Decorrenza prescrizione crediti retributivi del lavoratore: il ritorno all'instabilità del rapporto di lavoro?

Teresa Zappia
09 Settembre 2022

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Massima

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92/2012 e del D.lgs. n. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Il fatto

La Corte d'appello di Brescia rigettava l'appello proposto dalle lavoratrici avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato prescritti i crediti retributivi dalle stesse vantanti verso la società datrice. Il giudice d'appello aveva condiviso la posizione del Tribunale, in ragione della stabilità reale del rapporto di lavoro e della conseguente decorrenza della prescrizione durante lo svolgimento del rapporto stesso, anche dopo la novellazione dell'art. 18 St. Lav., per effetto della L. n. 92/2012 e del D.lgs. n. 23/2015.

La Corte bresciana ha, infatti, negato la ricorrenza di una condizione psicologica di timore delle lavoratrici tale da indurle a non avanzare pretese retributive in corso di rapporto.

Tale posizione ermeneutica veniva fondata sulla conservazione di una tutela reale in caso di licenziamento intimato “per ritorsione", ossia per motivo illecito determinante, che abbia in concreto, al di là delle ragioni apparenti addotte, quale unica ragione giustificativa le rivendicazioni retributive del lavoratore. La Corte di appello riteneva non rilevante l'attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni - disciplinari od oggettive- sussistenti ed estranee alle suddette rivendicazioni.

La sentenza veniva impugnata dalle lavoratrici innanzi alla Corte di Cassazione.

Con un unico motivo, le ricorrenti lamentavano la violazione degli artt. 2935, 2948, n. 4 c.c., 18 St. Lav., 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato nel ritenere, anche dopo la modifica dell'art. 18 St. Lav., la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro, mancando la tutela reale per le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo. In via subordinata, le lavoratrici prospettavano una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2935 e 2948, n. 4 c.c., con riferimento all'art. 36 Cost., qualora interpretati nel senso dell'integrazione di un regime di stabilità del rapporto di lavoro, idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti.

La questione

In seguito alle modifiche normative introdotte mediante la L. n. 92/2012 ed il D.lgs. n. 23/2015, è possibile affermare la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro con le conseguenze a ciò connesse in tema di decorrenza dei termini di prescrizione di cui agli artt. 2935 e 2948 n. 4 c.c. in costanza di rapporto?

La soluzione della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato fondato il ricorso.

Si è affermato, innanzitutto, che l'art. 2948, n. 4 c.c. deve essere letto - così come gli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c.- nella sua accezione costituzionalmente legittima, in esito ai noti interventi evolutivi della Corte Costituzionale, con conseguente esclusione della decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro in ragione dell'esistenza di “ostacoli materiali”, recte "la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto … per timore del licenziamento"(Corte Cost. n. 63/66).

La Corte ha rammentato la successiva delimitazione del principio espresso dal giudice delle leggi: esso non può essere esteso ai rapporti di pubblico impiego per avere questi una particolare forza di resistenza, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto e dalle garanzie di rimedi giurisdizionali avverso la sua illegittima risoluzione, sicché si esclude che il timore del licenziamento possa indurre l'impiegato a rinunziare ai propri diritti.

Pertanto, la prescrizione non decorre in costanza di rapporto ove manchi un'effettiva stabilità dello stesso, ossia qualora all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non segua la completa reintegrazione del lavoratore nella posizione giuridica preesistente. (Corte Cost. n. 174/1972).

La giurisprudenza di legittimità, ha sottolineato la Corte, si è posta sulla medesima linea interpretativa, per cui deve ritenersi stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo.

La Corte, evidenziata la fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica, della disciplina della prescrizione in termini di sicura predeterminazione di quali siano le regole che presiedono all'accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione, ha ritenuto che il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve anch'esso soddisfare un'esigenza di conoscibilità chiara, predeterminata e di semplice identificazione.

A tale fine, evidenziano i giudici, è necessario che fin dall'instaurazione del rapporto ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e “fino a quando” possano essere esercitati.

Ad avviso della Corte, affinché il regime del rapporto di lavoro possa dirsi connotato da stabilità, occorre che esso risulti tale: a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo indeterminato o determinato (in caso di successione - dalla cessazione di ciascun rapporto in cui il credito è sorto); b) nel corso del suo svolgimento, sulla base del suo concreto atteggiarsi e nonostante la potenziale diversa qualificazione operata dai contraenti, non rilevando invece qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post. In tale ultima ipotesi, infatti, verrebbero contraddetti quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex antepropri dell'istituto della prescrizione a favore del pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale.

