È legittimo il rifiuto della prestazione lavorativa del dipendente in caso di demansionamento, mobbing o molestie?

21 Settembre 2022

La pronuncia in esame si pone nel solco di una giurisprudenza conforme in tema di eccezione di inadempimento in opposizione all'illegittimo demansionamento datoriale.
Il caso

La questione portata recentemente all'attenzione della Cass., sez. lav., 6 settembre 2022, n. 26199, riguarda una lavoratrice che, a seguito dell'adibizione a mansioni di lavoro inferiori, si rifiutava di presenziare per ben due volte alla visita del medico competente per l'accertamento dell'idoneità lavorativa, preliminare rispetto allo svolgimento delle suddette mansioni dequalificanti; ne conseguiva il licenziamento per grave insubordinazione da parte del datore di lavoro, oggetto di impugnazione sull'assunto che il duplice rifiuto della ricorrente era rivolto a contrastare l'inadempimento datoriale consistente nel demansionamento.

Tale condotta, secondo la difesa della lavoratrice licenziata per giusta causa senza preavviso, era pertanto da considerarsi legittima ai sensi dell'art. 1460 c.c.

Il licenziamento, con una sentenza di riforma della pronuncia di primo grado, veniva dichiarato dalla Corte d'Appello di Bologna legittimo e proporzionato rispetto alla condotta contestata; il duplice rifiuto a presenziare alla visita medica ex d.lgs. 81/2008, infatti, costituisce una grave forma di insubordinazione della lavoratrice, configurandosi quale violazione del cogente obbligo per il dipendente di sottoporsi agli accertamenti sanitari previsti dal vigente testo unico sulla sicurezza. Il sottoporsi alla visita medica, inoltre, non avrebbe comunque pregiudicato l'opposizione al demansionamento della lavoratrice, che ben avrebbe potuto utilizzare altri mezzi di tutela.

La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione del collegio felsineo, ha affermato che la condotta della lavoratrice non configura un'eccezione di inadempimento rilevante ai sensi dell'art. 1460 c.c. che è invocabile, invece, soltanto nel caso di totale inadempimento del datore di lavoro o in ipotesi di tale gravità da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali dal dipendente medesimo. In definitiva, dunque, il rifiuto si svolgere la prestazione lavorativa in reazione ad un provvedimento di demansionamento è illegittimo, giustificando il conseguente licenziamento per giusta causa senza preavviso irrogato dal datore di lavoro.

Il caso analizzato involge un più ampio discorso - che sarà approfondito nel seguito del presente contributo - sul principale (1) strumento di “autotutela” riconosciuto dall'ordinamento a favore dei lavoratori e della lavoratrici, entro tuttavia specifici limiti.

Demansionamento ed eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.: l'orientamento consolidato

La pronuncia in esame si pone nel solco di una giurisprudenza conforme in tema di eccezione di inadempimento in opposizione all'illegittimo demansionamento datoriale.

Come accennato, il rifiuto di svolgere la prestazione lavorativa può essere invocato dal dipendente ai sensi dell'art. 1460 c.c. soltanto nel caso di totale inadempimento del datore di lavoro o in ipotesi di gravità della condotta datoriale tale da incidere in modo irrimediabile sulle esigenze vitali del dipendente; ipotesi in cui non può ricomprendersi il semplice demansionamento, seppure illegittimo ex art. 2103 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass., sez. lav., 16 gennaio 2018, n. 836; Cass., sez. lav., 21 maggio 2015, n. 10468; Cass., sez. lav., 5 marzo 2015, n. 4474).

La giurisprudenza di legittimità consolidata tende infatti a negare, quantomeno in linea di massima, che il lavoratore o la lavoratrice possano agire in autotutela ai sensi dell'art. 1460 c.c., rifiutandosi di svolgere le nuove mansioni dequalificanti.

Secondo l'orientamento maggioritario, pertanto, non è legittimo il rifiuto opposto dal dipendente di eseguire la prestazione a causa di una dequalificazione, ove il datore di lavoro offra l'adempimento di tutti gli altri obblighi derivanti dal contratto, in primis quello retributivo (Cass., sez. lav., 18 marzo 2011, n. 9351; Cass., sez. lav., 9 maggio 2007, n. 10547).

