Riflessioni medico-legali sulla riduzione della capacità lavorativa generica e specifica

12 Settembre 2022

La sentenza n. 32649/2021 mette in luce le criticità legate alla nozione di “perdita della capacità lavorativa”, con riguardo specialmente alla distinzione tra perdita della capacità lavorativa specifica e generica, la cui individuazione risulta spesso complessa, alla luce anche delle peculiarità del lavoro in epoca contemporanea.
Introduzione

“Il lavoro nobilita l'uomo”. Con questo celebre detto (attribuito a Charles Darwin) si intende significare che, attraverso il lavoro, l'uomo accresce la sua dignità. Non importa quale sia il lavoro. Nemmeno il tipo di autonomia o il guadagno. Ogni lavoro è in grado di rendere l'uomo “nobile”. Ed è anche per questo che la nostra Costituzione inizia affermando all'art. 1 che: “l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

D'altra parte, il lavoro possiede un indubbio significato economico-produttivo di carattere sociale, ma anche un rebound che qualifica la persona stessa, conferendole dignità. E poco importa che il termine lavoro derivi dal latino labor, che riporta a concetti di sforzo, pena, fatica e affaticamento e che nel Libro della Genesi (3.17-19) sia chiaramente scritto che “con fatica ne ricaverai il cibo tutti i giorni della tua vita e ti procurerai il pane col sudore del tuo volto”.

Il tempo ha consentito che sempre più il duro lavoro fisico lasciasse spazi all'otium (per intenderci, alla latina, così come nel De brevitate vitae di Lucio Anneo Seneca: tempo dedicato al pensiero), ma anche al negotium (nec-otium) e alla sua crescente deriva affaristica.

Ciò detto, in questo momento ci ritroviamo in una società nella quale le tipiche forme di lavoro, in essere fino all'inizio del nuovo millennio, sono state soppiantate o “snaturate” dall'evoluzione della tecnologia e del mercato, nonché da radicali cambiamenti del vivere quotidiano, con relative esigenze (per non soffermarsi sull'accelerazione riguardo questi temi dettata dalla pandemia Covid19). Basti considerare i campi di attività sostenuti/condizionati dall'IA (Intelligenza Artificiale), dal Metaverso, dal lavoro da remoto, dalla Gig Economy, dai Social media, dalle HR (Human Resources). Al punto tale che ammetto di provare un certo imbarazzo a riportare la regola del ciabattino del Melchiorre Gioia agli studenti di Medicina: non già perché non utile alla comprensione della valutazione del danno alla capacità lavorativa dell'uomo, ma perché certamente pochi di loro hanno fatto ricorso alle prestazioni di un calzolaio ("...un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi"). Così come -d'altra parte- anche io rimasi colpito dall'attività del “biscionatore” e della “colombinatrice” leggendo a posteriori la Guida del 1970 del Luvoni (“Il biscionatore elimina eventuali piccoli difetti ed irregolarità dei cappelli in feltro da uomo e compie altri lavori inerenti la confezione del cappello; la colombinatrice lavora ai forni a carbone per la cottura dei prodotti in ceramica”).

Le moderne attività, da un lato, hanno condizionato un cambiamento sostanziale dell'aspetto ergonomico del lavoro e, dall'altro, hanno amplificato l'interscambiabilità e la flessibilità delle posizioni lavorative. Le nuove tecnologie conducono sempre più a porre al centro il lavoro, piuttosto che il lavoratore (inteso come motore di quest'ultimo). In buona sostanza, come era prevedibile (Pirro F, Umanizzazione del lavoro: storia e limiti di un paradigma, Quaderni di sociologia, 21, 1999), si è passati dai modelli umanizzanti, nei quali si parlava di “gruppo di lavoro”, al “lavoro di gruppo” (e non è un semplice gioco di parole).

