Atti in frode ai creditori e dovere di una compiuta disclosure: alcune riflessioni

11 Ottobre 2022

La sentenza si pone nel solco della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, rientrano tra gli atti di frode rilevanti ai fini della revoca dell'ammissione alla procedura di concordato preventivo i fatti taciuti nella loro materialità o esposti in maniera non adeguata, aventi valenza anche solo potenzialmente decettiva verso i creditori, a prescindere dal concreto pregiudizio arrecato. È legittimo chiedersi se sia, questo, un insegnamento ancora attuale alla luce del CCI.
Massima

In tema di concordato preventivo, costituiscono fatti idonei a consentire la revoca prevista dall'art. 173 l. fall. i fatti accertati dal commissario giudiziale; in tale categoria rientrano non solo quelli scoperti, perché prima del tutto ignoti nella loro materialità, ma anche quelli non adeguatamente e compiutamente esposti dal debitore nella proposta concordataria e nei suoi allegati, che siano potenzialmente idonei a pregiudicare il c.d. consenso informato sulle reali prospettive di soddisfacimento, per come rappresentate nella proposta concordataria, dovendo il Giudice verificare, quale garante della regolarità della procedura, che siano forniti ai creditori tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della sua convenienza.

Il caso

La società Alfa depositava domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, nella quale - per quanto qui interessa - dava atto che quattro anni prima il socio di minoranza aveva venduto la propria partecipazione a una newco facente capo al socio di maggioranza e che, successivamente, la newco e la società partecipata avevano dato corso a una “fusione inversa”, da cui era nata la società Alfa proponente la domanda di concordato.

Aperta la procedura, i Commissari giudiziali scoprivano che, in realtà, l'operazione da cui era nata la società Alfa non era una fusione inversa, bensì una fusione con indebitamento (c.d. leverage buyout), per effetto della quale il debito all'uopo contratto dalla newco era stato trasferito in capo alla società Alfa e, quindi, ristrutturato in un mutuo a lungo termine garantito da ipoteca sul patrimonio della stessa Alfa, con la conseguenza che i creditori concordatari si trovavano a concorrere con il credito - non più chirografario, ma privilegiato - della banca finanziatrice.

Sulla scorta di questi rilievi, il Tribunale revocava l'ammissione di Alfa al concordato preventivo per frode ai creditori ex art. 173 l. fall. e dichiarava aperta la procedura di amministrazione straordinaria.

Ne seguiva un contenzioso tra la società Alfa e la procedura di amministrazione straordinaria, che nelle fasi di merito - svoltesi davanti al Tribunale e alla Corte d'appello di Milano - vedeva accolte le tesi della società; in particolare, la Corte d'appello statuiva, per un verso, che le indicazioni fornite dalla debitrice, benché sintetiche, consentivano ai creditori di conoscere sia dell'avvenuta acquisizione delle quote attraverso una società veicolo, sia dell'esistenza del finanziamento funzionale all'operazione (era infatti allegata al ricorso la copia del contratto di mutuo ipotecario in cui era stato consolidato detto finanziamento), sia della natura dell'operazione di fusione quale leverage buyout e, per altro verso, che l'operazione risaliva a quattro anni prima, era assolutamente sostenibile e non aveva inciso sul futuro dissesto della società, sì che era “arduo concludere che la stringatezza nella descrizione fosse scientemente volta ad occultare ai creditori elementi significativi per la formazione del loro consenso … mancava la valenza decettiva della scarsa informazione”.

La sentenza d'appello veniva impugnata davanti alla Corte di cassazione dai commissari della procedura di amministrazione straordinaria, i quali denunciavano un malgoverno dei princìpi affermati in tema di revoca dell'ammissione al concordato preventivo per atti di frode ai sensi dell'art. 173 l. fall.