In particolare, secondo Cass., sez. lavoro, 23 dicembre 2003, n. 19689, “a fronte di una ritenuta dequalificazione di mansioni non può il lavoratore, in una sorta di autotutela, sospendere la prestazione lavorativa, cioè rendersi inadempiente, quando il datore di lavoro assolva tutti gli altri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale ed assicurativa, assicurazione, comunque, del posto di lavoro ecc.) potendo una parte, ex art. 1460 c.c., rendersi inadempiente (come fece la lavoratrice) soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte e non quando vi sia potenziale controversia solo su di un'obbligazione, che oltretutto non incide (come, invece, avviene, per la retribuzione) sulle immediate esigenze vitali del lavoratore”.

Demansionamento ed eccezione di inadempimento: l'orientamento risalente e minoritario

Al contrario, un altro orientamento più risalente – ed oggi minoritario - sostiene che l'illegittimo comportamento del datore di lavoro volto ad adibire il dipendente a mansioni inferiori, ben può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa secondo lo schema dell'eccezione di inadempimento previsto dall'art. 1460 c.c., purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede (Cass., sez. lav., 8 agosto 2003, n. 12001; Cass., sez. lav., 26 giugno 1999, n. 6663; Trib. Palermo, sez. lav., 13 ottobre 2004; App. Genova, sez. lav., 10 gennaio 2006).

In concreto, la reazione può considerarsi in buona fede solo se si traduce in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni eseguite e prestazioni rifiutate (Cass., Sez. lav., 2 novembre 1995, n. 12121).

È un principio, questo, che sembra applicabile soprattutto all'ipotesi di dequalificazione più grave, ovverosia al caso di inattività lavorativa totale e prolungata, come peraltro desumibile dalla pronuncia della Corte d'Appello di Genova, sez. lav., 2 aprile 2003 (conf. Corte Appello Genova, 10 gennaio 2006) (2), in cui si è affermato che l'obbligazione del datore non consiste soltanto nella retribuzione, ma nell'adibizione del dipendente alle mansioni per le quali è stato assunto, cosicché può dirsi che l'oggetto del contratto è lo svolgimento della prestazione lavorativa con l'attribuzione di mansioni adeguate ex art. 2103 c.c., dietro pagamento di retribuzione.

In caso contrario, laddove il datore di lavoro si limitasse ad adempiere alla sola obbligazione retributiva, si giungerebbe al paradosso di ammettere che un datore possa pretendere – come avvenuto nella pronuncia citata – la presenza del dipendente nel luogo di lavoro senza espletamento di alcun compito, con conseguente violazione dei principi di diritto al lavoro (che deve intendersi pieno e non limitato alla retribuzione) e di dignità dell'individuo, ridotto - perché economicamente debole - alla totale inattività ed alla mera soggezione al volere altrui.

Demansionamento e giurisprudenza contabile: il paradosso della responsabilità erariale

L'importanza di una “proattiva” reazione della vittima di dequalificazione è testimoniata da un altro – e per la verità singolare- orientamento della giurisprudenza contabile, che ha stabilito come il pubblico dipendente abbia il dovere - e non soltanto il diritto - di prestare servizio alla stregua della qualifica funzionale posseduta, anche non accettando e - ove occorra - reagendo a condotte dequalificanti, come nel caso di provvedimenti demansionanti tali da renderne apparente la prestazione lavorativa.

Ne consegue che quando la vittima, sia pure non cagionandola, tragga però profitto dalla disorganizzazione dell'ente di appartenenza, in concreto continuando a percepire la retribuzione della qualifica posseduta senza però effettuare la prestazione dovuta, risponde a titolo di colpa grave dell'ingiusto danno pubblico in tal modo arrecato (Corte dei Conti, sez. A2, 3 novembre 2003, n. 302, est. Pisana).

Violazione dell'art. 2087 c.c. ed eccezione di inadempimento: l'orientamento giurisprudenziale favorevole all'autotutela del dipendente

Radicalmente diverso è l'orientamento della giurisprudenza di legittimità nel considerare l'eccezione di inadempimento del dipendente rispetto alle condotte datoriali lesive della propria integrità psico-fisica, in violazione del generale precetto previsto dall'art. 2087 c.c.