Ritengo che in questa estrema sintesi vi siano contenute tutte le problematiche di fondo inerenti al danno lavorativo della persona, le quali non possono che farci comprendere le difficoltà di cercare di raggiungere un suo concreto ed equo risarcimento.

Entrando più nello specifico e cercando di proporre una sintesi della sintesi, credo che si debba ammettere che il danno alla capacità lavorativa:

  • non ha unicamente un rebound patrimoniale,
  • ancor più della menomazione biologica non risulta rigidamente vincolato al concetto di permanenza,
  • risente di fenomeni sociali/produttivi che ne plasmano -in meglio o in peggio- l'effettiva ripercussione sul soggetto leso.

Tenuto conto di quanto sopra, cerchiamo di addentrarci ora in quello che è lo stato dell'arte della giurisprudenza riguardo al risarcimento di tale voce di danno, così come si evince dalla sentenza n. 32649, III sezione, Cassazione Civile del 9 novembre 2021.

Danno alla capacità lavorativa specifica

La sentenza n. 32649/2021 ci ricorda che “gli effetti pregiudizievoli della lesione della salute del soggetto leso possono consistere in un danno patrimoniale da lucro cessante laddove vengano ad eliminare o a ridurre la capacità di produrre reddito” (cfr. Cass., 24 febbraio 2011, n. 4493).

In buona sostanza, il danno da riduzione della capacità lavorativa specifica è ricondotto all'ambito del danno patrimoniale (cfr. in particolare Cass., 9 agosto 2007, n. 17464 e Cass., 27 gennaio 2011, n. 1879). L'accertamento dell'esistenza di postumi permanenti incidenti sulla capacità lavorativa specifica non comporta l'automatico obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante, dovendo comunque il soggetto leso dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un'attività produttiva di reddito e la diminuzione o il mancato conseguimento di questo in conseguenza del fatto dannoso (v. Cass., 25 agosto 2006, n. 18489, Cass., 8 agosto 2007, n. 17397, e Cass., 21 aprile 2010, n. 9444).

Ben si può comprendere come tale prova non possa che riferirsi alla sfera della “attualità” (fors'anche dell'accadimento del sinistro, piuttosto che al successivo periodo di stabilizzazione dei postumi, tenuto conto delle veloci tempistiche di mutamento degli assetti e delle prospettive di carattere lavorativo), così da inevitabilmente derogare in concreto a quello della “permanenza”.

In buona sostanza, si deve prendere atto che un tale approccio possa generare casi che potremmo inquadrare sotto la definizione di “Gennarino 2.0”, rifacendoci ad una rigida metodologia che venne applicata al protagonista della celebre sentenza del Tribunale di Milano del gennaio 1971.

Se lì il risarcimento relativo all'invalidità permanente riportata in seguito all'evento dannoso di un ragazzetto veniva calcolata “staticamente” tenendo conto del mestiere esercitato dal genitore e del reddito da questo percepito, qui -al pari- anche il danno alla capacità lavorativa specifica subisce una pressoché analoga cristalizzazione, rifacendosi ad una fotografia che -necessariamente- non può rispecchiare la dinamicità sia dell'adattamento che della compensazione delle funzioni residue dell'invalido, sia di un mondo lavorativo fluido, non più fondato su rigidi inquadramenti occupazionali standardizzabili e caratterizzanti (ad esempio, cosa si intende oggi per operaio?).

Si tratta di criticità valutativa non superabile?

Può essere.

Basta riconoscerlo e dirselo, però.

D'altra parte, è noto, come già scriveva il Giolla più di mezzo secolo fa (in Valutazione del danno alla persona nella responsabilità civile, Giuffrè Ed, 1957), che: “il risarcimento è sempre un che di imperfetto, e solo è possibile allineare le diverse forme di risarcimento secondo il criterio dell'imperfezione loro: dalla restituzione si passa così alla reintegrazione in forma specifica (ti ho tolto un asino, ti do un altro asino) e così fino alla pura e semplice erogazione di una somma di denaro, dal danneggiante al danneggiato, somma determinabile secondo opportuni criteri”.

