/2002 richiamate da Cass., 7 novembre 2013, n. 25062; Cass., 20 agosto 2019, n. 21537)?

Ora, è evidente che la giurisprudenza di legittimità prima richiamata nel ritenere legittimata alla disdetta dal CCNL solo l'associazione firmataria e non il singolo associato (che al più potrà recedere dalla associazione imprenditoriale alla quale aderisce) presupponga l'applicazione del CCNL per il tramite dello schema della rappresentanza volontaria, ossia dell'imprenditore associato all'organizzazione rappresentativa dei datori di lavoro firmataria del contratto.

Ci si deve interrogare se la massima della Cassazione possa essere “esportata” anche ad ipotesi diverse, nelle quali la vincolatività del CCNL non deriva dal vincolo associativo (dal quale deriva l'obbligo per gli imprenditori rappresentati di applicare i contratti collettivi stipulati dall'associazione rappresentante), ma, ad esempio, da un richiamo formale al CCNL contenuto all'interno del contratto individuale o nelle buste paga dei dipendenti e/o dalla necessaria costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti (Cass., sez. lav., ord. 6 settembre 2019, n. 22367).

Ebbene, nel caso in questione, in cui il datore di lavoro non era associato alla sigla datoriale firmataria del CCNL, si deve opinare che non avendo mai conferito mandato ad alcuno, non vi sarebbe alcun bisogno di recedere dall'associazione per poter disdettare il contratto collettivo nazionale.

In questi casi il datore di lavoro dovrà comunicare ai dipendenti e alle organizzazioni sindacali la variazione, attraverso formale disdetta del CCNL applicato, come ha ritenuto in modo condivisibile la sentenza commentata.

Infine, il Giudice del lavoro vicentino, una volta acclarata l'illegittima disapplicazione del CCNL sottoscritto dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative ha conseguentemente qualificato quale condotta antisindacale, il non aver consentito alle organizzazioni sindacali di indire e svolgere una assemblea al fine di leggere le proprie rappresentanze.

A tal proposito, l'ordinanza annotata ha applicato l'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, che contiene una definizione teleologica di condotta antisindacale.

Si tratta, infatti, di una norma “in bianco”, fatta per essere “riempita” dall'interprete.

Ad esempio, la vasta casistica mostra come sia stata ritenuta antisindacale la condotta del datore di lavoro che imponeva ai lavoratori un contratto collettivo sgradito e diverso da quello rivendicato come proprio (Trib. di Torino 18 aprile 2011, in Dritto e Pratica del Lavoro, 2011, 22, 1282 ss.) o il recesso unilaterale prima del termine di scadenza dal CCNL e dal contratto collettivo integrativo aziendale (Trib. Rovereto, ord. 13 aprile 2021 in G. Guarini, La vincolatività del contratto collettivo nel tempo in due recenti sentenze del Tribunale di Rovereto ed Asti), all'elusione di trattative sindacali (Trib. Ravenna 3 giugno 2011, in Lav giur. 2011, 11, 1141), nonché il comportamento datoriale che non riconosceva le rappresentanze dei lavoratori validamente elette o che ne impediva l'elezione (Trib. di Firenze, sez. lav., 23 agosto 2013, n. 2795 in www.olympus.uniurb.it; Trib. di Milano, sez. lav., 10 luglio 2017, n. 18720 in www.olympus.uniurb.it; Trib. di Aosta, sez. lav., 7 gennaio 2019, n. 87, in www.postosicuro.info/risorse-giuridiche; Tribunale di Treviso, ord. 1° luglio 2020, n 2571, in G. Guarini, Il rifiuto di nominare nel Comitato Covid 19 lavoratori RSA e RLS costituisce comportamento antisindacale; Tribunale di Trento, 24 luglio 2019, n. 120, in www.postosicuro.info/risorse-giuridiche).

L'ordinanza in commento si inserisce nell'alveo della menzionata casistica giurisprudenziale, non essendovi dubbio che impedire le primarie prerogative sindacali, il diritto di assemblea il diritto di nominare proprie rappresentanze, costituisca condotta lesiva dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori ed ancor prima dell'art. 39 Cost.