In particolare, secondo questo filone giurisprudenziale nel caso di violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., è legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione; ciò in quanto non possono derivare conseguenze sfavorevoli al lavoratore o alla lavoratrice in ragione dell'altrui condotta inadempiente (cfr. Cass., sez. lav., 25 settembre 2018, n. 22684; conf. Cass., sez. lav., 1° aprile 2015, n. 6631).

Più precisamente, la Cassazione (Cass., 25 settembre 2018, n. 22684, cit.) ha confermato la decisione del giudice di merito il quale aveva escluso che la mancata presentazione al lavoro del dipendente fosse ingiustificata, motivandone specificatamente le ragioni alla luce del mobbing datoriale accertato in giudizio, rispetto al quale - secondo la ricostruzione dei fatti emersa in giudizio - il lavoratore aveva inteso porre in essere atteggiamenti difensivi, atti a preservare (o a non aggravare ulteriormente) il proprio stato di salute.

Nell'ipotesi pertanto di condotte lavorative ostili rientranti nel paradigma dell'art. 2087 c.c. (quali sono appunto il mobbing, lo straining, il work stalking, la violenza fisica, le molestie morali etc.) (3), la vittima potrà eccepire l'inadempimento della prestazione lavorativa fino alla cessazione delle condotte, fermo restando il diritto al percepimento della retribuzione anche durante il periodo di interruzione della prestazione.

Con riguardo alla specifica fattispecie del demansionamento, si può quindi dedurre che quando il rifiuto del dipendente si collochi ex ante, ovvero prima dell'inizio dello svolgimento delle mansioni dequalificanti o comunque in un lasso di tempo prossimo al provvedimento di adibizione a mansioni inferiori, in cui non si siano ancora –presumibilmente- prodotte lesioni all'integrità psico-fisica, l'eccezione di inadempimento sarà illegittima, trattandosi di opposizione ad una condotta posta in violazione dell'art. 2103 c.c. (o dell'art. 52 d.lgs. 165/2001 per il pubblico impiego).

Al contrario, allorché il rifiuto della prestazione si ponga ex post, dopo un apprezzabile periodo di effettivo svolgimento dei compiti professionalmente svilenti che abbiano causato anche un pregiudizio rilevante sul piano psico-fisico (nella forma, ad esempio dello straining inteso quale stress forzato) (4), allora ci troveremo dinanzi ad una forma di legittima autotutela, attuata quale reazione ad una condotta datoriale illecita ai sensi dell'art. 2087 c.c.

L'orientamento giurisprudenziale teso alla verifica “case by case” della buona fede e correttezza contrattuale

Secondo un differente orientamento giurisprudenziale tuttavia, anche in caso di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi previsti dall'art. 2087 c.c., la condotta inadempiente del dipendente dovrà essere valutata alla luce del principio di buona fede e correttezza contrattuale ex art. 1175 e 1375 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 29 marzo 2019, n. 8911)

In questa ipotesi, infatti, si deve operare una comparazione tra le rispettive condotte inadempienti, atteso il consolidato e generale principio di diritto secondo cui nei contratti a prestazioni corrispettive –tra i quali rientra il contratto di lavoro- qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l'inadempimento dell'altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, considerando non tanto il mero elemento cronologico quanto i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico-sociale del contratto.

Il tutto alla luce dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c. nonché ai sensi dello stesso art. 1460 c.c., affinché l'eccezione di inadempimento sia conforme a buona fede e non pretestuosamente strumentale all'intento di sottrarsi alle proprie obbligazioni contrattuali (Cass. civ., sez. lav., 29 marzo 2019, n. 8911, cit.; conf. Cass. 4 novembre 2003, n. 16530; Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 16 maggio 2006, n. 11430; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2729).

Violazione dell'art. 2087 c.c. ed eccezione di inadempimento: la giurisprudenza di merito

Nel caso di una lavoratrice vittima di un grave demansionamento (oltre ad una pluralità di altre condotte vessatorie), la quale si era rifiutata di tornare a lavoro al termine di un periodo di malattia venendo così licenziata per insubordinazione ed assenza ingiustificata, la Corte d'Appello di Torino, 2 agosto 2010, n. 666, rel. Sanlorenzo, ha confermato la nullità del recesso considerando come la condotta della datrice avesse la potenzialità di “ledere non solo il diritto della lavoratrice a svolgere mansioni adeguate ma anche, soprattutto, a compromettere la sua salute e lo svolgimento di una serena maternità, diritto questo garantito dalla nostra Carta Costituzionale”.