Questi devono intendersi non come traguardi statici (pur anche nella consapevolezza che rappresentino una convenzione), ma come tappe esigenti continui sforzi di innovazione migliorativa da un punto di vista dottrinale ed applicativo.

Danno alla capacità lavorativa generica

Il punto inerente al concetto in questione viene ben sintetizzato nella sentenza in esame.

Il danno da riduzione della capacità lavorativa generica non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia (in quanto lesione di un'attitudine o di un modo d'essere del soggetto) in una menomazione dell'integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico (v. Cass., 25 agosto 2014, n. 18161; Cass., 6 agosto 2004, n. 15187). Ovviamente al danneggiato -precisa la sentenza- andranno risarciti -oltre alla specifica - anche quei danni patrimoniali ulteriori, derivanti dalla perdita o dalla riduzione della capacità lavorativa generica, allorquando il grado di invalidità, affettante il danneggiato non consenta al medesimo la possibilità di attendere (anche) ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell'infortunato, idonei alla produzione di fonti di reddito. In tale ipotesi l'invalidità subita dal danneggiato in conseguenza del danno evento lesivo si riflette, infatti, in una riduzione o perdita della sua capacità di guadagno, da risarcirsi sotto il profilo del lucro cessante. Va pertanto escluso che il danno da incapacità lavorativa generica non attenga mai alla produzione del reddito e si sostanzi sempre e comunque in una menomazione dell'integrità psicofisica risarcibile quale danno biologico, costituendo una lesione di un'attitudine o di un modo di essere del soggetto (cfr. Cass., 16 gennaio 2013, n. 908). In buona sostanza, la lesione della capacità lavorativa generica, consistente nella idoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio ma confacente alle proprie attitudini, può invero costituire anche un danno patrimoniale, non ricompreso nel danno biologico.

Ciò precisato, ritornando alla definizione sopra riportata di “capacità lavorativa generica”, non si può fare a meno di notare come questa sia necessariamente altra cosa rispetto a quella fondante le tabelle medico-legali pre-danno biologico, che -così come definita dal Cattabeni- risultava una “capacità lavorativa indifferenziata della persona umana quale fonte per ognuno di reddito economico indipendentemente dalla compromissione che possa di caso in caso essere dimostrata per una determinata menomazione, in individuali e non convertibili attitudini professionali”.

Concretamente, così come espresso nel decalogo che precedeva la “Tabella per la valutazione medico-legale di rilevanza patrimoniale riferito al valore medico della capacità lavorativa” degli storici convegni di Como (1967) e Perugia (1968), quest'ultima si riferiva ad un “attributo dell'uomo medio”, vale a dire, come spiegava il Luvoni nella sua Guida del 1970: “questo uomo medio, indipendentemente dalla attività produttiva in concreto svolta, possiede una disponibilità applicativa delle sue energie psico-fisiche in una estesa gamma di attività comunque produttive, sulla quale la menomazione incide negativamente”.

D'altra parte, l'elaborazione di una tabella di decrementi percentuali non poteva che riferirsi a previsioni mediamente attese in ordine ad una capacità lavorativa astrattamente indifferenziata di un uomo medio. Al punto di avvicinarsi al concetto di “capacità lavorativa generica” della Assicurazione Privata Infortuni. Scriveva, infatti, il Luvoni, sempre nella sua Guida del 1970: “il criterio valutativo di base (nell'Infortunistica Privata) è il riferimento alla ‘capacità generica ad un qualsiasi lavoro proficuo indipendentemente dalla professione dell'assicurato'; nessun rilievo, pertanto, acquista la maggiore incidenza che la menomazione avesse sulla capacità lavorativa specifica del contraente e uguale indennizzo spetterà a menomazione uguale, chiunque egli sia, ovviamente in difetto di patti speciali; la capacità generica di cui alla polizza corrisponde, pertanto, a quella generica disponibilità del soggetto ad esercitare attività di tipo sia intellettuale che manuale, la quale, a nostro avviso, si avvicina a quel ‘valore medio di capacità lavorativa' di cui alla Tabella per la valutazione del danno in responsabilità civile”.

Ciò detto, si deve ammettere che ben altra cosa risulti la attuale capacità lavorativa generica, che si fonda su concetti quali “idoneità” e “attitudine” (“idoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio ma confacente alle proprie attitudini”, citando la sentenza in commento) che inducono necessariamente ad un approccio sartoriale, non riferibile a qualità astratte e generiche, ma a situazioni che, se pur anche potenziali, devono fondarsi di volta in volta su un substrato personale unico e non generico.

In definitiva si potrebbe parlare di una “specifica” capacità lavorativa generica (del leso), così che, forse, questo contrasto aggettivale induca finalmente a modificare la definizione vintage vigente.

In considerazione di quanto argomentato, ne consegue la necessità, da una parte, di disporre un'analisi delle concrete potenzialità lavorative configurabili sulla base dello stato anteriore del soggetto, e -dall'altra- di confrontare le eventuali modifiche condizionate non da quanto è stato perso, ma da quanto è rimasto.

Il decremento della capacità lavorativa generica è correlato -infatti- non ai postumi permanenti, ma alle funzioni residue (al pari, d'altra parte, della “specifica”). Che i primi e le seconde soggiacciano di sovente al principio dei vasi comunicanti può anche essere, ma ciò non rappresenta la “regola”. Quest'ultima è -infatti- rappresentata dalla ponderazione di ciò che rimane rispetto a ciò che lo stato anteriore avrebbe concesso di realizzare.

Risulta pertanto evidente la necessità di una attenta ricostruzione delle potenzialità lavorative pre-lesive attraverso un'analisi storico-anamnestica e scolastico-lavorativo-attitudinale. Analisi che ugualmente dovrà essere disposta per stimare le eventuali discordanze della proiezione sostenuta dalla nuova condizione menomativa, che naturalmente potrà in questo caso avvalersi anche del dato psico-fisico di diretta acquisizione obiettiva. Relativamente a ciò, di sicuro ausilio possono risultare le competenze medico-legali, alle quali viene già fatto ricorso in tema di danno alla capacità lavorativa specifica, ma che necessariamente devono prevedere mirate implementazioni culturali e professionali, dovendosi rivolgere ad un campo molto più esteso rispetto a quello agevolmente circoscrivibile (anche da un punto di vista probatorio) della “specifica”. È bene comunque ribadire che la finalità della “generica” non si ritiene debba -anche nella valutazione sartoriale individuale- allargarsi all'”orizzonte”, con ciò intendendosi la linea apparente che segna i confini della visibilità dove cielo e terra sembrano combaciare.

Proprio il richiamo alla idoneità e alla attitudine induce a ritenere che non si possa fare ricorso ad una puramente teorica pluripotenzialità del soggetto.

Nella sentenza in oggetto, trattando del “danno collegato all'invalidità permanente che proiettandosi nel futuro verrà ad incidere sulla capacità di guadagno” di chi non lavora, ancora non lavora, non possiede un reddito o non possiede ancora un reddito, si afferma che occorre tenere conto “dell'età della vittima stessa, del suo ambiente sociale e della sua vita di relazione” (v. Cass., 30 novembre 2005, n. 26081; Cass., 18 maggio 1999, n. 4801).

Si ritiene che, anche per quanto attiene al ventaglio che disegna la “generica” ci si debba ancorare a parametri di concretezza. Qualche dubbio -almeno personalmente- lo nutrirei riguardo all'ambiente sociale (onde evitare “scivolate” tipo il già citato caso “Gennarino”), introducendo, al suo posto, il concetto di opportunità (con ciò intendendosi le chances a disposizione). Queste possono anche essere svincolate dall'ambiente sociale e familiare, risultando, invece, più aderenti alle congiunture storico-sociali di una nazione, che potrebbe avvalersi di indagini statistico-epidemiologiche più probanti (e più conformi ad equità): si pensi, ad esempio, ai dati ISTAT su grado di istruzione e collocazione lavorativa o sull'economia e l'occupazione.

L'età, tornando alla ricerca di parametri di concretezza, rappresenta certamente uno di questi, così come la scolarità e una idoneità psico-fisica di base.

Evidentemente la difficoltà risiede nell'angolo di visuale che di volta in volta si presenta: ottuso, per le fasce di età inferiori e acuto, in quelle più avanzate. In un soggetto maturo, infatti, è senz'altro più agevole inquadrare il range della sua capacità lavorativa generica: il suo percorso di vita agevola in questo.

Relativamente alle fasce di età inferiore e -in generale- a chi al momento del sinistro risulta senza un'occupazione lavorativa e, perciò, senza reddito occorrerà considerare il danno futuro collegato all'invalidità permanente che proiettandosi appunto per il futuro verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima al momento in cui questa inizierà a svolgere un'attività remunerata, in ragione della riduzione della capacità lavorativa conseguente alla grave menomazione cagionata dalla lesione patita.

In buona sostanza, in questi casi la “capacità lavorativa generica” veste i panni della “specifica” acquisendo ricaduta patrimoniale, così come in caso di “invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, integra non già lesione di un modo di essere del soggetto, rientrante nell'aspetto del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, quanto un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e piuttosto derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica […] (v. Cass., 12 giugno 2015, n. 12211). Ciò, in realtà, credo sia il punto fondamentale in tema di capacità lavorativa generica, la quale, in concreto, riflette le chances lavorative alternative del soggetto e una sua compromissione non può che portare ad una riduzione di queste. Riduzione che -a seconda dell'entità compromissoria- può riempirsi di contenuti non solo “biologici”, ma -appunto- anche patrimoniali. Operazione, questa, che risulta implicitamente non certo agevole, tenuto anche conto che nella citata sentenza ci si limita ad affermare che il danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance debba essere genericamente accertato dal giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c., senza offrire orientamenti metodologici (che sarebbero stati utili anche nel più esteso ambito extra-giudiziale).

Naturalmente, in caso di postumi di lieve entità, o comunque in mancanza di elementi concreti dai quali desumere una incidenza della lesione sulla attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso, vanno escluse l'esistenza e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica (v. Cass., 24 febbraio 2011, n. 4493). È il concetto del c.d. danno da cenestesi lavorativa: il soggetto leso svolge le medesime attività cui attendeva prima dell'evento dannoso, ma con maggiori sforzi, così da riportare una più grave usura, che non si riflette negativamente sotto il profilo patrimoniale (neanche in termini di perdita di chances), vale a dire il tutto delimitandosi nella sfera biologica.

Conclusione

Si vuole concludere esponendo una sintesi delle eventuali situazioni che possono presentarsi in tema di danno alla capacità lavorativa:

  • annullamento di ogni e qualsiasi capacità, generica e specifica;
  • annullamento della capacità specifica, con residuo più o meno grande di capacità generica;
  • compromissione della capacità generica, con integrità della capacità specifica;
  • compromissione di entrambe le capacità, generica e specifica;
  • compromissione della sola capacità generica, per mancanza di una capacità specifica

Dopo averla letta, ad alcuni tornerà forse in mente la famosa frase “se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi” pronunciata da Tancredi, nipote del principe Fabrizio Salina, ne “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Perché?

Perché la sintesi sopra proposta venne approntata dal Cazzaniga quasi un secolo fa.

È vero, abbiamo dimostrato che i contenuti (in particolare della “generica”) sono diversi, ma ciò può bastare?

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario