La colpa del datore di lavoro non è la colpa di organizzazione

Ciro Santoriello
16 Settembre 2022

Il punto centrale della decisione in commento è rappresentato dal rapporto fra la responsabilità per l'infortunio sussistente in capo ai dirigenti dell'azienda e la colpevolezza, per deficit organizzativo dell'ente presso cui lavorava il dipendente infortunato.
Massima

Con l'espressione “colpa di organizzazione dell'ente” - nozione necessariamente diversa rispetto alla colpa riconducibile ai soggetti apicali autori del reato – ci si intende riferire ad un modo di essere "colposo", specificamente individuato, proprio dell'organizzazione della persona giuridica che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all'ente di commettere il reato. In tale prospettiva, l'elemento finalistico della condotta dell'agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo "negligente" dell'impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo.

Il caso

In sede di appello veniva confermata la condanna di una società per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, per avere - come ente alle cui dipendenze lavorava la persona offesa, rimasta ferita alla mano sinistra durante una operazione di raddrizzamento di un cartone che non scorreva correttamente nella macchina piegatrice e incollatrice in uso - consentito il verificarsi del reato di lesioni personali, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica; reato contestato al legale rappresentante della società, commesso - secondo l'accusa - nell'interesse dell'ente, in ragione dell'assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, e in particolare di un organo di vigilanza che verificasse con sistematicità e organicità la rispondenza delle macchine operatrici, acquistate e messe in linea, alle normative comunitarie in tema di sicurezza, nonché l'adeguatezza dei sistemi di sicurezza installati sulle stesse.

La Corte di appello, nel confermare la responsabilità dell'ente, aveva dato atto della mancanza - nel macchinario e all'epoca dei fatti - di un dispositivo di spegnimento automatico in caso di toccamento delle lamiere, solo successivamente integrato nel dispositivo ed aveva individuato l'interesse della società, idoneo a configurare la responsabilità, nella mancata rivalutazione e monitoraggio dell'adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, in quanto privo dei dispositivi di blocco necessari ad evitare infortuni come quello in esame, avvenuto nel 2011, nonché la mancanza di un modello organizzativo in materia prevenzionistica.

In sede di cassazione, la difesa lamentava che i giudici di merito avevano, da una parte, riconosciuto come la lavoratrice fosse esperta e istruita adeguatamente quanto a conoscenza delle procedure e dei rischi, e ciononostante avesse, in occasione dell'infortunio, agito d'istinto, spostando il foglio con la mano senza fermare la macchina per non rallentare il lavoro; dall'altra, nonostante la lavoratrice avesse tenuto un comportamento antitetico al modello insegnato e conosciuto, i giudici avevano omesso di riconoscere l'interruzione del nesso causale ovvero, in subordine, non avevano motivato in ordine alle ragioni per le quali la società sia tenuta a rispondere "oggettivamente" di qualsivoglia atteggiamento istintuale, posto in essere persino da una lavoratrice esperta. Inoltre, si sosteneva la contraddizione della sentenza nella parte in cui addebitava alla società la mancata rivalutazione in ordine all'adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, nonostante avesse in precedenza dato conto degli esiti dei controlli del 2008 effettuati dall'Organismo Notificato CE nonché di quelli del 2009 ad opera del tecnico incaricato dall'ente allo scopo. La Corte territoriale poi non aveva fornito alcuna risposta in merito all'esistenza dell'interesse in capo all'ente, direttamente derivante dall'omessa adozione del c.d. modello organizzativo, a fronte di costi assai elevati sostenuti dall'ente in materia di sicurezza, come documentato in appello, a dimostrazione di una costante scelta aziendale di investimento e spese in sicurezza, incompatibile con l'affermata finalità orientata al risparmio sui conti d'impresa, né evidenziato alcun concreto collegamento finalistico tra la violazione prevenzionistica e l'interesse dell'ente, né alcun concreto vantaggio di cui avrebbe beneficiato la società ricorrente dalle riscontrate omissioni.

La questione

Sono molteplici e vari i profili di interesse toccati dalla decisione in esame.

Dopo aver ribadito la distinzione fra interesse e vantaggio - concetti alternativi e concorrenti tra loro, in quanto l'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito (cfr. Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343. In dottrina, Astrologo, Brevi note sull'interesse ed il vantaggio nel d.lgs. 231/2001, in Ind. Pen., 2003, , 657; Di Giovine, Lineamenti del nuovo illecito punitivo, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti, a cura di Lattanzi, Milano 2010, 69) -, la Cassazione torna a ribadire che il profilo inerente a questi due aspetti della responsabilità delle società deve comparire ed essere precisato nell'imputazione contestata all'ente per cui nella contestazione del fatto avanzata all'ente dal pubblico ministero non può mancare una sufficientemente analitica indicazione dei benefici patrimoniali ricavati dalla società dalla altrui condotta criminosa.

Si ricorda che secondo l'art. 59, comma 2, d.lgs. n. 231/2001 la contestazione deve contenere gli elementi identificativi dell'ente giuridico, l'enunciazione in forma chiara e precisa del fatto che fonda la responsabilità, l'indicazione del reato presupposto e delle fonti di prova. Dunque, quanto all'indicazione del reato presupposto della responsabilità amministrativa dell'ente, deve ritenersi che l'esposizione non debba differire, quanto a completezza di contenuto, dalla formulazione della imputazione cui il pubblico ministero procede nell'esercizio dell'azione penale nei confronti di una persona fisica. Per queste ragioni è da ritenere che il pubblico ministero dovrà indicare che il reato presupposto è stato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica, nonché quale sia la natura del rapporto funzionale che lega l'autore dell'illecito penale allo stesso ente, evidenziando anche l'eventuale insufficienza dei modelli organizzativi, di gestione o di controllo operanti all'interno della società (Cass. pen., sez. V, 29 settembre 2020 (dep. 4 novembre 2020), n. 30753: «in tema di responsabilità da reato dagli enti collettivi, la contestazione dell'illecito alla persona giuridica deve specificare quale sia il vantaggio che questa ha ottenuto o l'interesse della medesima che è stato perseguito mediante la realizzazione del reato presupposto; quando tale elemento non sia presente nella contestazione, il giudice dovrà invitare il pubblico ministero ad integrare la contestazione e solo in caso di mancato adempimento all'invito potrà dichiarare la nullità dell'atto di esercizio dell'azione penale e rinviare gli atti alla Procura per provvedere altrimenti»).

Nella parte finale della decisione poi compare anche un significativo inciso in ordine alla posizione ed al ruolo dell'Organismo di Vigilanza nel sistema 231. Rifiutando, sia pure implicitamente e senza mai menzionarla espressamente, l'impostazione adottata in proposito dalla giurisprudenza di merito (cfr. le decisioni del tribunale di Milano sulla vicenda MPS, Cass. pen., sez. II, n. 13490/2019), la Cassazione ricorda che il ruolo che tale collegio riveste in azienda è funzionale solo alla possibilità di esonerare l'ente da possibili sanzioni in caso di commissione di reati da parte dei suoi dirigenti o sottoposti, senza che allo stesso possano essere riconosciuti poteri impeditivi di altrui illeciti. Si tratta di una precisazione decisamente importante perché pone fine a quella pericolosa tendenza, cui si è fatto cenno, che finiva per assegnare all'Organismo di Vigilanza un ruolo di sindacato diretto e totale sulle scelte gestorie dell'azienda e dei suoi vertici, prospettiva sideralmente lontana dal ruolo proprio dell'OdV, che deve essere quanto più estraneo rispetto alla gestione dell'impresa. Come è stato detto, «la non ingerenza nelle scelte degli amministratori è condicio sine qua non di autonomia e indipendenza, requisiti che devono sempre connotare i componenti dell'Organismo di Vigilanza e, conseguentemente, l'organismo stesso» (Fusco – Fragasso, Sul presunto obbligo di impedimento in capo all'organismo di vigilanza: alcune note a margine della sentenza BMPS, in Sistemapenale.it), il quale può adempiere correttamente ai propri compiti solo nella misura in cui è separato rispetto alla gestione della società e si limiti a verificare, in maniera indipendente per l'appunto, l'adozione e l'attuazione dei modelli organizzativi. I compiti dell'OdV sono di generica prevenzione, prospettici e organizzativi, non volti ad impedire singoli eventi lesivi ma connotati da una «finalità preventiva indiretta [per] assicurare l'effettività dei modelli di organizzazione e di gestione adottati», senza pretendere di «impedire concreti episodi delittuosi» (Consulich, Vigilantes puniri possunt. I destini dei componenti dell'organismo di vigilanza tra doveri impeditivi e cautele relazionali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2015, 445), per cui, qualora riscontrino criticità e difetti del modello organizzativo, i componenti dell'organismo di vigilanza non devono intervenire direttamente ma devono limitarsi a riferire all'organo di gestione, che provvede eventualmente a deliberare e ad adottare le misure correttive necessarie (Centonze, Controlli societari e responsabilità penale, Giuffrè, 2009, 407; Bernasconi, “Razionalità” ed “irrazionalità” della Cassazione in tema di idoneità dei modelli organizzativi, in Dir. Pen. Proc., 2014, 1436).

