Padre e figlio condannati per avere tollerato l’esercizio della prostituzione

Attilio Ievolella
08 Settembre 2022

A inchiodare i due uomini è anche la presenza di alcune telecamere, sufficienti a rendere palese il continuo viavai di uomini all'interno dell'immobile. Esclusa quindi l'inconsapevolezza di padre e figlio in merito all'attività svolta dalle lucciole che avevano preso in affitto – in alcuni casi, peraltro, in nero – gli appartamenti del residence.

Condannati padre e figlio che gestiscono un residence utilizzato soprattutto da lucciole che non vogliono esercitare il mestiere in strada.

Respinta la tesi proposta dai due uomini e mirata a sostenere la loro inconsapevolezza su quanto accaduto con costanza nella struttura.

A inchiodarli è anche la presenza di alcune telecamere, palesemente destinate a monitorare il continuo viavai di uomini nell'immobile.

Ricostruita l'intera vicenda, i giudici d'Appello condividono la decisione del Giudice per l'udienza preliminare e ritengono colpevoli padre e figlio di avere violato la Legge Merlin e di avere, più precisamente, «tollerato» in un locale aperto al pubblico, e di loro proprietà, la presenza di diverse donne dedite alla prostituzione.

Differenziate, però, le responsabilità dei due uomini e, quindi, le pene: nello specifico, il figlio è condannato a «due anni di reclusione e 2mila euro di multa», mentre il padre è condannato a «quattro anni, cinque mesi e dieci giorni di reclusione e 5mila euro di multa».

Col ricorso in Cassazione i due uomini forniscono la loro versione e sostengono che dalle indagini non sono emersi elementi idonei a provare che essi abbiano «abitualmente e consapevolmente tollerato l'attività di prostituzione esercitata nel residence di cui sono comproprietari».

In questa ottica la linea difensiva è mirata a rivendicare il fatto che i due uomini non hanno «mai avuto contatti con le donne che abitavano nel residence o con i loro clienti» e a sostenere che «la presenza di telecamere all'interno del residence non era volta ad esercitare un controllo sulle attività svolte ma era dovuta a motivi di sicurezza, e, infine, che «la assoluta libertà di accesso degli uomini all'interno dell'immobile, non dotato di reception o di portineria, avrebbe dovuto essere valutata quale elemento idoneo a sconfessare la natura del residence come luogo aperto al pubblico».

I giudici di Cassazione focalizzano la loro attenzione sulla «consapevolezza» dei due uomini in merito a «quanto avveniva nelle stanze del residence».

In particolare, viene evidenziato che «la struttura, organizzata in 21 piccoli appartamenti distribuiti su più piani, era dotata di telecamere di sorveglianza che consentivano ai gestori, residenti nel piano rialzato, di monitorare gli spazi comuni e quindi di controllare gli accessi agli appartamenti».

In aggiunta viene sottolineato che «solo il 20% dei contratti di locazione era stato regolarmente compilato ed oggetto delle prescritte comunicazioni alla autorità di polizia».

Per confermare «la consapevolezza e la piena partecipazione dei gestori» i giudici fanno riferimento anche alle dichiarazioni di una lucciola che ha esercitato il mestiere nel residence: ella racconta della «presenza delle telecamere«» e della possibilità per i gestori del residence di «visionare» le immagini registrate, e aggiunge che «i due uomini, nella loro qualità di gestori del residence, non avevano mai frapposto nessun ostacolo al continuo via vai di uomini soli o già accompagnati dalle meretrici».

Inequivocabile, quindi, il dato di fatto rappresentato dal flusso di uomini, tendenzialmente costante ma, come constatato dalle forze dell'ordine nei plurimi servizi di osservazione, in alcuni casi visibilmente incrementato, come ad esempio accaduto nei giorni coincidenti con lo svolgimento di una Fiera.

Quanto alla configurabilità del reato di «tolleranza abituale dell'esercizio della prostituzione da parte di più persone», i giudici considerano irrilevante «l'eventuale non elevato numero di donne che si prostituivano all'interno del residence», poiché, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la formulazione della norma fa riferimento anche alla presenza di una sola persona che all'interno di un locale si dà alla prostituzione.

Sempre in questa ottica, poi, i giudici chiariscono che «la suddivisione dell'immobile in più appartamenti non poteva impedire la sostanziale unitarietà della gestione del complesso, insita, del resto, proprio nell'attività svolta come residence formalmente esercitato da una ditta».

Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati ribadiscono «la natura del residence come luogo aperto al pubblico».

Ciò alla luce della «destinazione impressa all'immobile dai gestori attraverso l'omissione di qualsivoglia controllo sugli accessi dei clienti delle prostitute, senza limiti di orario, senza controlli o veti».

(Fonte: dirittoegiustizia.it)

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