La nuova disciplina dei vantaggi attribuiti ai soci nel concordato preventivo

Fernando Platania
15 Settembre 2022

L'autore affronta il complesso tema del rapporto esistente tra l'attribuzione del capitale della società in concordato ai soci originari, i pagamenti previsti per i creditori ed il mantenimento dei presupposti per la continuità aziendale nel tempo successivo all'omologa, alla luce delle nuove disposizioni introdotte nel secondo decreto correttivo.
Premessa

Il nuovo art. 120 quater CCI, introdotto con il secondo decreto correttivo del luglio 2022, interviene su una questione molto importante ma sorprendentemente piuttosto sottaciuta dai commentatori, pur nell'ampio dibattito che negli ultimi dieci anni ha accompagnato lo sviluppo delle norme in tema di concordato in continuità.

Non sembra, infatti, essere stato fino ad oggi sufficientemente sottolineato che, nel concordato in continuità diretta, i soggetti che per primi ottengono benefici dalla procedura sono i soci, che vedono ripristinato immediatamente il controllo sulla loro società perso a seguito dell'azzeramento del capitale sociale conseguente al grave squilibrio patrimoniale che, quasi regolarmente, consegue all'insorgenza della crisi.

Naturalmente il fenomeno della perdita del capitale sociale per effetto della crisi e dell'insolvenza è ben presente al legislatore che, infatti, si è premurato in molte norme di neutralizzarne gli effetti ( art. 20, per la composizione assistita; art. 64 relativamente agli accordi di ristrutturazione disciplinati dagli articoli 57, 60 e 61; art. 89 per il concordato preventivo), predisponendo un sistema per effetto del quale, dalla data di presentazione di una delle domande di accesso ad una procedura di composizione della crisi fino alla omologazione, non trovano applicazione le norme sulla riduzione obbligatoria del capitale e sullo scioglimento della società.

Senonché la sospensione delle norme che determinano lo scioglimento della società a seguito della perdita del capitale sociale cessa di avere applicazione nello stesso momento dell'omologazione della proposta. Da quel momento in poi, la società di capitali per potere operare, secondo le regole della continuità aziendale, ed in ossequio al sistema del netto vigente nell'ordinamento europeo e nazionale, deve avere un capitale almeno pari al minimo di legge previsto per il singolo tipo sociale.

In altre parole, nel concordato in continuità aziendale diretta a seguito della omologazione si dovrebbe verificare ( in applicazione del principio contabile OIC 19 paragrafi 73 -73 c) una situazione patrimoniale così schematicamente riassumibile:

attivo passivo

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Immobilizzazioni capitale sociale

Attivo circolante

Cassa debiti (al netto della falcidia concordataria)

con l'effetto, dunque, che, ripristinandosi (tendenzialmente), attraverso la sopravvenienza attiva da concordato, l'equilibrio patrimoniale perduto per effetto della crisi, l'attivo societario, che è per definizione equivalente alla somma algebrica dei valori del passivo, viene distribuito tra capitale sociale (di spettanza dei soci) e debiti.

Ma l'attivo destinato ai creditori nel concordato con continuità non proviene solo dalla liquidazione dei beni ma anche (sebbene non più prevalentemente a seguito della modifica prevista sempre nel decreto correttivo dell'art. 84 co. 3) dalla continuità aziendale. Quindi, la falcidia concordataria, in questo caso, è inferiore rispetto all'ipotesi in cui il pagamento dei debiti avvenga con il solo attivo disponibile al momento dell'omologa, perché la somma dei debiti rimasti a carico della società è maggiore. Tuttavia i flussi di cassa futuri destinati a soddisfazione dei creditori concordatari (ma, più correttamente, la differenza positiva tra i costi ed i ricavi emergenti dai conti economici degli esercizi successivi all'omologazione) non possono essere iscritti in bilancio (per il divieto di cui all'art. 2423 n. 2 ) con l'effetto che l'equilibrio patrimoniale potrebbe non essere immediatamente ripristinato se la somma dei debiti residui risultasse ancora superiore all'attivo (come quasi normalmente dovrebbe succedere se fosse piuttosto elevata la quota di pagamento dei debiti concordatari affidati ai flussi di cassa prospettici) al netto del capitale.

