Tutela reintegratoria: ancora sulle condotte punibili con una sanzione conservativa

Luigi Di Paola
09 Settembre 2022

La sentenza in commento sviluppa il principio in base al quale il giudice può interpretare la norma elastica della fonte negoziale ai fini di individuare la esatta tutela applicabile, nel senso che l'attività interpretativa del giudice può essere a tal punto estesa da confondersi, quasi, con una funzione prettamente valutativa.
Massima

In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, senza che detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmodi nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto inapplicabile la tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, senza tuttavia verificare se le condotte contestate al lavoratore, pur non tipizzate dalla contrattazione collettiva, potessero o meno configurare, in relazione alle clausole generali del c.c.n.l. - gravità o recidività della mancanza o grado della colpa - un comportamento punibile con una sanzione conservativa).

Il caso

Un lavoratore viene licenziato per giusta causa per aver posto in essere una condotta non conforme ai prescritti comportamenti, improntati ai principi di onestà, trasparenza, lealtà, integrità e correttezza, da adottarsi nei confronti del datore di lavoro.

Il giudice del reclamo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiara risolto il rapporto di lavoro, condannando il datore al pagamento di una indennità risarcitoria ai sensi dell'art. 18, comma 5, st.lav., sul rilievo che, risultando assente nel c.c.n.l. la tipizzazione degli illeciti disciplinari - disponendo la disposizione contrattuale di interesse che: «1. I provvedimenti disciplinari applicabili, in relazione alla gravità o recidività della mancanza o al grado della colpa, sono: a) il rimprovero verbale; b) il rimprovero scritto; c) la sospensione dal servizio e dal trattamento economico per un periodo non superiore a 10 giorni; d) il licenziamento per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro (giustificato motivo); e) il licenziamento per una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto (giusta causa)» -, il fatto addebitato non possa ricondursi ad una disposizione del c.c.n.l. contemplante l'irrogazione di una sanzione conservativa. Il lavoratore censura la sentenza impugnata sostenendo che, benché il c.c.n.l. non preveda espressamente una sanzione conservativa per il tipo di condotta addebitata, ma individui solo una scala di sanzioni di crescente gravità, una condotta esistente può pur sempre essere considerata tale da rientrare tra quelle che comportano esclusivamente la sanzione in questione.

La S.C. accoglie il ricorso del lavoratore e, nel confermare il proprio indirizzo di recente promosso sul tema (su cui v. subito infra), cassa la pronunzia della Corte territoriale, sottrattasi “al doveroso compito di verificare se le condotte contestate al lavoratore potessero o meno configurare, in relazione alle clausole di cui al medesimo c.c.n.l. (gravità o recidività della mancanza o grado della colpa) un comportamento punibile con una sanzione conservativa (dal rimprovero scritto fino alla sospensione)” e, se del caso, di applicare la tutela prevista dall'art. 18, comma 4, st.lav.

La questione

La questione in esame è la seguente: la cd. tutela “reintegratoria attenuata” ex art. 18, comma 4, st. lav., è concepibile - con riguardo all'ipotesi in cui “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” - anche quando la condotta contestata al lavoratore (e successivamente accertata) non risulti descritta, neppure nei suoi elementi essenziali, da un punto di vista fenomenico?

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, recentemente la S.C. (cfr. Cass. 11 aprile 2022, n. 11665, sul cui commento sia consentito il rinvio a L. Di Paola, Tutela reintegratoria “attenuata” e fatto rientrante tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, in ilGiuslavorista), con riguardo alla disposizione di cui all'art. 18, comma 4, st.lav. - nella parte in cui è previsto che “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro (…) perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro (…) e al pagamento di un'indennità risarcitoria (…)” -, ha precisato che al giudice è demandato di interpretare la norma collettiva non solo per stabilire se si possa ritenere sussistente o meno una giusta causa o un giustificato motivo di recesso ma anche per individuare la tutela in concreto applicabile, laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale - graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto - rientrando nel compito del giudice medesimo riempire di contenuto la clausola utilizzando “standard” conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità.

Si è pertanto respinta l'idea che, ai fini dell'operatività della predetta disposizione, debba esservi una esatta corrispondenza tra il fatto così come contestato (ed accertato in giudizio) e quello previsto dalla norma collettiva quale infrazione punita con sanzione conservativa (in tal senso v., in precedenza, tra le altre, Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, ove è affermato che «Ove la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa, il giudice, sebbene gli sia precluso applicare la tutela reintegratoria alle ipotesi non tipizzate dalla contrattazione collettiva - giacché, nel regime introdotto dalla l. n. 92 del 2012, tale tutela costituisce l'eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria, presupponendo l'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore -, se ritiene che tale condotta non costituisca comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell'art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 183 del 2010, potrà dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria prevista dall'art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970 (nella fattispecie, relativa a un lavoratore sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato presso una diversa zona dello stabilimento, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, ritenuta tale condotta assimilabile al c.d. abbandono del posto di lavoro, infrazione punita dal c.c.n.l. addetti Industria Metalmeccanica con sanzione conservativa, aveva applicato la tutela reintegratoria)»).

Secondo il più recente indirizzo, in sostanza, l'interpretazione delle clausole, pur elastiche, della fonte negoziale, costituisce attività ordinaria del giudice - avente nel caso la sola particolarità di essere più complessa di quanto non lo sia quella di interpretazione di disposizioni dettagliate -, che anticipa un normale giudizio di sussunzione (della condotta nell'ambito della previsione negoziale, la quale, anche ove espressa con locuzioni quali “negligente”, o “nei casi di maggiore gravità”, avrebbe pur sempre riguardo ad una condotta) cui è estranea ogni valutazione in punto di proporzionalità, la quale, nel caso, è stata già compiuta a monte dalla predetta fonte.

Al giudice è quindi demandato di interpretare la previsione negoziale e verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva, anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta, fermo restando che, in via esemplificativa, «ciò che si deve accertare è se una determinata condotta sia o meno riconducibile alla nozione di negligenza lieve indicata nella norma collettiva come sanzionabile con una misura conservativa e non decidere se per la condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva».

L'indirizzo in questione è già stato seguito da Cass. 26 aprile 2022, n. 13065, e, ancor prima, da Cass. 26 aprile 2022, n. 13063, la quale, con riferimento ad una previsione del contratto collettivo indicante ipotesi per le quali erano previste le sanzioni conservative “esemplificativamente”, quindi senza elencazioni tassative, “a seconda della gravità della mancanza e nel rispetto del principio di proporzionalità”, ha affermato, per quanto di stretto interesse, che «in tal caso il giudice ben può effettuare una valutazione in concreto per ritenere che la condotta tenuta dal lavoratore sia riconducibile, per contiguo disvalore disciplinare, alla fattispecie aperta che prevede le infrazioni punibili con sanzione conservativa.

Non si tratta di estendere la sanzione conservativa ad ipotesi non previste, quanto piuttosto di prendere atto che le parti sociali hanno inteso descrivere le fattispecie suscettibili di una sanzione non risolutiva del rapporto di lavoro mediante una elencazione di casi, che però, per espressa previsione, ha una valenza meramente esplicativa; pertanto, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata, pur se non direttamente ascrivibile a una di quelle oggetto di elencazione, nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa attraverso siffatta tecnica di individuazione della fattispecie disciplinare, valutando che la mancanza accertata sia di gravità omologabile a quella che connota le infrazioni esplicitamente menzionate nel catalogo.

E' quanto accaduto nella controversia all'attenzione del Collegio, laddove la Corte territoriale, preso atto della “elencazione non esaustiva ed esemplificativa” dell'art. 40 citato, ha considerato che all'ipotesi della “mancata comunicazione del domicilio”, esclusa dal catalogo, fosse applicabile la sanzione conservativa, essendo la stessa prevista anche per l'ipotesi, ritenuta “più grave” ed inclusa nel catalogo, di “assenza alla visita domiciliare”, con ciò chiaramente escludendo, peraltro, che l'infrazione avesse quel carattere di “particolare gravità” richiesto dalla disciplina collettiva per procedere al licenziamento».

Osservazioni

La sentenza in commento, espressione del nuovo indirizzo seguito in breve tempo da varie pronunzie (sopra citate) - e, quindi, già sufficientemente consolidato - porta a formulare alcune considerazioni.

In primo luogo, essa sviluppa il principio presente nelle statuizioni precedenti (in base al quale il giudice può interpretare la norma elastica della fonte negoziale ai fini di individuare la esatta tutela applicabile), nel senso che l'attività interpretativa del giudice può essere a tal punto estesa da confondersi, quasi, con una funzione prettamente valutativa.

Ed infatti, diversamente dalle ipotesi ordinarie in cui una condotta sia in qualche modo delineata, nella previsione negoziale, da un punto di vista fenomenico - con la conseguenza che la previsione in questione, una volta interpretata, potrebbe in ipotesi ricomprendere nella sua sfera di applicabilità il fatto che apparentemente si mostrasse non esattamente coincidente con quello astrattamente configurato -, nel nostro caso la descrizione di una condotta è del tutto assente, essendo il riferimento operato dalla clausola del contratto collettivo limitato alla gravità o recidività della mancanza o al grado della colpa.

E quest'ultima ipotesi non può essere confusa con quelle, riscontabili in vari contratti collettivi, in cui il giudizio concernente, ad esempio, la gravità o l'intensità dell'elemento soggettivo, abbia comunque, quale parametro di riferimento, una condotta (è il caso della disposizione che preveda, in ipotesi, la sanzione conservativa per il comportamento scorretto del dipendente verso i superiori e, nei casi di maggiore gravità, la sanzione del licenziamento; nel caso in questione la condotta di base è il “comportamento scorretto”, da cui il giudice potrà partire per verificare se il “ceffone” possa rientrarvi, ovvero se lo stesso integri una condotta più grave in quanto caratterizzata dall'uso della violenza che è - sempre rimanendo sul terreno degli esempi - requisito di alcune condotte sanzionate con il licenziamento).

In buona sostanza, qui, potrebbe obiettarsi che il giudice si trova a stabilire, al di fuori di una vera e propria attività interpretativa della fonte negoziale, se il fatto contestato al dipendente possa ritenersi di entità tale da meritare una sanzione conservativa.

Ed infatti i concetti di gravità o di intenzionalità della condotta sono a tal punto elastici che, in mancanza di una predeterminazione dei criteri di valutazione offerti dalla fonte collettiva, vengono inevitabilmente apprezzati mediante giudizi di valore, tanto più soggettivi quanto più essi rimangano svincolati da parametri di riferimento.

Pertanto, in tali casi, il rischio di un trattamento differenziato tra condotte analoghe non sarebbe addebitabile alla “casualità” determinata dal contenuto delle previsioni negoziali, ma potrebbe essere il frutto del personale giudizio di valore del giudice (del resto, un tale elemento di frizione nel sistema non sembrerebbe neppure eliminabile mediante un distinguo tra i casi in cui il giudice può effettivamente interpretare la fonte negoziale e quelli in cui di fatto egli compie una mera valutazione, già sol perché non sempre è agevole stabilire quando una condotta possa dirsi minimamente descritta dalla clausola negoziale sul piano fenomenico, sì da potersi ritenere che tale clausola abbisogni solo di essere effettivamente interpretata).

A tale obiezione, ad ogni modo, si replica che il giudizio di valore espresso dal giudice non è, ovviamente, quello suo personale, bensì quello condiviso, quale espressione di “standards” conformi ai valori dell'ordinamento che trovano conferma nella realtà sociale; sicché l'opera di valutazione finisce per essere in qualche modo analoga a quella effettuata per la verifica della giusta causa sulla base del parametro legale.

A questo punto, però, è arduo immaginare un'ipotesi in cui la condotta contestata non sia riconducibile ad alcuna previsione della fonte negoziale, poiché attraverso un'opera di interpretazione e/o valutazione dovrebbe essere per lo più sempre possibile stabilire un nesso di correlazione tra condotta e sanzione disciplinare, con la conseguenza che ove sia ritenuta applicabile la sanzione conservativa, spetterà al lavoratore la tutela reintegratoria attenuata.

La conseguenza immediata, sul piano operativo, dell'indirizzo in commento è che, ove il lavoratore abbia impugnato il licenziamento deducendo l'insussistenza del fatto e, comunque, la riconducibilità della condotta ad una previsione che stabilisca per essa una sanzione conservativa, potrebbe essere maggiormente conveniente procedere all'accertamento della fondatezza o meno delle domande secondo il loro ordine, in quanto, ove fosse provato che il fatto non sussiste, non vi sarebbe bisogno di pervenire al non facile giudizio circa la sussistenza di quegli elementi che renderebbero la condotta punibile con sanzione conservativa (mentre nelle ipotesi ordinarie in cui, invece, la descrizione della condotta sia effettuata con una certa dose di analiticità nella fonte negoziale, verificare se la condotta contestata sia riconducibile a quella sanzionata dalla predetta fonte con sanzione conservativa si rileva operazione ben più agevole, con la conseguenza che potrebbe non essere necessario l'espletamento dell'istruttoria per l'accertamento della sussistenza del fatto).

Certo è che in tal complessivo quadro sembrerebbero residuare ben pochi spazi per l'operatività della tutela indennitaria forte di cui all'art. 18, comma 5, st.lav., verosimilmente riservata all'ipotesi in cui la condotta contestata ed accertata in giudizio sia effettivamente punibile con il licenziamento che però il giudice abbia giudicato comunque illegittimo in quanto sproporzionato, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso.

In conclusione, come è agevole notare, il tema presenta aspetti di notevole complessità, come attestato dal lento assestamento, forse non ancora giunto a definitiva conclusione, della giurisprudenza, chiamata a ricomporre faticosamente i tasselli di un sistema su cui ha inciso profondamente il legislatore della riforma, forse senza immaginare tutte le implicazioni scaturenti dal nuovo impianto normativo.