La Corte è dunque passata a verificare il regime attuale di stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, una volta venuta meno l'esclusività della tutela reintegratoria dell'originario testo dell'art. 18 St. Lav.

A seguito del modificato regime sanzionatorio, il giudice deve procedere ad una valutazione più articolata in ordine alla legittimità dei licenziamenti disciplinari (o per giustificato motivo oggettivo), rispetto al periodo precedente, accertando se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge.

Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione del recesso datoriale, il giudice, al fine di individuare la tutela applicabile, deve svolgere un'ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle condizioni previste dall'art. 18, co. 4 e 7, St. Lav. per accedere alla tutela reintegratoria, dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal quinto comma del medesimo articolo.

La Corte ha osservato che la tutela reintegratoria, in particolare per effetto del D.lgs. n. 23/2015, ha oggi un ambito operativo residuale.

Né tale quadro normativo si è qualitativamente modificato a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale (sent. n.125/2022 e n. 59/2021) le quali, sebbene abbiano esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, non hanno reso quest'ultima la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di licenziamento".

Così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l'art. 18 St. Lav. non assicura un'adeguata stabilità del rapporto di lavoro, ribadendo che la prescrizione decorre, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso.

A questa oggettiva precognizione si collega l'assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto ove egli intenda far valere un proprio credito nel corso di esso.

Ad avviso della Corte non costituisce garanzia sufficiente il mantenimento della tutela reintegratoria per il licenziamento ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c., in quanto si riterrebbe dotato di stabilità un rapporto di lavoro per il quale non è prevista una tutela reale nelle diverse ipotesi di licenziamento (g.m.s. e g.m.o.).

Seguendo la tesi della Corte bresciana, l'individuazione del regime di stabilità si porrebbe come una fase successiva alla qualificazione del rapporto da parte del giudice, sicché il regime della decorrenza della prescrizione verrebbe ad essere rimesso, caso per caso, al singolo accertamento giudiziale.

Ciò, evidenzia il collegio, si porrebbe in contrasto con quanto sopra rammentato in merito alle esigenze di chiarezza e prevedibilità delle regole operanti in materia.

Alla luce di quanto sopra, la Corte di Cassazione ha dichiarato che il termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento dell'entrata in vigore della L. n. 92/2012.

Il ricorso è stato, pertanto, accolto e la sentenza cassata con rinvio.

Osservazioni

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione prende posizione su una questione di non scarso rilievo la quale, a partire dalla modifica dell'art. 18 St. Lav. operata dalla L. n. 92/2012, ha visto contrapporsi tesi diverse sia nella dottrina che nella giurisprudenza.

In estrema sintesi ci si è chiesti se il principio di diritto espresso nella sentenza n. 63/1966 dalla Corte Costituzionale possa essere oggi nuovamente applicato ai rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, tenuto conto dei mutamenti legislativi in materia di licenziamenti.

Il giudice delle Leggi, prima dell'entrata in vigore della L. n. 300/70, aveva ritenuto non conforme all'art. 36 Cost. la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore durante lo svolgimento del rapporto. La disciplina in materia di licenziamenti al tempo vigente, infatti, non avrebbe consentito al titolare dei suddetti crediti di far valere le proprie pretese senza il timore di un successivo, e ritorsivo, recesso datoriale.

Lo Statuto dei lavoratori, prevedendo all'art. 18 una generale tutela reale in ipotesi di licenziamento nullo o illegittimo per carenza di un giustificato motivo (L. n. 604/66), aveva consentito di riscontrare anche per i rapporti di lavoro privati la stabilità necessaria per escludere il metus del lavoratore, sicché quest'ultimo non avrebbe dovuto attendere la cessazione del rapporto per domandare l'adempimento degli obblighi retributivi (Corte Cost. sent. n. 172/1979).

Il giudice di merito, dunque, al fine di stabile il momento di decorrenza della prescrizione, avrebbe dovuto limitarsi a verificare il possesso o meno da parte del datore dei requisiti dimensionali richiesti dall' art. 18 prefato. I dubbi sul dies a quo sono tornati a costituire oggetto di dibattito in seguito all'entrata in vigore della L. n. 92/2012 la quale, modificando il testo dell'art. 18, ha introdotto una differenziazione di tutela non più basata sul solo requisito dimensionale ma anche sulle ragioni poste a fondamento del recesso datoriale.

La reintegrazione del lavoratore è stata prevista nei casi di nullità del licenziamento, di insussistenza del fatto contestato, di sanzione espulsiva applicata nonostante la previsione negoziale di una risposta disciplinare conservativa per la stessa fattispecie, nonché in ipotesi di accertata “manifesta” insussistenza del fatto posto alla base del giustificato motivo oggettivo.