La situazione patrimoniale potrebbe essere pertanto la seguente:

attivo passivo

Immobilizzazioni capitale sociale

Attivo circolante (perdita)

Cassa

debiti (al netto della falcidia concordataria)

Nella sostanza, nel concordato in continuità aziendale diretta, il capitale sociale della società, al momento della omologazione, deve essere almeno pari a quello minimo previsto per il tipo di società; ma non è escluso che la falcidia concordataria, se una parte consistente dei debiti deve essere pagata con i flussi di cassa attesi dalla prosecuzione dell'attività sociale, non possa risultare di per sé sola sufficiente a ripristinare il patrimonio netto almeno nella misura minima necessaria, con l'effetto di generare, immediatamente dopo l'omologa, una perdita che può portare il capitale al di sotto del minimo di legge.

Quindi, necessariamente il capitale sociale (essendo le altre componenti del patrimonio netto già automaticamente assorbite dalle perdite pregresse già prima della stessa proposta di concordato) dovrebbe essere tanto più elevato quanto più alta è la quota dei debiti che devono essere pagati con i flussi di cassa prospettici, per poter neutralizzare la perdita di natura contabile dipendente dal ridotto bonus concordatario; se ciò non accadesse, cessando la copertura delle disposizioni di favore, la società si troverebbe nuovamente in condizioni di scioglimento e, quindi, nell'impossibilità legale di procedere all'adempimento del concordato che presuppone l'inesistenza di una causa di scioglimento.


La disciplina dell'art. 120 quater CCI

Nello scenario sommariamente descritto interviene la nuova disposizione.

L'art. 120-quater CCI prende atto che è inevitabile che i soci risultino i primi beneficiari dell'omologazione del concordato (perché ad essi è necessariamente ed immediatamente destinata una quota dell'attivo) e dispone che in caso di dissenso di una classe di creditori, il concordato possa essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sia almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato (unicamente) il valore complessivamente riservato ai soci. Inoltre, se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.

Pertanto, nell'ipotesi considerata dalla seconda parte del comma primo, quando la classe dissenziente sia l'ultima nella distribuzione dell'attivo (perché non ci sono classi trattate ugualmente o meno favorevolmente) occorre che le utilità a tale classe destinate non siano complessivamente inferiori al valore riservato ai soci.

In tutti gli altri casi, qualora una o più classi dissentano dalla proposta, l'omologazione è possibile solo se ciò che è stato a tali classi promesso nel piano abbia un valore almeno pari a quello complessivamente assegnato ai soci; in altre parole, la somma distribuita ai creditori di una classe dissenziente non può essere inferiore a quanto sia nella sostanza riservato ai soci (per evitare che i soci siano avvantaggiati rispetto ai creditori sociali che si sono opposti).

Ricordato che nel concordato in continuità aziendale la suddivisione in classi è obbligatoria (art. 85, comma 3, CCI), la norma finisce per introdurre un nuovo limite nella distribuzione dell'attivo; infatti, non solo a ciascun creditore non può essere mai assegnato un importo inferiore a quello che deriverebbe dall'alternativa liquidatoria e per i creditori che godono privilegio, pegno o ipoteca a quello ricavabile dalla liquidazione del bene su cui hanno privilegio (art. 84, commi 5 e 6), ma aggiunge l'ulteriore limite per cui ai creditori di una classe (se dissenziente) non possono essere assegnate complessivamente utilità inferiori rispetto a quelle assegnate ai soci.

L'idea del legislatore è, dunque, quella di limitare al massimo il vantaggio dei soci per permettere che il valore dell'attivo (“di liquidazione” come definito dall'art. 84) sia assegnato ai creditori nella misura maggiore possibile.


I problemi interpretativi

Tale scelta (oggettivamente condivisibile, perché tende ad evitare eccessivi vantaggi ai soci, nel rispetto della regola di derivazione eurocomunitaria della distribuzione dell'attivo secondo criteri di priorità relativa) apre, però, alcuni dubbi ed ha, comunque, delle importantissime ricadute.