In secondo luogo, la suddetta precisazione circa i compiti dell'Organismo di Vigilanza è importante perché consente di escludere che i membri di questo collegio possano rispondere penalmente dei delitti di lesioni ed omicidio colposo conseguente a violazioni delle disposizioni antifortunistiche, in relazione al loro mancato attivarsi per impedire il verificarsi di tali eventi negativi. Una volta escluso, infatti, che i componenti dell'OdV abbiano un obbligo di intervento e verifica circa le condizioni di sicurezza dell'impresa si deve escludere anche che gli stessi abbiano poteri di porre fine a situazione di pericolo presenti in azienda e quindi non si vede come sia possibile attribuire ai relativi componenti una posizione di garanzia rispetto a vicende su cui essi non hanno alcun controllo né alcuna possibilità di impedimento.

Da ultimo, la decisione ribadisce che la colpevolezza dell'impresa collettiva non può dirsi integrata ex se dalla mancata adozione e dall'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione: si tratta di una considerazione che ritorna più volte nella più recente giurisprudenza, come può riscontrarsi nella decisione Cass. pen. sez. IV n. 32899/2021, relativa alla cd. strage di Viareggio. Nel definire la questione circa la possibilità di ritenere obbligate al rispetto del dettato di cui al d.lgs. n. 231/2001 anche le società straniere che si trovino ad operare in Italia, la Cassazione ha precisato che il requisito della colpa di organizzazione va inteso in senso normativo e quindi sussiste in caso di inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati elencati nel «catalogo 231» e fissate nei MOG, ma ciò non significa che il rispetto preteso dal d.lgs. n. 231/2001 e delle regole cautelari ivi richiamate possa essere garantito solo con le modalità indicate dal suddetto testo normativo ed in particolare solo per il tramite dell'adozione di un Modello organizzativo strutturato secondo quanto indicato dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001. In effetti, come riconosce la Corte, è possibile che le società estere risultino sottoposte «a previsioni normative e regolamentari che possono non prevedere l'obbligo di adozione di idonei Modelli di organizzazione da attuare efficacemente o possono prevedere differenti parametri di valutazione dell'idoneità e dell'efficacia» ma si tratta di una circostanza insignificante al fine di escludere la giurisdizione italiana nella materia de quo in quando il rimprovero alle società commerciali va mosso in caso di mancato rispetto di regole cautelari di portata assolutamente generale la cui osservanza rileva ai fini dell'esenzione di responsabilità dell'ente in ragione della loro reale efficacia preventiva ed in presenza di una loro concreta implementazione nell'assetto aziendale, senza che assuma alcuna importanza il loro eventuale recepimento in specifici Modelli organizzativi come possono essere quelli del Decreto 231: come chiaramente detto nella decisione citata, «non è pertinente evocare la loro [ovvero le regole cautelari] inclusione in un ordinamento diverso, giacché quel che rileva è che esse siano riconosciute dal consesso sociale come efficaci per la gestione del rischio di cui si tratta». L'assenza di un Modello, o l'assenza di un Modello improntato al paradigma valevole per la legislazione nazionale, dunque, non implica di per sé la sussistenza della colpa di organizzazione, a patto che l'ente straniero dimostri di aver comunque attuato una «organizzazione diligente».

