Le Sezioni Unite danno una nuova lettura dell'art. 70, comma 2, l. fall. enunciando un principio di diritto nell'interesse della legge

Fabio Signorelli
19 Luglio 2022

La Suprema Corte conferma la natura distributiva dell'azione revocatoria fallimentare ma, per scongiurare l'eterogenesi dei fini, “ammette” al passivo fallimentare il creditore che ha subito la revocatoria, con il medesimo privilegio portato dal credito originario.
Le massime

Il pagamento eseguito dal debitore, successivamente fallito, nel periodo sospetto, così come determinato nell'art. 67, comma 2, l. fall., ove si accerti la scientia decoctionis del creditore, è sempre revocabile anche se effettuato in adempimento di un credito assistito da garanzia reale ed anche se l'importo versato deriva dalla vendita del bene oggetto di pegno.

La revoca, ex art. 67 l. fall., del pagamento eseguito in favore del creditore pignoratizio, con il ricavato della vendita del bene oggetto del pegno, determina il diritto del creditore che ha subito la revocatoria ad insinuarsi al passivo del fallimento con il medesimo privilegio nel rispetto delle regole distributive di cui agli artt. 111, 111-bis, 111-ter e 111-quater l. fall.

Il caso

Un istituto bancario, per quello che qui strettamente interessa, subiva la revocatoria fallimentare dell'incasso, a seguito della vendita da parte della banca stessa, nel periodo sospetto, del valore di un certificato di deposito costituito in pegno (regolare) dal proprio debitore, benché definitivamente consolidatosi a favore dell'istituto di credito. Quest'ultimo lamentava: i) la mancata prova della scientia decoctionis in capo a sé, ii) la natura ripristinatoria delle rimesse impugnate dalla curatela e, infine, iii) l'irrevocabilità dell'incameramento del certificato di deposito, segnalando, in applicazione della peculiare disciplina del pegno cd. rotativo, che il pegno stesso era stato costituito ben oltre cinque anni prima della dichiarazione di fallimento.

L'istituto ricorrente invocava la giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione che escludeva la revocatoria ex art. 67 l. fall., del versamento, sul conto corrente del debitore, della somma ricavata dalla banca con la realizzazione del bene oggetto del pegno, contrapponendola ad un contrario ed asseritamente isolato arresto giurisprudenziale, sottolineando che, diversamente, la revoca del pagamento avrebbe prodotto l'effetto indiretto della revoca della garanzia ormai consolidatasi, con conseguente degradazione del credito pignoratizio a semplice credito chirografario.

Dichiarati inammissibili i primi due motivi di ricorso in quanto censure di merito, l'attenzione della Corte si concentrava esclusivamente sul terzo motivo di ricorso che, come si riscontra dall'ordinanza interlocutoria della prima sezione, avrebbe meritato l'intervento delle Sezioni Unite, “avendo ricevuto, nel tempo, diverse letture nella giurisprudenza di questa Corte, oltre ad aver costantemente suscitato, da oltre mezzo secolo, l'attenzione della dottrina”.

Disposta la rimessione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la Suprema Corte, dopo aver compiuto una completa ricognizione della propria giurisprudenza, ha ritenuto, con un orientamento nuovo, di confermare, da una parte, la natura distributiva dell'azione revocatoria fallimentare e, dall'altra parte, di bilanciare gli interessi dei creditori concorsuali con quelli del creditore munito di prelazione, “ammettendo” al passivo fallimentare il creditore che ha subito la revocatoria, con il medesimo privilegio portato dal credito originario.

La questione e le soluzioni giuridiche

L'ordinanza interlocutoria che ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale rimessione alle Sezioni Unite ha sollecitato una rivisitazione –re melius perpensa – dell'assoggettabilità a revocatoria fallimentare, ai sensi dell'art. 67, comma 2, l. fall., della rimessa in conto corrente bancario effettuata dalla banca con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno consolidato, in relazione al trattamento in sede fallimentare del credito originariamente garantito da pegno, ai sensi dell'art. 70, comma 2, l. fall., con ammissione al passivo del fallimento in via chirografaria.

Come conseguenza diretta ed immediata, ferma la natura distributiva dell'azione revocatoria fallimentare, è apparso necessario chiarire se tale ammissione in via chirografaria non assuma, in concreto, una funzione sostanzialmente sanzionatoria, a fronte di una garanzia sicuramente consolidata, pienamente efficace nei confronti della massa dei creditori, che va ad incidere sul principio della par condicio creditorum,che la natura distributiva della revocatoria fallimentare tende a garantire in ogni caso. L'ordinanza interlocutoria percepisce chiaramente la debolezza o, comunque, la non esaustività, di un percorso argomentativo che appare claudicante quando riconosce, da una parte, la certa opponibilità al fallimento di un pegno consolidato ma, dall'altra parte, revocato il pagamento, ammette il controvalore al passivo in via chirografaria, obliterando completamente la prelazione sulla somma incassata.