Su questo presupposto dunque, che afferisce alla tutela del diritto fondamentale all'integrità psico-fisica del lavoratore e della lavoratrice protetto dall'art. 2087 c.c. (e 32 Cost.), e non su quello dell'art. 2103 c.c., “deve trovare giustificazione il rifiuto della signora C.A. a riprendere l'attività al termine del periodo di malattia”.

Ancora, un'altra pronuncia della Corte d'Appello di Torino, 19 febbraio 2013(5),partendo dalla necessità di una lettura complessiva e non atomizzata dei comportamenti datoriali, ha ritenuto collegati dal fil rouge della discriminazione di genere una pluralità di atti, costituiti da un trasferimento e da una serie di sanzioni disciplinari culminate in un licenziamento per giusta causa.

In questo caso, il collegio ha ritenuto il dato unificante della discriminazione come idoneo a giustificare ai sensi dell'art. 1460 c.c. il relativo rifiuto della lavoratrice -colpita da discriminazione- di riprendere l'attività lavorativa, considerato che la norma codicistica autorizza una delle parti del contratto a rifiutare l'adempimento se l'altro, a sua volta, non adempie: nello specifico l'inadempimento datoriale, concretizzatosi in un trasferimento illegittimo perché sostanzialmente ingiustificato e discriminatorio, ha autorizzato la lavoratrice ad astenersi dalla ripresa del lavoro.

Ciò ha portato il Giudicante a dichiarare nullo il licenziamento, perché è venuto a completare una serie di azioni discriminatorie poste in essere nei confronti della lavoratrice. Ne deriva che “il comportamento datoriale…..non può non risultare chiaramente discriminatorio nel suo complesso nei confronti della dipendente, sì che discriminatorio – oltre che illegittimo- risulta il provvedimento espulsivo finale, fondato su una giusta causa insussistente che si intende far discendere dalla pregressa discriminazione(App. Torino, 19 febbraio 2013, cit.).

In definitiva, dal raffronto della giurisprudenza di merito e di legittimità testé citata è possibile enucleare il principio di diritto secondo cui nell'ipotesi di condotte lavorative vessatorie, moleste o discriminatorie che comportino l'inadempimento datoriale del precetto di cui all'art. 2087 c.c. o della legislazione antidiscriminatoria, con lesione in particolare del diritto fondamentale all'integrità psico-fisica protetto dall'art. 32 Cost., la vittima potrà eccepire ai sensi dell'art. 1460 c.c. l'inadempimento della prestazione lavorativa fino alla cessazione delle condotte, fermo restando il diritto al percepimento della retribuzione anche durante il periodo di interruzione della prestazione.

L'eccezione “qualificata” di inadempimento in materia di molestie e discriminazioni di genere: l'art. 26 comma 3 d.lgs. 198/2006

Un'ipotesi “qualificata” (o speciale) di eccezione di inadempimento è prevista dalla recente normativa antidiscriminatoria di genere, che con l'art. 26 comma 3 d.lgs. 198/2006 ha legittimato il rifiuto tout court del lavoratore o della lavoratrice rispetto alle condotte moleste e/o discriminatorie di cui all'art. 26 comma 1, 2 e 2-bis d.lgs. 198/2006, sanzionando con la nullità tutti gli atti, i patti o i provvedimenti datoriali adottati in conseguenza di tale rifiuto (6): ne deriva che la vittima di molestie o discriminazioni di genere o sessuali potrà legittimamente rifiutare la prestazione lavorativa fino alla cessazione delle suddette condotte, fermo restando il diritto al percepimento della retribuzione anche durante il periodo di interruzione della prestazione, senza che in questo caso possano nemmeno venire in rilievo i limiti relativi alla buona fede e correttezza contrattuale che abbiamo poc'anzi esaminato nella giurisprudenza relativa all'analoga previsione dell'art. 1460 c.c.

Gli eventuali provvedimenti datoriali adottati in conseguenza del rifiuto della vittima (quali, ad esempio, il licenziamento disciplinare per insubordinazione e/o assenza ingiustificata), devono quindi considerarsi radicalmente nulli ai sensi e per gli effetti proprio dell'art. 26 comma 3 d.lgs. 198/2006 secondo il cui disposto “Gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di cui ai commi 1, 2 e 2-bis sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi.