Quanto ai dubbi, il nuovo art. 120 quater CCI dispone che per valore riservato ai soci si intende il valore effettivo, conseguente all'omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese minori, anche in altra forma.

La formulazione non dà, quindi, rilevanza al valore nominale delle quote o delle azioni assegnate ai soci, ma a quello reale “conseguente all'omologazione” che è naturalmente diverso da quello nominale; si può ipotizzare, inoltre, che ai fini della determinazione del valore effettivo si debba considerare il valore delle quote ed azioni nell'ipotesi di un pieno successo del concordato tenendo conto delle sole previsioni del piano senza possibilità di considerare né sottoperformance o sovraperformance all'esito dell'esecuzione del concordato e ( probabilmente) senza neppure valorizzare il rischio del possibile insuccesso. E' lasciato al proponente il compito di valutare, almeno in un primo momento, il vantaggio riservato ai soci nonché di scegliere il metodo applicabile tra quelli conosciuti dalla dottrina aziendalistica. In ogni caso, il valore indicato nella proposta dal debitore dovrebbe potere essere oggetto di contestazione da parte dei creditori in sede di opposizione alla omologazione, con l'apertura di una non semplice fase contenziosa, non dovendo costituire ostacolo il limite previsto dall'art. 112 comma 4, richiamato dall'art. 48 CCI, che prevede che la stima del complesso aziendale sia possibile solo in caso di opposizione proposta da un creditore dissenziente circa la convenienza della proposta.

Dai vantaggi spettanti ai soci, vanno dedotte tutte le somme versate dai medesimi a titolo di apporto (dopo l'apertura della procedura).

Non molto chiara è, invece, la previsione di deduzione degli apporti effettuati a qualsiasi titolo per le imprese minori; forse la disposizione richiama le prestazioni d'opera che i soci si possono impegnare a fare a favore della società, purché esse non costituissero obbligo statutario già previsto.

Quanto alle ricadute, le regole dettate dall'art. 120 quater CCI potrebbe portare alla formazione di classi non secondo interessi omogenei ma piuttosto in funzione dell'esigenza di destinare a ciascuna di esse, attraverso surrettizie aggregazioni, risorse in misura complessivamente mai inferiore a quelle riservate ai soci per diminuire il rischio del diniego della omologazione.

In secondo luogo, ed è il rischio maggiore, può rendere difficilissima la prosecuzione dell'attività di impresa (che è pure l'obiettivo fortemente perseguito dal legislatore con le norme destinate a favorire il concordato in continuità) se per evitare il rifiuto di omologazione venisse assegnato ai soci un capitale veramente esiguo eventualmente anche (quando possibile) a seguito di trasformazione delle società per azioni in società a responsabilità limitata. Infatti, un capitale molto ridotto (per rispettare i limiti dell'art. 120-quater) renderebbe assai probabile l'entrata della società in fase di liquidazione già nei primissimi tempi successivi all'omologazione, appena dopo essere venuto meno lo scudo protettivo dell'art. 89; le fasi successive all'omologazione, essendo normalmente caratterizzate da profonda ristrutturazione, sono proprio quelle nelle quali perdite di esercizio sono quasi inevitabili e che, quindi, possono determinare rapidamente condizioni di apertura della fase di liquidazione ai sensi dell'art. 2484, comma 1, n. 4 c.c..

Inoltre come già specificato, non potendosi iscrivere nell'attivo patrimoniale gli utili prospettici (destinati a soddisfazione di tutti o alcuni creditori concordatari) non è affatto escluso che la società si trovi già, per quanto in precedenza illustrato, in situazione di liquidazione nello stesso momento in cui viene omologato il concordato, per essere i debiti (sia pure falcidiati) superiori al valore dell'attivo ( non risultando sufficiente l'esiguo capitale sociale a neutralizzare il deficit patrimoniale).

Ed in una siffatta precaria situazione, gli amministratori potrebbero essere fortemente indotti ad assumere comportamenti difensivi per evitare l'illimitata responsabilità personale per le operazioni che determinano nuovi rischi aziendali (come tipicamente quelle che si intraprendono dopo l'omologazione) secondo quanto disposto dall'art. 2486 c.c., rendendo così incertissimo il successo del concordato (che si fonda proprio sulla possibilità di proseguire con regolarità l'attività aziendale).


Le prospettive operative

Quali possono essere i rimedi.

Il più semplice sarebbe quello di trasformare almeno in parte i crediti in capitale sociale. In altre parole, i creditori diverrebbero i soci ed il patrimonio netto potrebbe essere elevato a sufficienza da garantire la continuità sociale (rendendo irrilevante l'eventuale minimo vantaggio riservato ai soci originali). Ma si tratta di soluzione normalmente poco gradita ai creditori che, non intendendo quasi mai condividere con il debitore il rischio d'impresa, sarebbero indotti a rigettare la proposta.

Altra soluzione sarebbe quella di chiedere ai soci originari nuovi versamenti di capitale, in modo che la società possa acquisire i mezzi necessari per procedere agli adempimenti conseguenti alla approvazione del concordato, come espressamente contemplato dall'art. 120-bis. Tuttavia, poiché l'esecuzione della delibera sarebbe in ogni caso successiva all'omologazione, non vi sarebbe certezza circa l'effettiva esecuzione del divisato nuovo versamento dei soci che, comunque, non sarebbero mai obbligati ad effettuarlo.

Altrettanto difficile da praticare è la strada della trasformazione della società di capitali in società di persone (per le quali le regole della necessaria sussistenza di un patrimonio netto di importo non inferiore al capitale minimo non si applicano) per gli evidenti gravi rischi che correrebbero i soci.

Si potrebbe, forse, ipotizzare di assegnare il capitale sociale post omologa ad un trust che provveda ad attribuire le azioni e quote ai soci o ai creditori in funzione del successo della proposta concordataria; in altre parole, le quote e le azioni potrebbero essere assegnate, al termine previsto per l'esecuzione del concordato, ai soci solo se tutti gli obiettivi fossero stati raggiunti, ed invece ai creditori (secondo quanto previsto nel piano) in misura crescente quanto minore fosse il successo della proposta. Questa assegnazione, subordinata ai risultati effettivamente conseguiti, potrebbe forse non ricadere nell'ipotesi contemplata dall'art. 120-quater non potendosi ritenere sicura l'assegnazione di una utilità predeterminata ai soci.

In alternativa, le azioni e le quote emesse a seguito dell'omologazione potrebbero essere assegnate ad un trust i cui beneficiari primi fossero i creditori, ma riscattabili (art. 2437-sexies c.c., ritenuto applicabile anche alle quote di S.r.l. dal Consiglio Notarile di Milano, massima 153 del 17 maggio 2016) da parte dei soci originari alla fine della esecuzione del concordato pagando un prezzo che poi fosse destinato (secondo quanto previsto dal piano) ai creditori quale ulteriore beneficio concordatario.

Ma è probabile che il vero intervento debba farlo il legislatore.

Come già osservato, la prima fase dell'esecuzione del concordato è fisiologicamente assai complessa; se ne deve essere accorto anche il legislatore che ha, molto opportunamente, abbandonato la pretesa di imporre, inderogabilmente, il pagamento dei creditori privilegiati entro due anni dalla omologazione; nel concordato in continuità aziendale, l'alienazione dei principali e più significativi cespiti è pressocchè impossibile perché destinati a garantire l'integrità produttiva; ne consegue che il pagamento anche dei creditori con elevato grado di privilegio deve essere assicurato fondamentalmente dai proventi della continuità aziendale; e se si considera che il fabbisogno per il pagamento dei crediti privilegiati (e delle prededuzioni) rappresenta un quota molto elevata del totale complessivo, appare illusorio sperare di estinguere i debiti privilegiati nei primi anni del concordato.

Ma è, perfino, assai probabile che la società (di capitali) in concordato debba anche fronteggiare all'inizio perdite di esercizio; e quindi l'estensione temporale della previsione dell'art. 89 anche per i primi tempi successivi all'omologa, a somiglianza di quanto è accaduto per le perdite dipendenti dalla pandemia, potrebbe costituire un utile strumento di indiretta protezione dei vari interessi in gioco, magari da controbilanciare con un intenso e pregnante controllo del commissario sugli amministratori affinchè non si verifichino abusi.


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