Negli altri casi di illegittimità del licenziamento, invece, è stata riconosciuta una tutela indennitaria.

Il venire meno del carattere generale della tutela reintegratoria ha condotto taluni a sostenere che, venuta meno la generale stabilità garantita dalla disciplina precedente, la prescrizione dei crediti retributivi dovesse nuovamente decorrere dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Tale tesi è stata contestata negando l'incidenza della modifica normativa sulla tutela della posizione del lavoratore, permanendo la reintegra ove il recesso datoriale avesse concretato una ritorsione rispetto alla pretesa retributiva.

Alla considerazione testuale del dato normativo sembra opportuno affiancare il diritto vivente formatosi a partire dal 2012: la giurisprudenza di legittimità, infatti, sembra orientata sull'estendere la tutela reale, nei casi di licenziamenti disciplinari, non soltanto alle ipotesi in cui risulti insussistente il fatto materiale contestato, ma anche quando lo stesso possa definirsi tale sul piano giuridico; si sono aggiunte, recentemente, anche interpretazioni estensive delle c.d. "clausole generali" contenute nella sezione dedicata alle condotte disciplinarmente rilevanti nei contratti collettivi applicati in azienda, estendendo de facto la tutela “forte” anche ad ipotesi non espressamente contemplate in via negoziale; la Corte Costituzionale, inoltre, con due recenti decisioni (sent. nn. 125/2022 e 59/2021) ha ritenuto costituzionalmente illegittimo il comma settimo dell'art. 18 St. Lav. nella parte in cui esso richiede il carattere “manifesto” dell'insussistenza del fatto fondante il licenziamento per g.m.o., nonché la facoltatività della tutela reale riconosciuta dal giudice, così equiparando la disposizione in questione a quanto previsto nel comma quarto del medesimo articolo per i casi di g.m.s.

Alla luce di quanto sopra, sebbene limitatamente ai contratti stipulati prima del 7 marzo 2015, ben potrebbe essere perorata la tesi dell'attuale stabilità dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Accedendo all'opposta soluzione, il lavoratore, beneficiario nel 2011 della precedente stabilità “reale”, avrebbe visto decorrere in corso di rapporto il termine di prescrizione del diritto di credito soltanto sino all'applicazione della Legge del 2012. Da tale momento, e fino alla cessazione del rapporto di lavoro, l'instabilità ne impedirebbe la decorrenza per il sopraggiungere del timore del licenziamento, “congelando” di fatto la frazione di prescrizione già maturata ante 2012, salvo poi il sommarsi di essa con il periodo successivo all'esaurimento del rapporto.

Diversamente per i contratti c.d. “a tutele crescenti”. In seguito all'entrata in vigore del D.lgs. n. 23/2015, infatti, la tutela reale è divenuta residuale in ragione di una maggiore estensione di quella indennitaria.

In particolare, l'art. 3, co. 2 del decreto legislativo prefato limita la reintegrazione ai casi in cui il “fatto materiale” contestato sia insussistente, con conseguente difficoltà per il giudice di estendere l'interpretazione più favorevole sopra riportata anche ai rapporti di lavoro sorti o stabilizzati in seguito al 7 marzo 2015.

La medesima previsione, inoltre, non è stata prevista per i licenziamenti fondati su ragioni oggettive, così non riproponendo l'impostazione precedente dell'art. 18, co. 4 e 7, St. Lav.

Nonostante tale mutamento di disciplina possa condurre a negare la stabilità del rapporto di lavoro, con conseguente richiamo della nota sentenza n. 63/1966, sembra opportuno riflettere su alcuni aspetti che potrebbero porre in dubbio l'automaticità di una tale conclusione, abbracciata dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento.

Il giudice delle Leggi, negli anni '60, collegò l'instabilità al metus del lavoratore in relazione al rischio, allora sussistente, di un recesso datoriale ritorsivo, rispetto al quale non erano previsti meccanismi di controllo giudiziale né la possibilità di ordinare giudizialmente il reintegro del lavoratore. Il timore, pertanto, avrebbe sostanzialmente ad oggetto una ritorsione determinante la perdita dell'occupazione.

Tuttavia il licenziamento per esclusivo motivo illecito- sebbene siano note le difficoltà probatorie che il dipendete può incontrare in sede di giudizio – è tutt'oggi affetto da nullità e coperto, dunque, dalla tutela reale. La giurisprudenza, inoltre, si è espressa favorevolmente in merito alla possibilità di dimostrare anche mediante presunzioni semplici l'esclusività del motivo ritorsivo a fondamento del licenziamento.