Il punto centrale della decisione, tuttavia, è rappresentato dal rapporto fra la responsabilità per l'infortunio sussistente in capo ai dirigenti dell'azienda e la colpevolezza, per deficit organizzativo dell'ente presso cui lavorava il dipendente infortunato. Su tale punto, tuttavia, si tornerà in sede di conclusioni.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato accolto con una motivazione assai articolata.

Dopo aver censurato, con riflessione la cui rilevanza è evidenziata nella parte finale della decisione, la struttura dell'addebito contestato che non evidenziava con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato alla società, avuto riguardo al menzionato interesse dell'ente rapportato alla riscontrata assenza di un "modello organizzativo" ed aver ricordato il diverso significato delle espressioni “interesse” e “vantaggio”, la decisione evidenzia come sia essenziale evitare che, sulla base del mero rapporto di immedesimazione organica fra autore dell'illecito ed ente, in capo a quest'ultima venga riconosciuta una forma di responsabilità meramente oggettiva. A tal fine, non basta valorizzare il solo profilo della relazione funzionale corrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente, ma occorre anche che «sussista la c.d. 'colpa di organizzazione' dell'ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. Grava sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza e l'accertamento dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell'interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende 'per rimbalzo' dall'individuo all'ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell'ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo» (Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735).

In quest'ottica il requisito della "colpa di organizzazione" dell'ente assolve nel sistema 231 la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione "colpevole" (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Ma proprio in ragione di ciò, tale forma di colpevolezza non dirsi integrata ex se dalla mancata adozione e dall'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione: come si legge nella pronuncia, «l'assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell'illecito dell'ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica' e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l'ente (cd. immedesimazione organica "rafforzata"), la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due» (in proposito, la Cassazione censura i giudici di merito nella misura in cui non avevano rilevato come nel capo di imputazione ci si limitasse ad addebitare all'ente la mera assenza di un modello organizzativo, senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la "colpa di organizzazione" da cui sarebbe derivato il reato presupposto).

Sottolineata la rilevanza della colpa di organizzazione nel sistema della responsabilità da reato degli enti collettivi, la Cassazione poi sottolinea come la stessa sia diversa dalla colpa riconducibile ai soggetti apicali autori del reato: questi ultimi, infatti, sono stati ritenuti colpevoli del reato in ragione della commissione di specifiche omissioni e violazioni della normativa prevenzionistica, nella loro qualità di datori di lavoro; l'ente, di contro, risponde - a diverso titolo - di un illecito distinto, sia pure derivante dal medesimo reato. La decisione impugnata invece sovrappone e confonde i profili di responsabilità da reato degli amministratori/datori di lavoro dai profili di responsabilità da illecito amministrativo della società, addebitando a quest'ultima la riscontrata mancanza del dispositivo di spegnimento automatico del macchinario, la cui implementazione avrebbe impedito l'evento, e l'omessa verifica periodica dei macchinari; profili colposi indubbiamente ascrivibili agli amministratori della società, quali datori di lavoro tenuti al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all'ente in quanto tale.

I giudici di merito, in definitiva, fondano la responsabilità amministrativa dell'impresa sulla «accertata mancanza del modello organizzativo» e sul conseguente «risparmio di spesa quale tempo lavorativo da dedicare alla sua predisposizione ed attuazione», richiamando, genericamente, ulteriori voci di (possibile) risparmio di spesa (si accenna ai costi sulle consulenze, sugli interventi strumentali e sulle attività di formazione e di informazione del personale, peraltro senza spiegarne la rilevanza specifica al caso in esame). Tuttavia, come detto, l'affermata "mancanza del modello organizzativo" non può costituire elemento tipico dell'illecito amministrativo in contestazione, per la cui sussistenza occorre invece fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una "colpa di organizzazione" dell'ente, aspetto che non è stato minimamente affrontato dalla Corte territoriale, non potendo richiamarsi in proposito gli aspetti che riguardano le dotazioni di sicurezza e i controlli riguardanti il macchinario specifico sul quale si è verificato l'infortunio, profili che attengono essenzialmente a profili di responsabilità del soggetto datore di lavoro e quindi, a profili colposi degli amministratori della società cui è stato addebitato il reato, in relazione alla riscontrata violazione della normativa per tutela della sicurezza sul lavoro.

Quando si parla di "colpa di organizzazione", quale elemento che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo imputabile all'ente, ci si intende riferire ad un modo di essere "colposo", specificamente individuato, proprio dell'organizzazione dell'ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all'ente di commettere il reato. In tale prospettiva, l'elemento finalistico della condotta dell'agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo "negligente" dell'impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo.

Ne consegue che, nell'indagine riguardante la configurabilità dell'illecito imputabile all'ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell'illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l'inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/01. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l'imputazione dell'illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l'ente risponde dell'illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui). Ciò rafforza l'esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell'ente) responsabile del reato.

La decisione conclude evidenziando come la Corte territoriale non abbia motivato sulla concreta configurabilità, nella vicenda in esame, di una colpa di organizzazione dell'ente, né ha stabilito se tale elemento avesse avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto, dando una inammissibile lettura della norma di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 in base alla quale l'affermazione della responsabilità dell'ente consegue indefettibilmente alla sola dimostrazione della sussistenza del reato presupposto e del rapporto di immedesimazione organica dell'agente.

Da ultimo, nella pronuncia compare una importante precisazione con riferimento ai compiti dell'organismo di vigilanza. Pur se non se ne fa menzione nel considerato in fatto, a quanto si comprende i giudici di merito avevano ritenuto sussistente la responsabilità dell'azienda in ragione del mancato intervento dell'Organismo di Vigilanza sui presunti difetti che erano presenti sui macchinari aziendali. La Cassazione censura in maniera netta questa attribuzione sostenendo che la sentenza impugnata aveva attribuito «all'organismo di vigilanza compiti incardinati nel sistema di gestione della sicurezza (dei macchinari aziendali) del tutto estranei ai compiti che l'art. 6 d.lgs. n. 231/2001 assegna a tale organismo, che sono essenzialmente quelli di sorvegliare e verificare regolarmente la funzionalità e l'osservanza dei modelli organizzativi richiamati dallo stesso art. 6 cit.».

Osservazioni

Come accennato, il profilo centrale della decisione è rappresentato dalla riflessione che la Cassazione conduce sulla nozione di “colpa di organizzazione” e sul rilievo che tale aspetto riveste nel sistema della responsabilità degli enti.

L'interesse della decisione non è rappresenta dalla definizione che la Corte fornisce di tale profilo della colpevolezza degli enti – individuato come la mancata predisposizione di “un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato” -, quanto nelle modalità con cui la stessa opera (e di conseguenza va ricostruita in sede dibattimentale) allorquando la responsabilità della società sia connessa ad un reato presupposto di carattere colposo ed in specie ai delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. In tali circostanze, occorre distinguere fra la colpa di organizzazione ed il rimprovero da muovere ai soggetti apicali autori del reato: questi ultimi rispondono «di specifiche omissioni e violazioni della normativa prevenzionistica, nella loro qualità di datori di lavoro … tenuti al rispetto delle norme prevenzionistiche», mentre per l'ente occorre verificare la sussistenza di un suo «modo di essere "colposo", specificamente individuato, proprio dell[a sua] organizzazione dell'ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all'ente di commettere il reato. In tale prospettiva, l'elemento finalistico della condotta dell'agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo "negligente" dell'impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo…La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l'imputazione dell'illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l'ente risponde dell'illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui). Ciò rafforza l'esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell'ente) responsabile del reato».

Prima di formulare qualche considerazione su tale ricostruzione che la Cassazione fa della nozione di “colpa di organizzazione” è il caso di soffermarsi sulle ragioni che inducono la Suprema Corte a soffermarsi sul tema con particolare riferimento all'ipotesi in cui il reato presupposto delle responsabilità dell'ente sia un delitto colposo. Ci pare evidente, infatti, che la decisione in esame con la riportata riflessione sul deficit di compliance e la necessità di differenziare attentamente colpa del singolo e colpa organizzativa della persona giuridica cerchi una diversa risposta ad un tema che inizia ad affacciarsi in giurisprudenza: ci si riferisce alle modalità con cui individuare quello che può essere il profitto o comunque il beneficio che può rinvenirsi in capo all'impresa la quale operi non osservando le prescrizioni antinfortunistiche.

Il problema – e le diverse posizioni giurisprudenziali – origina dalla circostanza che si è consapevoli del rischio che l'affermazione secondo cui anche in presenza di illeciti colposi può rivenirsi un beneficio per l'ente collettivo può aprire le porte ad una sorta di automatismo in base al quale ogni qualvolta si verifichi una violazione antinfortunistica da cui derivi una malattia o un infortunio del lavoratore possa per ciò solo dirsi dimostrata la circostanza che l'ente ha tratto dalla vicenda un vantaggio economico derivante dal risparmio dei costi o da una accelerazione dei tempi di lavoro ovvero si finisca per imputare automaticamente gli eventi della morte o delle lesioni alla società tutte le volte in cui si accerti un suo interesse o vantaggio in relazione alla condotta imprudente della persona fisica che li ha causalmente determinati (come appunto si potrebbe riscontrare nelle decisioni di merito di cui al caso di specie).

Alcune decisioni, dopo aver evidenziato come ben possono individuarsi, nella casistica giurisprudenziale, casi in cui gli infortuni si verificano per cause non direttamente riconducibili ad una logica di abbattimento dei costi per la sicurezza, ritengono necessario che il giudice fornisca adeguata prova del fatto che gli addebiti di colpa specifica ascritti all'imputato persona fisica siano qualificabili come condotte deliberatamente strumentali al conseguimento di un apprezzabile risparmio di spesa da parte dell'ente, differenziando l'ipotesi in cui la violazione delle regole cautelari corrisponda alla realizzazione di una precisa politica d'impresa, orientata in tal senso per fini economici, dai casi in cui tale circostanza dipenda, invece, da una errata gestione o omessa vigilanza sulla normativa antinfortunistica (indipendentemente da un interesse specifico dell'ente), finendo così per escludere la responsabilità della società quando la vicenda tragica sia il frutto di una isolata violazione della normativa in tema di sicurezza sul lavoro (Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2017, n. 42778). L'opinione contraria, tendenzialmente prevalente, invece ritiene che l'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 non richieda la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente da reato colposo e l'obiettivo di evitare una sorta di automatismo fra illecito della persona fisica e responsabilità della società in virtù del mero rapporto di immedesimazione organica non imporrebbe di ritenere irrilevanti tutte quelle condotte colpose ed imprudenti che, pur sorrette dalla intenzionalità, non sarebbero comunque espressive, in quanto episodiche e occasionali, di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari (Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2020 (dep. 5 febbraio 2021), n. 4480; Cass. pen., sez. IV, 21 ottobre 2020 (dep. 28 ottobre 2020) n. 29854).

La decisione in commento evita di prendere posizione in ordine al riferito contrasto e cerca di risolvere il problema di evitare ogni automatismo fra condanna del datore di lavoro e responsabilità della società insistendo, anziché sui criteri di imputazione oggettiva del reato all'ente, sul profilo della colpevolezza della società affermando che non può parlarsi di colpa di organizzazione dell'ente sulla base delle sole violazioni poste in opera dai vertici aziendali. Questa conclusione può dirsi anche condivisibile, tuttavia, quello che non è dato di comprendere è come possa accertarsi una tale colpa di organizzazione se non insistendo su dati oggettivi, rappresentati da una reiterazione delle violazioni.

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