La questione

Il caso sottoposto alla Suprema Corte solleva alcune questioni (note) in tema di revoca dell'ammissione alla procedura di concordato preventivo per atti in frode ai creditori, le quali possono essere sintetizzate nei seguenti quesiti: quale deve essere il grado di completezza dell'informativa data dal debitore ai creditori in sede di proposta di concordato? L'omessa o insufficiente informazione è qualificabile come atto in frode solo se è tale da pregiudicare in concreto i creditori o è sufficiente che sia solo potenzialmente idonea a trarli in inganno, condizionandone il voto, a prescindere da un danno? Occorre la dolosa preordinazione della condotta del debitore all'inganno o è sufficiente la semplice consapevolezza e volontarietà della condotta non trasparente ed esaustiva?

La soluzione data dalla sentenza in commento

Le risposte della Corte a questi quesiti sono chiare e nette:

1) il debitore ha l'obbligo di fornire una disclosure completa ed effettiva su tutti i fattori relativi alle condizioni dell'impresa e alla convenienza della proposta, in funzione di una compiuta informativa del ceto creditorio;

2) integra un atto di frode l'omessa o insufficiente informazione circa fatti o atti rilevanti quando abbia valenza anche solo potenzialmente decettiva, a prescindere quindi dal pregiudizio arrecato o meno in concreto ai creditori;

3) non occorre la volontaria preordinazione della condotta al conseguimento dell'effetto decettivo, ma è sufficiente la consapevolezza di aver taciuto o di aver fornito un'informazione incompleta.

Si tratta di risposte in perfetta linea con l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale gli atti di frode costituiscono una categoria aperta, nella quale possono rientrare tutti i fatti o gli atti la cui esistenza è non solo taciuta o mistificata dal proponente la domanda di concordato, ma anche da costui semplicemente rappresentata in modo inadeguato o incompleto, sì che il conseguente deficit informativosia idoneo a falsare il corretto sviluppo della procedura, alterando il quadro sulla base del quale i creditori formano il proprio convincimento ed esprimono il proprio voto.

In altri termini - precisa la Corte nella sentenza in commento - l'istituto della revoca dell'ammissione alla procedura di concordato preventivo per atti di frode di cui all'art. 173 l. fall. è “volto a neutralizzare il valore decettivo delle omissioni, alterazioni, incompletezze o inadeguatezze delle informazioni fornite ai creditori con la proposta di concordato, da valutare al momento del deposito della domanda (a prescindere da eventuali ‘ravvedimenti postumi' del debitore che si trasfondano in modifiche della proposta …), che quindi copre non solo l'area delle condotte volte propriamente ad occultare circostanze inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate nella loro sussistenza, ma anche - … - quelle dirette a non farle percepire nella loro completezza ed integrale rilevanza, rispetto ad una rappresentazione esistente, ma del tutto inadeguata.

La ratio sottesa è che dal combinato disposto della .l. Fall., artt. 161 e 173 emerge l'obbligo per il debitore di una effettiva disclosure su tutti i fattori relativi alle condizioni dell'impresa e alla convenienza della proposta, proprio in funzione informativa del ceto creditorio”.

Osservazioni

La sentenza in commento non pone questioni nuove, ma offre l'occasione per chiedersi se l'insegnamento giurisprudenziale che essa reitera sia in tutto condivisibile ovvero se non sia opportuno un ripensamento, anche nella prospettiva dell'applicazione del medesimo istituto nelle future procedure di concordato preventivo, regolate dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza entrato in vigore il 15 luglio 2022 (l'art. 106 CCII, infatti, è sostanzialmente analogo nel suo contenuto all'art. 173 l. fall., sì che non si può escludere che la giurisprudenza continuerà ad affermare sic et simpliciter i medesimi princìpi consolidati sotto il regime della vecchia legge fallimentare).

Com'è noto, prima delle riforme susseguitesi nei primi anni 2000, il concordato preventivo era considerato uno strumento premiale a disposizione dell'imprenditore insolvente “onesto ma sfortunato”, onde sottrarlo al fallimento, con effetti esdebitatori; la procedura si svolgeva sotto l'ampio e penetrante controllo - di legittimità e di merito - del Tribunale, il quale poteva negarvi l'accesso ogni qualvolta avesse riscontrato la mancanza di una delle condizioni di ammissibilità ovvero l'assenza di meritevolezza in capo al debitore o, ancora, a séguito di un giudizio negativo sulla convenienza della proposta rispetto all'alternativa della liquidazione fallimentare, nonostante l'approvazione da parte dei creditori concorsuali.

Con le sopra ricordate riforme viene invece accentuata la natura contrattuale e privatistica del concordato e, di riflesso, limitata l'area di intervento dell'Autorità giudiziaria, ora chiamata - secondo la lettura del nuovo quadro normativo offerta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. Unite, 23 gennaio 2013, n. 1521) - solo a “garantire che il procedimento si svolga nel rispetto delle regole, che la proposta sia idonea a realizzare in concreto la causa del procedimento, ad accertare la fattibilità giuridica della proposta ed infine a verificare l'effettiva idoneità della procedura a realizzare la causa in concreto”, senza più poter valutare né la “meritevolezza” del debitore, né la convenienza della proposta.

Ora, in questa luce, l'orientamento di cui si è sopra dato conto e nel cui solco si colloca anche la sentenza in commento tradisce - a parere di chi scrive - una certa riluttanza della giurisprudenza ad accettare il ridimensionamento del proprio ruolo imposto dalle riforme. In particolare, ciò appare evidente, laddove la Corte afferma che integra un atto di frode, capace di provocare la revoca dell'ammissione alla procedura di concordato e la dichiarazione di fallimento, ogni informativa contenuta nella proposta, che sia potenzialmente decettiva per i creditori, anche se poi, a séguito della scoperta da parte del Commissario giudiziale e della ricostruzione della reale situazione compiuta nella relazione ex art. 172 l. fall., il debitore abbia offerto una disclosure completa ed esaustiva (la Corte parla di “ravvedimenti postumi”), eventualmente seguita da una modifica della proposta e, dal canto loro, i creditori, preso atto dei rilievi del Commissario e valutata la condotta del debitore, abbiano votato comunque a favore della proposta (in questo senso è emblematica la massima di Cass. civ., Sez. I, 07/12/2016, n. 25164: “L'art. 173 L. Fall., nel prevedere la dichiarazione del fallimento nel corso della procedura nell'ipotesi in cui il debitore abbia commesso atti di frode, mira a paralizzare la portata decettiva del suo silenzio e, per questa ragione, non attribuisce alcun rilievo a più o meno sinceri ravvedimenti postumi, in tal modo evitando che la norma rimanga menomata nella sua efficacia”).

In altri termini, si sanziona con la revoca dell'ammissione alla procedura di concordato un'informativa ritenuta inadeguata (si badi: ritenuta inadeguata dal Commissario giudiziale e dal Tribunale, non dal ceto creditorio, che ne è il principale destinatario), in quanto potenzialmente ingannevole, ma a prescindere sia dal fatto che quell'informativa abbia effettivamente tratto in inganno i creditori, condizionandone il voto, sia dal fatto che il debitore abbia successivamente colmato il deficit informativo, rendendo una disclosure completa ed effettiva.

Questo orientamento solleva alcune perplessità.

Innanzitutto, è evidente il tentativo di fare rientrare dalla finestra ciò che il Legislatore delle riforme aveva fatto uscire dalla porta: il giudizio di meritevolezza sul debitore (giudizio, che la stessa Corte di Cassazione ammette essere stato “apertamente ripudiato”: Cass. civ., Sez. I, 23 giugno 2011, n. 13818). A ben vedere, infatti, si sanziona il sospetto di un tentativo di frode ai creditori, anche se il debitore vi ha poi rimediato e anche se i creditori, in concreto, non sono stati tratti in inganno.

Inoltre, è evidente l'attribuzione al Commissario giudiziale di un ruolo di retroguardia, di mero paladino del ceto creditorio contro gli atti di frode del debitore, anziché di un ruolo proattivo per il buon esito della procedura di concordato, quale soggetto chiamato a completare il set informativo a disposizione dei creditori (si veda il contenuto che deve avere la relazione ex art. 172 l. fall.), favorendo - perché no? - possibili “ravvedimenti operosi” del proponente il concordato, il quale potrebbe colmare eventuali deficit informativi e, se del caso, modificare la proposta, il tutto nell'interesse dei creditori.

Infine, e soprattutto, sono evidenti il sostanziale disconoscimento dell'essenza del concordato preventivo (quale soluzione negoziale della crisi d'impresa fondata sull'accordo di natura privatistica tra il debitore e i propri creditori) e la sottovalutazione del ruolo del ceto creditorio, al quale è riservato il sindacato riguardante l'aspetto pratico-economico della proposta di concordato preventivo e la convenienza della stessa (Cass. civ., Sez. I, 8 febbraio 2019, n. 3863).

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, l'informativa inadeguata resa in sede di proposta concordataria o nei suoi allegati è atto di frode sanzionabile con la revoca dell'ammissione alla procedura di concordato “indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza, e, quindi, anche ove questi ultimi siano stati resi edotti di quell'accertamento” (così Cass. civ., Sez. VI - 1, 8 novembre 2017, n. 26429).

In questi termini, per chi scrive l'orientamento della giurisprudenza in esame non è condivisibile.

Né, a convincere del contrario, varrebbe osservare che “quel che … rileva [nella prospettiva dell'art. 173 l. fall.] è il comportamento fraudolento del debitore, non l'effettiva consumazione della frode. Se così non fosse, se cioè l'accertamento degli atti fraudolenti ad opera del commissario potesse essere superato dal voto dei creditori, preventivamente resi edotti della frode e disposti ugualmente ad approvare la proposta concordataria, non si capirebbe perché il legislatore ricollega invece immediatamente alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l'ammissione al concordato.

E ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto dei creditori, ormai resi edotti della realtà della situazione venuta alla luce, e senza dare spazio alcuno a possibili successive loro valutazioni in proposito (…).

In tali situazioni, ove fosse fondata la tesi contraria, sarebbe stato logico che il legislatore avesse previsto ugualmente la possibilità di dar corso alla procedura, almeno sino all'adunanza dei creditori, così da consentire a costoro di esprimere il loro voto alla luce dei fatti scoperti ed illustrati dal commissario giudiziale. Poiché non è così, deve di necessità concludersi che il legislatore ha inteso sbarrare la via del concordato al debitore il quale abbia posto dolosamente in essere gli atti contemplati dal citato art. 173, individuando in essi una ragione di radicale non affidabilità del debitore medesimo e quindi, nel loro accertamento, un ostacolo obiettivo ed insuperabile allo svolgimento ulteriore della procedura” (Cass. civ., Sez. I, 5 maggio 2016, n. 9027).

Seguendo il medesimo modo di ragionare, è infatti agevole replicare che il Legislatore non ha neanche previsto in modo espresso tra gli atti di frode, rilevanti ai sensi e per gli effetti dell'art. 173 l. fall., l'informazione solo potenzialmente decettiva (è la giurisprudenza che annovera questa fattispecie nella “categoria aperta” degli atti di frode), sì che - a rigore - dovrebbe concludersi che il Legislatore non ha inteso sbarrare la via del concordato al debitore, il quale abbia offerto nella proposta un'informativa considerata dal Commissario giudiziale inadeguata, quando ciò, anche grazie alla relazione ex art. 172 l. fall. e/o grazie al successivo ravvedimento del debitore, non ha in concreto ingannato i creditori, i quali, esercitando liberamente e consapevolmente il proprio diritto di voto, hanno deciso di approvare la proposta (valutando quindi come irrilevante la condotta potenzialmente decettiva del debitore).

Conclusioni

Non v'è dubbio che il proponente un concordato preventivo ha l'obbligo di fornire una disclosure completa ed effettiva su tutti i profili rilevanti nella prospettiva della procedura, così da porre i creditori da subito nelle condizioni di valutare appieno la proposta e le prospettive di soddisfacimento dei crediti, e di esprimere il voto in modo informato e consapevole.

Si tratta, del resto, di un principio generale: ogni contraente, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, ha l'obbligo di comportarsi secondo buona fede (art. 1337 c.c.) e, dunque, di fornire alla controparte tutte le informazioni rilevanti affinché questa possa liberamente e consapevolmente determinare la propria volontà negoziale (Cass. civ., Sez. I, 23/3/2016, n. 5762).

Allo stesso modo, non vi è dubbio che l'art. 173 l. fall. è posto a presidio della corretta formazione del consenso dei creditori in ordine alla proposta di concordato, di modo che essi possano esercitare il diritto di voto in modo libero e consapevole, senza che la loro percezione della reale situazione del debitore sia da costui fraudolentemente influenzata.

Ciò che è dubbio, invece, è che il proponente un concordato preventivo, colto in fallo dal Commissario giudiziale per aver fornito un'informativa da costui ritenuta inadeguata, debba per ciò solo incorrere nella sanzione della revoca ex art. 173 l. fall. (ed eventualmente del fallimento) e non possa, invece, utilmente rimediarvi, offrendo una disclosure completa ed effettiva su tutti i profili rilevanti segnalati dal Commissario, così rimettendo ai creditori, in sede di voto, la valutazione non solo sulla convenienza della proposta, ma anche sulla “meritevolezza” della propria condotta complessiva.

A parere di chi scrive, un approccio della giurisprudenza meno repressivo, ma più pragmatico in funzione del buon esito della procedura di concordato nell'interesse del ceto creditorio sarebbe auspicabile. E ciò vale a maggior ragione per il futuro, nel contesto di un sistema, qual è quello disegnato dal Codice della crisi, che, tra i plurimi strumenti approntati per affrontare la crisi d'impresa e l'insolvenza, predilige quelli di tipo negoziale, che consentono di perseguire l'obiettivo della conservazione dei complessi produttivi, e confina la liquidazione giudiziale al rango di soluzione estrema a fronte di una situazione di insolvenza irreversibile, in cui non vi è più nulla da salvare; un sistema che, in questa stessa prospettiva, favorisce il concordato preventivo con continuità aziendale, mentre disincentiva il concordato con liquidazione del patrimonio attraverso l'imposizione di un apporto di risorse esterne che incrementi di almeno il 10% l'attivo disponibile al momento della presentazione della domanda e assicuri il soddisfacimento dei creditori chirografari in misura non inferiore al 20% del loro ammontare complessivo (art. 84 CCII).

È evidente, infatti, che un'applicazione dell'art. 106 CCII analoga a quella che la giurisprudenza ha sinora fatto dell'art. 173 l. fall. condurrebbe a risultati contrari ai principali obiettivi della riforma, la quale ambisce a relegare il fallimento (ora: liquidazione giudiziale) al ruolo di extrema ratio e a favorire, invece, l'adozione degli strumenti (concorsuali o meno) che consentano una precoce e - per quanto possibile - rapida soluzione della crisi, salvando i fattori produttivi ancora efficienti, nella consapevolezza - come si legge nella Relazione illustrativa al D.Lgs. 14/2019 - che “è ormai opinione condivisa, tra gli studiosi e gli operatori del settore, quella che ravvisa in meccanismi di tipo negoziale - primo tra tutti il concordato preventivo - gli strumenti più efficaci, se correttamente adoperati, per risolvere positivamente la crisi d'impresa o per recuperare le potenzialità aziendali tuttora presenti in situazioni di insolvenza non del tutto irreversibile”.

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