Maggiori perplessità sorgono, invece, qualora il licenziamento venga fondato su ragioni di natura organizzativa o produttiva, ovvero nei casi di sproporzione della sanzione disciplinare applicata in conseguenza di una condotta effettivamente posta in essere dal dipendente: l'accertata illegittimità non consentirebbe la reintegrazione così come precedentemente previsto dall'art. 18 St. Lav.

Non preteribile è anche la considerazione che la reazione datoriale ben potrebbe concretizzarsi mediante l'esercizio dello jus variandi, ad esempio ponendo il lavoratore in uno stato di inoperatività ovvero mutandone la sede di attività. In merito a tali evenienze non sembra possibile escludere a priori il timore del dipendente.

A prescindere dalla disciplina in materia di licenziamenti, dunque, egli potrebbe “rinunciare” a far valere le proprie pretese in corso di rapporto, sebbene proprio una rinuncia o una transazione che avesse ad oggetto i medesimi crediti retributivi potrebbe essere impugnata, a pena di decadenza, entro 6 mesi decorrenti dopo la cessazione del rapporto e non dall'atto abdicativo o transattivo intervenuto in corso del medesimo (art. 2113, co. 2, c.c.).

Quanto sopra sinteticamente riportato deve essere letto alla luce della ratio caratterizzante la disciplina in materia di prescrizione, la quale è stata ben evidenziata dalla Corte nella decisione in commento. L'esigenza di certezza nel diritto e, nello specifico, nei rapporti tra le parti richiede che queste ultime siano ex ante a conoscenza del regime giuridico applicabile.

È nell'interesse sia del datore che del lavoratore sapere “fino a quando” i diritti possono essere esercitati e tale conoscenza non potrebbe che basarsi sul dato normativo e sul concreto svolgimento del rapporto di lavoro.

Fondare la stabilità del rapporto, con le conseguenze a ciò connesse, sulla giurisprudenza “più favorevole” formatasi sull'art. 18 St. Lav. modificato, ovvero su una “regola” che la Corte Costituzionale ha delimitato senza procedere ad una ulteriore pronuncia sul punto (né dopo la L. n. 92/2012, né successivamente al D.lgs. n. 23/2015), condurrebbe ad una incertezza scarsamente conciliabile con l'istituto della prescrizione.

Per approfondire

O. Mazzotta, Prescrizione dei crediti di lavoro e stabilità: attualità di un dibattito antico, in Labor, 2022, pp. 141 ss.

V. G. Pacchiana Parravicini, La decorrenza della prescrizione e le tutele da licenziamento illegittimo: finché riforma non ci separi? in RIDL, 2020, I, pp. 272 ss.

R. Maraga, La prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore alla luce dell'attuale regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo e dei recenti arresti della giurisprudenza, in Dir. Rel. Ind., 2021, 1, pp. 223 ss.

G. Vidiri, La prescrizione nel diritto del lavoro e la Corte costituzionale prima e dopo la legge Fornero ed il jobs act, in Corr. Giur., 2019, n. 5, pp. 639 ss.

M. Persiani, Situazione psicologica di timore, stabilità e prescrizione dei crediti di lavoro psychological situation of fear, stability in employment and limitation period for employment entitlements, in Argomenti Dir. Lav., 2018, 1, pp. 3 ss.

F. Santoni, La decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro e la legge n. 92/2012, in RIDL, 2013, I, pp. 893 ss.

S. MAINARDI, Prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore tra vecchi e nuovi concetti di stabilità del rapporto di lavoro, in Giur. it., 2013, pp. 886 ss.

A. Maresca, La tutela dei diritti (rinunzie, transazioni e prescrizione), in (a cura di) L. Zoppoli, I rapporti di lavoro nel diritto vivente, Giappichelli Editore, Torino, 2013

A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell'art. 18 Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2012, II, pp. 415 ss.

S. Ciucciovino, La prescrizione dei diritti nel rapporto di lavoro, in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, (a cura di) G. Santoro Passarelli, Utet Giuridica, Milano, 2009, pp. 1108 ss.

E. Ghera, La prescrizione dei diritti del lavoratore e la giurisprudenza creativa della Corte Costituzionale, in RIDL, 2008, I, pp. 7 ss.

C. Lombardo, La decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi nella successione di contratti a termine legittimi, in Nuova Giur. civ. comm., 2004, I, pp. 177 ss.

A. Maresca, La prescrizione dei crediti di lavoro, Giuffré, Milano, 1983.

L. Morlini Galantino, La giurisprudenza costituzionale in tema di prescrizione dei crediti del lavoratore, in Dir. Lav, 1975, I, pp. 336 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.