Sono considerati, altresì, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne”.

La fattispecie normativa descrive un evidente meccanismo ritorsivo (7): il datore di lavoro, autore di molestie (che di per sé equivalgono alla discriminazione, ai sensi dell'art. 26, commi 1 e 2 d.lgs. 198/2006) reagisce al rifiuto della lavoratrice di subire le molestie (o all'azione di questi volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento) adottando un provvedimento, ad esempio di trasferimento o di licenziamento, che comporta per il destinatario un trattamento meno favorevole o addirittura sfavorevole.

Ne consegue che, “una volta dimostrato…che sono state poste in essere molestie e che il provvedimento datoriale è stato adottato in conseguenza del rifiuto o della reazione del dipendente alle molestie medesime, non può aver rilievo alcuno l'esistenza, pure eventualmente dimostrata, di una giusta causa o di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, proprio perché la nullità deriva dalla previsione di legge che non richiede ulteriori elementi e, tanto meno, che la ritorsione di fatto attuata costituisca motivo unico e determinante dell'agire datoriale” (Ponterio, Licenziamenti discriminatori e molestie, cit., p. 228).

Note

(1) Altri strumenti di autotutela apprestati in via civilistica dall'ordinamento giuridico a favore della lavoratrice e del lavoratore possono considerarsi: 1) le dimissioni per giusta causa, ex art. 2119 c.c.; 2) l'allontanamento spontaneo dal posto di lavoro disciplinato dall'art. 44 d.lgs. 81/2008; 3) lo stato di necessità ex art. 2045 c.c. e la legittima difesa ex art. 2044 c.c., quest'ultima riconosciuta da Cass. civ., sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403, che ha confermato l'annullamento della sanzione disciplinare nei confronti di una dipendente la quale, aggredita dal suo superiore con un pugno, si era difesa scagliando il telefono addosso al proprio capoufficio, causandogli lesioni personali lievi: in questo caso, in conformità con il parallelo giudizio penale che aveva assolto la lavoratrice per la scriminante dell'art. 52 c.p., il giudice civile ha ritenuto irrilevante il fatto sul piano disciplinare, in ragione proprio della legittima difesa esplicata dalla lavoratrice.

(2) Pronunce reperibili in Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma, Ediesse, 2012.

(3) Per uno sguardo d'insieme ai molteplici fenomeni di violenza sul lavoro, si rimanda al contributo su questa stessa rivista di Tambasco, Mobbing, bossing, demansionamento e atti persecutori nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, Il Giuslavorista, 19 aprile 2022, https://ilgiuslavorista.it/articoli/giurisprudenza-commentata/mobbing-bossing-demansionamento-e-atti-persecutori-nella-recente.

(4) Sullo straining quale stress forzato sul posto di lavoro derivante da incuria e disinteresse per il benessere lavorativo del dipendente e lesivo della sua integrità psico-fisica, cfr. ex plurimis, Cass., 23 maggio 2022, n. 16580; Cass., 29 marzo 2018, n. 7844, cit.; Cass., 4 ottobre 2019, n. 24883; Trib. Milano, 23 aprile 2019, n. 1047; si veda anche Tambasco, La nuova vita dello straining: dal mobbing attenuato allo stress forzato, Labor, 29 maggio 2022.

(5) Pronuncia citata nel contributo di Tarquini, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Milano, 2015, p. 151-157.

(6) Oltre al rifiuto, la norma prevede anche la sottomissione. In questa seconda ipotesi la disposizione mira a disincentivare quella speciale forma di molestia sessuale che è definita a livello internazionale come “quid pro quo”, ovverosia “a job benefit – a pay rise, promotion or even continuing employment – depends on participating in some form of conduct of a sexual nature”, ILO, Background paper for discussion at the Meeting of Experts on Violence against Women and Men in the World of Work, Ginevra, 2016, p. 4.

(7) Si riprendono le considerazioni di Ponterio, Licenziamenti discriminatori e molestie, in AA.VV., Eguaglianza e divieti di discriminazione nell'era del diritto derogabile, Roma, 2017, p. 225 e ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario