Maltrattamenti commessi "in presenza" o "in danno" di un minore
10 Ottobre 2022
Massima
Le dichiarazioni della persona offesa - cui non si applicano le regole dettate dall'art. 192, comma 3 c.p.p. - costituita parte civile, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata.
Non è irragionevole che il Legislatore abbia considerato, nella medesima disposizione (art. 572 comma 2 c.p.), i fatti di maltrattamento commessi "in presenza" o "in danno" di un minore in quanto sono espressione della medesima ratio: la tutela dell'integrità del minore, nelle sue componenti di integrità psichica in un caso, che può essere compromessa quando il minore è spettatore di episodi di violenza in ambito familiare, e di integrità fisica, quando il minore è egli stesso vittima di violenza. Il caso
Con sentenza del 16 marzo 2021 la Corte di Appello di Roma confermava la decisione emessa dal G.u.p. del Tribunale di Rieti all'esito del giudizio abbreviato, la quale, esclusa la recidiva e la circostanza aggravante ex art. 61 n. 11-quinquies c.p. e riconosciuta la continuazione, aveva condannato l'imputato per i delitti previsti dagli artt. 572, commi 1 e 2 c.p. (Maltrattamenti contro familiari o conviventi - capo A), 582, 585, 576, 577 c.p. (Lesioni personali aggravate - capo B) e 609-bis, 609-ter, comma 1, n. 5-quater c.p. (violenza sessuale aggravata - capo D), commessi in danno della convivente, nonché degli artt. 582, 585, 576, 577 c.p. (Lesioni personali aggravate - capo C) commesso in danno del figlio minore.
Avverso questa Sentenza l'imputato proponeva ricorso per cassazione adducendo quattro motivi.
In particolare, per quello che in questa sede interessa, con un primo gruppo di censure, il difensore assumeva che, in riferimento alle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa, la Corte di merito non aveva fatto corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 41461/2012, secondo cui, in riferimento alle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa che sia costituita parte civile, si richiede la sussistenza di riscontri; sollevava, poi, questione di legittimità costituzionale dell'art. 572, comma 2 c.p. per contrasto con i principi di ragionevolezza e di uguaglianza ex art. 3 Cost., per avere il legislatore operato una ingiustificata parificazione sanzionatoria tra due ipotesi ben distinte: la commissione di un delitto "in presenza" di un minore e la commissione di un delitto "in danno" di un minore.
La Suprema Corte con la sentenza di cui si tratta, ha rigettato il ricorso. La questione
Le questioni prese in esame sono le seguenti: la valutazione di attendibilità della persona offesa in assenza di riscontri e se per la determinazione del trattamento sanzionatorio vi è differenza tra il delitto commesso in presenza o in danno di un minore. Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento ha dichiarato infondato il ricorso offrendo la seguente interpretazione.
In merito alla valutazione di attendibilità della persona offesa in assenza di riscontri, la Suprema Corte ha ricordato l'ormai consolidato orientamento espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite Bell'Arte n. 41461 del 19/7/2012, secondo il quale le regole dettate dall'art. 192, comma 3 c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto che, peraltro, deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone; può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell'imputato. Peraltro, imporre un vaglio rinforzato dell'attendibilità del testimone portatore di un astratto interesse a rilasciare dichiarazioni etero accusatorie, non significa certo negare l'autonomo valore probatorio delle stesse, ciò contraddirebbe il principio, parimenti enunciato dalle Sezioni Unite, secondo cui le dichiarazioni della persona offesa sono sottratte dall'applicazione della disciplina prevista dall'art. 192, comma 3, c.p.p. Pertanto, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Cass. pen., sez. V, n. 21135/2019), posto che la loro funzione è sostanzialmente quella di asseverare esclusivamente ed in via generale la sua credibilità soggettiva.
Nel caso di specie, i giudici di merito, avevano indicato una serie di elementi, quali la documentazione medica in atti, l'annotazione di p.g., le riprese fotografiche, le dichiarazioni rese dalla madre e avevano ritenuto l'attendibilità della persona offesa, evidenziando come le sue dichiarazioni, già prive di profili interni di incongruità, contraddizione o inverosimiglianza, fossero sempre state coerentemente riportate nelle molteplici occasioni dichiarative, durante le quali la donna non aveva mai manifesto alcun moto di animosità o risentimento nei confronti del compagno, del quale, anzi, aveva anche riconosciuto alcune qualità personali, come l'affettuoso e amorevole attaccamento al figlio più piccolo. Su queste basi, la Corte di merito aveva correttamente ritenuto che l'imputato, per anni e senza apprezzabile soluzione di continuità, avesse consapevolmente sottoposto la compagna ad una serie crescente di vessazioni, umiliazioni, insulti, aggressioni, intimidazioni, percosse e sulla base dell'ampio e analitico racconto riferito dalla persona offesa, aveva ritenuto che non si trattò di isolati, sporadici e contigui episodi, bensì di una prolungata e unitaria sequenza di violenze, fisiche e morali, perpetrate dall'imputato nei confronti della compagna.
La Corte di Cassazione, poi, ha ritenuto manifestamente infondata, nel caso di specie, la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa dell'imputato il quale era stato condannato per il delitto di cui al capo A) ai sensi dell'art. 572, comma 2 c.p. per essere stato commesso alla presenza del figlio minore. Sul punto, il difensore espone che, fino al D.L. n. 93 del 1993 l'art. 572 c.p. prevedeva al comma 2, che, in caso di commissione del reato in danno di un minore di anni quattordici, la pena era aumentata; contestualmente, tale decreto aveva introdotto, all'art. 61 c.p., il n. 11 quinquies, che, nell'originaria versione, aggravava una serie di delitti, tra cui quello di cui all'art. 572 c.p. se commesso in danno o in presenza di un minore. A seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 69 del 2019 (cd. "Codice Rosso"), da una parte è stato espunto il riferimento all'art. 572 c.p. dall'aggravante ex art. 61, n. 11-quinquies c.p., e dall'altra è stato modificato il comma 2 dell'art. 572 c.p. che ora prevede l'aumento di pena fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di un minore. Considerato ciò, ad avviso del difensore, il Legislatore avrebbe operato una ingiustificata parificazione sanzionatoria tra due ipotesi ben distinte, la commissione di un delitto "in presenza" di un minore e la commissione di un delitto "in danno" di un minore violando, così, i principi di eguaglianza e di ragionevolezza.
La Suprema Corte ha ritenuto di non ravvisare alcun profilo di manifesta irragionevolezza, laddove il legislatore ha accomunato i fatti di maltrattamento commessi "in presenza" e "in danno" del minore, in quanto il fatto commesso in presenza di un minore, soggetto "debole" per definizione, non è certamente privo di un significato offensivo nei confronti del minore medesimo, la cui integrità psichica, nel breve e/o nel lungo periodo, può essere seriamente compromessa dalla diretta percezione di gravi episodi di violenza commessi in ambito familiare. La ratio dell'aggravante prevista dal comma 2 dell'art. 572 c.p. si correla, infatti, all'esigenza di elevare la soglia di protezione di soggetti che risultino più sensibili ai riflessi dell'altrui azione aggressiva, specie se commessa da un genitore in danno dell'altro, e possano così rimanerne vulnerati. Alla luce di ciò, quindi, non è illogico che nella medesima disposizione, i fatti di maltrattamento commessi "in presenza" o "in danno" di un minore siano parificati, in quanto entrambe le ipotesi sono volte a tutelare l'integrità del minore, nelle sue componenti di integrità psichica in un caso, che può essere compromessa quando il minore è spettatore di episodi di violenza in ambito familiare, e di integrità fisica nell'altro, quando il minore è egli stesso vittima di violenza. Osservazioni
Con detta sentenza, la Suprema Corte ha preso in esame molteplici argomenti ponendo l'attenzione soprattutto sull'attendibilità delle dichiarazioni offerte dalla persona offesa e sulla tutela offerta ad essa, specialmente se soggetto vulnerabile, in specie minore di età (vulnerabile tipico: artt. 351, comma 1-ter, e 392, comma 1-bis, c.p.p.; o vulnerabile atipico: art. 90-quater c.p.p).
La legge offre particolare protezione a quelle vittime “vulnerabili” che godono di una speciale disciplina in materia di assunzione della prova dichiarativa, che parte dalla fase delle indagini con la raccolta delle dichiarazioni, da parte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, con la mediazione di un psicologo o di uno psichiatra infantile, garantendo l'esclusione di contatti con la persona sottoposta ad indagini e il divieto di chiamarle più volte a rendere sommarie informazioni, salva l'assoluta necessità per le indagini (artt. 351, comma 1-ter, e 362 c.p.p.), con la specifica previsione dell'incidente probatorio (art. 392, comma 1-bis c.p.p.) e con le limitazioni alla rinnovazione in sede dibattimentale della testimonianza sugli stessi fatti (art. 190-bis, comma 1-bis c.p.p.).
La tutela della persona offesa, tra le altre, trova espressione anche nella valutazione della prova dichiarativa. La sua deposizione, infatti, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, quando venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l'accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi. Sul punto, la Suprema Corte ha più volte ribadito che “le regole dettate dall'art. 192, comma 3 c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto che, peraltro, deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Cass. pen., sez. un., n. 41461/2012).
Al tempo della riforma del codice di procedura penale si era posto il problema della incompatibilità della persona offesa costituita parte civile ad assumere l'ufficio di testimone, in quanto portatore nel processo di un interesse personale, ma tale incompatibilità venne esclusa, poiché la rinuncia al contributo probatorio della parte civile fu ritenuta «un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità processuale» (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale). In tal senso, la Corte costituzionale ha ribadito «la preminenza dell'interesse pubblico all'accertamento dei reati”, pur affermando – pensiero condiviso anche dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione - che “la deposizione della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile, deve essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento e spirito critico» (C. cost. n. 115/1992).
Occorre, inoltre, tenere presente che costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione che l'attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo "id quod plerumque accidit", ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (Cass. pen., sez. IV, n. 10153/2020; Cass. pen., sez. VI, n. 27322/2008; Cass. pen., sez. III, n. 8382/2008; Cass. pen., sez. VI, n. 443/2004; Cass. pen., sez. III, n. 3348/2003; Cass. pen., sez. III, n. 22848/2003).
Con riferimento al minore di età, la sentenza in commento prende in considerazione una particolare norma, contestata nel caso di specie, quella del comma 2 dell'art. 572 c.p. che ora (a seguito della novella legislativa l. n. 69 del 2019, cd. "Codice Rosso") prevede l'aumento di pena fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di un minore.
Correttamente, si deve ritenere, la sentenza in commento ha affermato che parificare dal punto di vista sanzionatorio i fatti di maltrattamento commessi "in presenza" e "in danno" del minore non sia contrario ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza. Per quanto riguarda il minore, infatti, si deve sempre partire dal presupposto che esso è soggetto debole e vulnerabile e come tale necessita di una particolare tutela, motivo per il quale la Corte ha ritenuto che non sussista alcuna differenza tra il minore che subisce un reato e il minore che assiste alla commissione di un reato, soprattutto in ambito familiare. La finalità principale è quella di salvaguardare l'integrità fisio-psichica del minore nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria personalità; il minore, infatti, può venire a trovarsi facilmente in condizione di particolare fragilità in quanto è altamente probabile che determinate azioni possono essere pregiudizievoli per la sua salute fisica o psicologica. Tutti i comportamenti lesivi dell'incolumità fisica e della serenità psichica del minore devono essere puniti in quanto questo ha il diritto ad una equilibrata evoluzione psichica.
Del resto, la giurisprudenza anteriore alla modifica normativa aveva già sviluppato, con riferimento al reato di cui all'art. 572 c.p., il concetto di “violenza assistita”. Infatti, era stato affermato che integra il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli, la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi (Cass. pen., sez. V, n. 41142/2010 - Nella fattispecie sono state valutate le ricadute del comportamento del genitore sui minori, i quali avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria madre e, quindi, assistevano agli atti vessatori del padre, ivi comprese le minacce di morte indirizzate alla madre). Nello stesso senso, si era ritenuto che il delitto di cui all'art. 572 c.p. è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori o gli atti di violenza fisica non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all'interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l'abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi, trattandosi di condotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest'ultimo (Cass. pen., sez. VI, n. 18833/2018; Cass. pen., sez. V, n. 32368/2018; Cass. pen., sez. V, n. 41142/2010). È stato affermato, inoltre, che integrano il reato di maltrattamenti in danno dei figli minori, anche condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell'altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali comportamenti, in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole (Cass. pen., sez. VI, n. 4332/2014).
La giurisprudenza, inoltre, precedentemente aveva affermato che il delitto previsto dall'art.572 c.p. si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche mediante omissioni; ad esempio, "trattare" un figlio da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all'art. 147 c.c. che impone l'obbligo di "mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli "e, per converso, "maltrattare" vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale, né morale di risolvere da solo (Cass. pen., sez. VI, n. 4904/1996).
È evidente che il bene giuridico tutelato dalla norma consiste nella salvaguardia di un sereno sviluppo psichico di soggetti di età minore e l'oggettività giuridica non muta se il minore, invece che destinatario diretto dei maltrattamenti, sia turbato dal trauma che può derivare dall'assistere ad atti di maltrattamento in famiglia.
Originariamente, per ciò che concerne il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, il soggetto minore di età era tutelato anche dall'art. 61, n. 11-quinquies c.p. (introdotto dal d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119) che prevedeva una circostanza aggravante nel caso in cui, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale e contro la libertà personale, nonché nel delitto di cui all'articolo 572 c.p. il fatto veniva commesso in presenza o in danno di un minore di anni diciotto.
Nel vigore di tale circostanza aggravante, la giurisprudenza aveva elaborato una serie di principi di utile applicazione anche con riferimento all'attuale testo dell'art. 572 c.p. In particolare, la giurisprudenza aveva precisato che, ai fini della sua configurabilità, non è necessario che il minore, esposto alla percezione della condotta illecita, abbia la maturità psico-fisica necessaria per comprendere la portata offensiva o lesiva degli atti commessi in sua presenza (Cass. pen., sez. III, n. 18097/2019).
Occorre anche tenere presente che in assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente "more uxorio" con l'agente a condizione che quest'ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione. Pertanto, la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costituito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di reciproco rispetto (Cass. pen., sez. VI, n. 25498/2017).
Ma, poiché, nella vigenza dell'aggravante dell'art. 572 prevista dall'art. 61, comma 11-quinques c.p., la giurisprudenza aveva equiparato i maltrattamenti in presenza del minore, “sistematico spettatore” di atti di maltrattamento in famiglia, ai maltrattamenti in danno del minore, si comprende il significato del seguente principio di diritto: il reato aggravato dalla circostanza dell'essere stato commesso alla presenza di un minore, si differenzia dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minore, vittima di violenza cd. assistita, perché, ai soli fini della configurabilità dell'aggravante, non è necessario che gli atti di sopraffazione posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato (Cass. pen., sez. VI, n. 8323/2021 - In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non esservi incompatibilità tra l'assoluzione dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minori e la riconosciuta sussistenza del reato di maltrattamenti in danno della loro madre e della loro nonna, aggravato, ai sensi dell'art. 61, n. 11-quinquies c.p., dall'avere essi sporadicamente assistito alle condotte prevaricatrici; nello stesso senso Cass. pen., sez VI, n. 2003/2018).
Tale circostanza, come detto, ora è espressamente prevista nel comma 2 dell'art. 572 c.p. che è stato aggiunto dall'art. 9, comma 2 lett. b) della l. n. 69/2019, abrogando, quindi la previsione di cui all'art. 61, comma 11-quinques, c.p., il quale stabilisce un aumento di pena fino alla metà se il fatto viene commesso in presenza o in danno di una persona minore. Ad ulteriore tutela dei soggetti minorenni, vi è il comma 4, inserito dall'art. 9, comma 2 lett. c) della suddetta legge, il quale stabilisce che il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti si considera persona offesa dal reato, con conseguente applicazione di tutte le norme sulla partecipazione della persona offesa alle vicende processuali. L'inserimento dell'aggravante di cui si parla all'interno dell'art. 572 c.p. e l'attribuzione della qualifica di persona offesa al minore che “assiste” ai maltrattamenti potrebbe, da una parte, far dubitare della perdurante applicabilità del principio di cui alla citata sentenza n. 8323 del 2021, dovendosi ritenere che l'applicabilità dell'aggravante in danno o in presenza del minore comporti sempre la integrazione della fattispecie di cui all'art. 572 c.p., confermandosi, in tal modo, la razionale equiparazione del reato commesso in presenza del minore al reato commesso ai danni dello stesso; dall'altra, potrebbe far ritenere che tale qualifica, estesa appunto al minore “in presenza”, si sia resa necessaria poiché l'aggravante si applica anche in caso di sporadica assistenza alle condotte prevaricatrici. Allo stato non risulta che la giurisprudenza si sia pronunciata su queste alternative interpretazioni. Riferimenti
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