La natura distributiva dell'azione revocatoria fallimentare - La sentenza in rassegna affronta innanzitutto il problema dell'ammissibilità della revocatoria del pagamento del creditore pignoratizio, dando atto che un primo orientamento della stessa Corte di Cassazione non aveva ritenuto revocabile il pagamento diretto del corrispettivo del bene oggetto della garanzia eseguito a favore del creditore pignoratizio nel periodo sospetto perché, in tal modo, il creditore esercita il proprio diritto alla realizzazione del pegno, la cui costituzione non è più attaccabile con la revocatoria fallimentare (tesi della irrevocabilità “in ogni caso”). Argomentando diversamente, infatti, la revoca del pagamento produrrebbe l'effetto di un'indiretta eliminazione ex tunc della garanzia e determinerebbe la trasformazione del credito da privilegiato a chirografario, ponendosi in contrasto la speciale autotutela esecutiva assegnata al creditore munito di garanzia reale dall'art. 53 l. fall.

Un secondo orientamento (ipotesi “ricostruttiva”) si fondava sulla verifica in concreto dell'interesse della procedura fallimentare a promuovere la revocatoria, che verrebbe meno ove in sede di riparto al creditore pignoratizio si fosse potuto attribuire il medesimo importo ottenuto con il pagamento eseguito in sede fallimentare. La Corte sottolinea come, prescindendo dalle concrete difficoltà probatorie di natura prognostica da svolgere in relazione alla formazione progressiva dello stato passivo, tale tesi si fondasse sul cd. carattere indennitario dell'azione revocatoria fallimentare, posto che in assenza dell'eventus damni si configura il difetto ad agire della procedura fallimentare.

Un terzo orientamento (tesi della revocabilità “in ogni caso”), come quello posto a fondamento della sentenza impugnata e sostanzialmente dominante, deve essere ricollegato ad una precedente sentenza delle stesse Sezioni Unite, (7028/2006) che ha attribuito all'azione revocatoria fallimentare una funzione distributiva e antindennitaria, in forza della quale l'eventus damni è in re ipsa, consistendo nella lesione della par condicio creditorum, ricollegabile per presunzione legale assoluta (presunzione iuris et de iure) all'uscita del bene dalla massa a seguito dell'atto di disposizione. Il curatore dovrà, pertanto, solo dimostrare la conoscenza dello stato d'insolvenza in capo al creditore, mentre la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita del bene sia stato utilizzato dal dall'imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato non esclude la lesione della par condicio creditorum. La collocazione al chirografo del credito conseguente alla restituzione derivante dall'esito vittorioso dell'azione revocatoria si fonda sul rilievo secondo il quale il credito che s'insinua al passivo ai sensi dell'art. 70, comma 2, l. fall., non è quello originario ma un credito nuovo che nasce dalla restituzione dovuta alla revocatoria e “trova fonte direttamente nella legge”, con la conseguenza che l'obbligo restitutorio non fa rivivere l'originaria garanzia.

La sentenza in commento conferma convintamente la natura distributiva dell'azione revocatoria fallimentare come delineata nel suo stesso precedente del 2006, tanto da ricordare che tale natura “è rimasta ferma anche dopo la riforma della revocatoria fallimentare introdotta con la novella del 2005, che si è limitata a dimidiare il periodo sospetto “con l'introduzione di talune eccezioni alla regola, implicitamente confermative quindi della stessa”, precisando che il legislatore “ha inteso colpire non il rapporto commutativo del negozio e del pregiudizio proprio dell'azione revocatoria ordinaria, ma il recupero di ciò che è uscito dal patrimonio del debitore in stato d'insolvenza in modo da sottrarre il beneficiario del pagamento dalla posizione di creditore concorrente”: appare evidente la scelta a favore della generale revocabilità di tutti i pagamenti eseguiti in favore di un creditore (privilegiato), con la caratteristica di esser stati eseguiti nel periodo sospetto e con la consapevolezza del creditore dello stato d'insolvenza del debitore, prossimo al fallimento.

La Suprema Corte di Cassazione sembra, quindi, non valorizzare in alcun modo, nemmeno in senso possibilista e dubitativo, le critiche dottrinali (di cui, in parte, si dà conto nella guida all'approfondimento) che sono state avanzate fin dall'ormai lontano 2006, ribadendo con determinazione il proprio favor per la natura distributiva dell'azione revocatoria fallimentare, nonostante il suo evidente depotenziamento e un sempre maggior riposizionamento del principio della par condicio creditorum.

La nuova interpretazione dell'art. 70, comma 2, l. fall. - Di seguito, la Corte affronta il secondo quesito sollevato tardivamente dalla banca ricorrente nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c. (e, come tale, giudicato inammissibile) ma, benché questione nuova, meritevole di scrutinio perché oggetto di uno specifico quesito dell'ordinanza interlocutoria. Secondo quest'ultima, a fronte di una garanzia consolidata e dunque pienamente efficace nei confronti della massa, una volta ricostituito l'attivo distribuibile attraverso la revoca del pagamento realizzato mediante il controvalore del bene sul quale la garanzia era stata costituita, la degradazione a chirografo del credito originariamente garantito integrerebbe essa stessa – in difetto di un'azione di revoca dell'atto costitutivo della garanzia – una lesione della par condicio creditorum, per giunta in chiave sanzionatoria, quando invece la ratio della revocatoria fallimentare è semplicemente attrarre la soddisfazione del credito garantito in sede concorsuale, ai fini della sua compiuta graduazione rispetto a tutti i restanti crediti, sia concorsuali che prededucibili, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 111, 111-bis, 111-ter, 111-quater e 112 l. fall.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, condividono pienamente sia i dubbi sia le conclusioni illustrate dall'ordinanza interlocutoria, affermando che il principio della par condicio creditorum si fonda sulla graduazione dei crediti secondo criteri di poziorità predeterminati dalla legge, e che la lesione della par condicio creditorum si determina con l'uscita del bene dal patrimonio del debitore o, come nella fattispecie, del pagamento successivo alla compravendita del bene (strumenti finanziari) oggetto dell'atto di disposizione. La funzione distributiva della revocatoria del pagamento del creditore privilegiato non si realizza privando quest'ultimo del suo diritto ad una collocazione poziore rispetto ai chirografari ma consentendo, previa verifica in sede di insinuazione ai sensi dell'art. 70 l. fall., che il suo diritto sia soddisfatto in sede di riparto mediante una corretta graduazione dopo che siano stati soddisfatti i crediti prededucibili e i creditori di gradi poziore anche se insinuati tardivamente.

Da ultimo, anche se l'art. 70, comma 2, l. fall. non precisa quale grado debba essere dato al credito del terzo creditore revocato in sede di successiva insinuazione al passivo, ritiene la Suprema Corte, alla luce di un'interpretazione sistematica, che a tale credito possa essere riconosciuta la stessa causa di prelazione di cui godeva in precedenza, formulando il principio di diritto ex art. 363, comma 3, c.p.c., di cui alla seconda massima in epigrafe.

Il principio di diritto pronunciato nell'interesse della legge deve essere salutato con estremo favore perché concilia il rispetto del principio della par condicio creditorum attraverso l'esercizio dell'azione revocatoria fallimentare e la successiva insinuazione al passivo ai sensi dell'art. 70, comma 2, l. fall., con la conservazione dei principi che regolano la collocazione e la gradazione dei crediti ammessi al passivo alla luce della natura giuridica del credito. Infatti, chiosa la Suprema Corte, anche se il ricavato della vendita del bene oggetto della garanzia reale non è stato acquisito dalla massa ma, al contrario, il pegno è stato escusso prima della dichiarazione di fallimento al fine di estinguere uno scoperto di conto corrente, la revocabilità della rimessa in oggetto, in presenza delle condizioni di legge ex art. 67, comma 2, l. fall., costituisce rimedio adeguato nella misura in cui consenta al creditore di concorrere su quanto restituito a seguito della revoca con la stessa collocazione che gli sarebbe spettata se la somma fosse stata ripartita dal creditore e seguito della liquidazione dell'attivo, previa decurtazione ex art. 111-terl. fall., dei crediti prededucibili e con prioritaria soddisfazione dei crediti poziori.

Guida all'approfondimento

Iozzo, Danno e revocatoria: le Sezioni Unite tra <vecchio> e <nuovo> diritto, in Giur. it, 2006, 1627; Patti, Natura dell'azione revocatoria fallimentare: le sezioni unite difendono il feticcio della par condicio, in Fall., 2006, 1133; Petrone, Il danno nell'azione revocatoria fallimentare alla luce del giudizio delle sezioni unite della cassazione e della riforma della legge fallimentare in Riv. not., 2006, 1342.

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