Analizzando la giurisprudenza della Cassazione in materia di giusta causa di licenziamento si può affermare che la tolleranza, da parte del datore di lavoro, della condotta contestata al dipendente e posta alla base del suo licenziamento ex art. 2119 c.c. non vale, di per sé, a escludere la lesione del vincolo fiduciario e la sussistenza della giusta causa stessa.
Ciò in quanto ogni inadempimento è autonomo anche nella valutazione del datore di lavoro (Cass. 9701/2012).
Tale prospettazione tende ad esaltare l'elemento della specificità del giudizio sulla sussistenza della giusta causa che postula la necessità di accertare in concreto se – in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore d'opera e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comporta – la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro (Cass. 19 giugno 2020, n. 12031; Cass. n. 12798 del 2018).
In altre parole: nel giudizio sulla sussistenza della giusta causa non c'è spazio per valutazioni generali e astratte ma occorre verificare se, in concreto, con specifico riferimento agli elementi oggetti e soggettivi del caso, la condotta del dipendente è sufficiente a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Di per sé, dunque, anche una condotta tollerata dal datore di lavoro può assumere, con specifico riferimento al singolo rapporto di lavoro, un disvalore diverso e maggiore, tale da legittimare la massima sanzione disciplinare.
Ciò non significa, però, come dimostra la stessa ordinanza in commento, che la previa tolleranza di una condotta non sia un elemento importante nella valutazione della sussistenza della giusta causa.
La Cassazione non ha mancato di evidenziare, infatti, che la consapevolezza, da parte del datore di lavoro, dell'esistenza di pratiche simili a quelle contestate e la diffusività delle stesse in ambito aziendale, incide sul principio secondo cui l'inadempimento va valutato in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all'art. 1455 cod. civ. (Cass. 22 gennaio 2019 n. 1634).
Occorre evidenziare, infatti, che, anche nell'ottica della “personalizzazione” del giudizio circa la sussistenza della giusta causa, la precedente tolleranza datoriale della condotta realizzata dal dipendente potrebbe incidere sulla portata soggettiva dell'inadempimento in quanto si potrebbe ritenere che l'«inerzia» del datore di lavoro nel punire l'illecito e quindi la sua «tolleranza», o ancora il suo comportamento di «acquiescenza» possano determinare il legittimo affidamento del lavoratore sulla mancanza di connotazione disciplinare dell'illecito.
Ciò non potrebbe non incidere – sul piano soggettivo – nella valutazione della rilevanza dell'inadempimento del lavoratore.
Appare, in ogni caso, opportuno precisare che la tolleranza dimostrata dal datore di lavoro, nel passato, rispetto ad uno specifico inadempimento del lavoratore o di altri colleghi non può, di per sé, ingenerare un affidamento del dipendente, meritevole di tutela, in ordine alle prestazioni future a meno che il comportamento datoriale lasci prevedere che analoga tolleranza riguarderà anche le prestazioni future e che, dunque, si sia formata una vera e propria prassi aziendale di tolleranza rispetto a determinati comportamenti che perdono, dunque, il carattere della antigiuridicità.
La precedente tolleranza datoriale della condotta posta in essere dal dipendente potrebbe incidere anche sulla portata oggettiva dell'inadempimento in quanto potrebbe condurre a ritenere che il divieto, di cui il datore di lavoro ha tollerato l'infrazione, non sia più oggettivamente tale o, comunque, non presenti un disvalore tale da legittimare la sanzione espulsiva per coloro che lo infrangono.