Il reato di "caporalato" e lo standard probatorio dell'approfittamento dello stato di bisogno della vittima

12 Ottobre 2022

La sentenza in commento si pone nell'alveo di quell'orientamento che richiede uno standard probatorio molto elevato al fine dell'integrazione dell'approfittamento dello stato di bisogno del reato di cui all'art. 603-bis c.p.
Massime

Lo stato di bisogno non si identifica con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà dì scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.

Non può negarsi che soggiornare in un Centro di accoglienza costituisca una condizione di disagio, trattandosi di alloggiamenti che implicano condizioni di promiscuità dei servizi e l'assenza degli ordinari agi di un'abitazione, cionondimeno ciò non integra di per sé lo stato di bisogno.

Il caso

La Cassazione è chiamata a pronunciarsi sul ricorso di un indagato per il reato di cui all'art. 603-bis c.p., che aveva impugnato l'ordinanza del Tribunale per il riesame di Bari, che aveva sostituto, con il divieto di esercitare uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, la misura dell'obbligo di dimora nel comune di residenza e dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Il difensore dell'indagato ricorreva per Cassazione denunciando il vizio di motivazione dell'ordinanza laddove, fra l'altro, aveva omesso di motivare sul requisito dell'approfittamento dello stato di bisogno delle vittime, richiesto al fine dell'integrazione del reato di cui all'art. 603-bis c.p.

In particolare il ricorrente era indagato in qualità di datore di lavoro, in concorso con B.S., in qualità di reclutatore, per aver assunto o comunque utilizzato manodopera, costituita da decine di lavoratori di provenienza straniera, allo scopo di destinarla alla coltivazione di terreni agricoli nella sua disponibilità, sottoponendo i medesimi lavoratori a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno. Emerge dal provvedimento commentato che le vittime erano braccianti, che vivevano in condizioni igienico-sanitarie pessime, presso l'area dell'ex pista di Borgo Mezzanone, in Provincia di Foggia (si tratta di un'area nella quale sorgeva un centro di accoglienza per richiedenti asilo e dove era sorta una baraccopoli abitata da migliaia di stranieri) e che i medesimi percepivano la retribuzione orarie di euro 5,00 all'ora; che non erano loro stati forniti dispositivi di protezione individuali e che essi non erano stati sottoposti a visita medica.

Dall'intermediazione illecita al reato di “caporalato” e sfruttamento lavorativo

La controversia è di notevole interesse poiché attinge direttamente al dibattuto tema della prova dell'approfittamento dello stato di bisogno della vittima ai fini dell'integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all'art. 603-bis c.p.

Il reato di cui all'art. 603-bis c.p. è stato introdotto dal D.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito poi dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 ed è stato da ultimo modificato dalla legge 29 ottobre 2016, n. 199, in vigore dal 4 novembre 2016. Si tratta evidentemente di uno strumento di tutela rafforzato per i casi più gravi di intermediazione illecita e non solo. L'intermediazione di manodopera è, infatti, un fenomeno che nel corso del novecento ha conosciuto una vivace evoluzione normativa, coeva al cambiamento delle dinamiche del mondo del lavoro.

All'origine, in ossequio al principio del monopolio pubblico del collocamento al lavoro, garanzia di tutela della parte debole del rapporto sin dalla sua costituzione, l'intermediazione illecita era definita l'«affidamento in appalto o subappalto mediante l'impiego di manodopera assunta e retribuita dall'intermediario» ed era punita dagli artt. 1 e 2 L. 1369/1960 con l'ammenda di 10.000 lire per ogni giornata di occupazione. Era il caso di chi assumeva lavoratori e li retribuiva per farli lavorare. Inoltre, era prevista un'ulteriore fattispecie astratta dall'art. 27, L. 264/1949, che puniva con l'ammenda da lire 1 milione a lire 5 milioni per ogni giornata di occupazione il reato di mediazione illecita di manodopera, che era commesso da «chi esercita la mediazione in violazione delle norme sul collocamento della manodopera»: era il caso di chi senza assumere nessuno ricercava manodopera per conto di terzi.

La disciplina rimase invariata per quasi mezzo secolo fino alla nota Sentenza 11 dicembre 1997 n. 55 della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che dichiarò incompatibile con il diritto UE la normativa italiana in materia di avviamento al lavoro. In particolare, il principio del monopolio pubblico del collocamento al lavoro diviene soccombente rispetto divieto di posizione dominante sul mercato comune di cui art. 90 n 1 Trattato CE (ora 106 TFUE), espressione del principio di tutela della concorrenza. Da qui si afferma che anche i privati, non solo lo Stato, possono esercitare il collocamento.

Per la verità già la Legge 24 giugno 1997, n. 196 aveva eliminato il monopolio dell'avviamento al lavoro degli uffici di collocamento, introducendo le agenzie di lavoro interinale, ossia soggetti privati autorizzati intermediare manodopera a tempo determinato e a determinate condizioni, ragion per cui il reato di intermediazione illecita si applicava ancora quando la manodopera veniva fornita da soggetti diversi dalle agenzie interinali (Cass. pen., Sez. III, 15 novembre 2002-14 gennaio 2003, n. 1055). Meramente conseguente è stata l'eliminazione delle «liste di collocamento» (salvo lavoratori dello spettacolo e liste di mobilità di cui alla L. 6 agosto 1990 n 223) ad opera dei decreti legislativi 21 aprile 2000, n. 181 e 19 dicembre 2002, n. 297. Da qui in poi i centri per l'impiego svolgono funzioni limitate ad accertare lo stato di occupazione/disoccupazione dei lavoratori.

La prima disciplina unitaria della materia è introdotta dal D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 cd Legge Biagi:, che abroga la L. n. 1369/1960 e ridisegna la disciplina sull'intermediazione, ora si parla di somministrazione di manodopera, che, come già avveniva, poteva essere esercitata solo dai soggetti contemplati dalla legge, iscritti in apposito albo. A differenza dell'istituto del lavoro interinale, il nuovo contratto di somministrazione può essere anche a tempo indeterminato. Inoltre, la norma differenzia l'ipotesi di intermediazione dal contratto di appalto e dal comando, stabilendo quando i tre istituti sono illeciti e anche penalmente sanzionati.

L'art 18 co. 1 della Legge Biagi punisce con una sanzione amministrativa pari a 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro comunque non inferiore a 5000 euro e non superiore a 50.000 euro l'esercizio non autorizzato dell'attività di somministrazione. Se vi è sfruttamento dei minorenni la sanzione diventa penale dell'arresto fino a 18 mesi e ammenda fino a 300 euro per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di occupazione.

Ancora, la legge differenzia l'appalto lecito, nel quale l'appaltatore esercita il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori in appalto ed assume il rischio di impresa dall'appalto illecito, punito con sanzione amministrativa pari a 50 euro per ogni lavoratore occupato e comunque non inferiore a 5000 euro e non superiore a 50.000 euro (art. 18 co. 5-bis d. lgs.10 settembre 2003, n. 276) e come illecito penale (arresto fino a 18 mesi e ammenda fino a 300 euro per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di occupazione) se vi è sfruttamento di minori.

Alla tutela sanzionatoria è, inoltre, accompagnata la tutela civilistica, posto che dinanzi ad un appalto viziato il lavoratore può richiedere la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell'appaltatore-utilizzatore della prestazione (art. 29, comma 3-bis, D.lgs.10 settembre 2003, n. 276).

Certamente l'apparato sanzionatorio previsto dalla legge è divenuto del tutto residuale dinanzi ai cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro, ragion per cui negli appalti «labour intensive», ossia ad alta intensità di manodopera (si pensi al contratto di appalto del servizio di call center), è divenuto assai difficile discorrere di appalti illeciti. In passato, infatti, negli appalti cd «pesanti» si diceva che un indizio della non genuinità dell'appalto era dato dall'aver l'appaltatore utilizzato mezzi di proprietà del committente, così ad esempio nel settore agricolo se venivano usati trattori del committente.

Si tratta evidentemente di criterio divenuto evanescente rispetto agli appalti ad alta intensità di manodopera, nel quale gli strumenti di lavoro sono elementi del tutto residuali rispetto all'oggetto della prestazione lavorativa (si vedano Cass., Sez. Lav. sentenze nn. 31127 e 31128 del 2 novembre 2021, che hanno ritenuto irrilevante la circostanza che i dipendenti dell'appaltatrice utilizzassero la strumentazione del committente, essendo rilevante, invece, l'organizzazione autonoma e l'esercizio potere direttivo).

Dinanzi ad un siffatto depotenziamento dell'ambito di applicazione della disciplina riguardante gli appalti e la somministrazione illecita il legislatore ha voluto, tuttavia, sanzionare in modo più energico quelle fattispecie concrete nelle quali vi erano situazioni di grave sfruttamento dei lavoratori. E' questo il senso dell'intervento del legislatore con il D.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito poi dalla L. 14 settembre 2011, n. 148, con il quale è stato coniato il reato di cd “caporalato”, aggiungendo l'art. 603-bis al codice penale. La norma ha punito con la reclusione da 5 a 8 anni e la multa l'intermediario reclutatore, in forma organizzata, quando la manodopera reclutata era in condizioni di sfruttamento, il reclutamento avveniva mediante violenza o minaccia o intimidazione ed approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori.

La summenzionata è una norma che ha avuto scarsa applicazione per svariati motivi. Anzitutto, non si applicava al datore di lavoro, ma solo all'intermediario; inoltre, non si applicava all'intermediario occasionale isolato e non organizzato; non si applicava alle intermediazioni «silenti» cioè senza violenza o minaccia o intimidazione.

Evidentemente il legislatore ha voluto reprimere le ipotesi di grave sfruttamento appannaggio della criminalità organizzata, peraltro spesso rientranti nell'alveo di altri e più gravi reati, come l'associazione mafiosa di cui all'art. 416-bis c.p. o la riduzione in schiavitù di cui all'art. 600 c.p., non considerando che nelle maggiori ipotesi applicative il lavoratore è costretto dallo stato di bisogno a lavorare in condizioni di sfruttamento senza che sia necessaria la minaccia (seppur si è assistito con riferimento alla prima versione dell'art. 603-bis c.p. alla tendenza giurisprudenziale a depotenziare i requisiti previsti dalla norma per la sua integrazione, ad esempio Cass. Pen., Sez. V, n. 14591 del 4 febbraio 2014, Stoican, Rv. 262541 ritenne integrato il requisito della intimidazione nella rinuncia dei lavoratori stranieri, privi di adeguati mezzi di sussistenza, a richiedere il pur irrisorio compenso pattuito con l'agente, per il timore di non essere più chiamati a lavorare; ancora Cass., Sez. V, n. 6788 del 23 novembre 2016, dep. 2017, Vecchio ed altro, Rv. 2694471 ritenne sussistente il requisito dell'attività organizzata di intermediazione nei confronti dei due imputati, i quali curavano tutti gli aspetti organizzativi del lavoro in condizioni di sfruttamento di alcuni braccianti agricoli). Quindi, le modalità più diffuse e subdole di sfruttamento, attuate senza ricorrere necessariamente alla violenza, alla minaccia o all'intimidazione, venivano lasciate alla blanda gestione di un sistema penale più mite, quello predisposto attraverso le ipotesi contravvenzionali previste in tema di intermediazione illecita ex art. 18 D.lgs.10 settembre 2003, n. 276.

Inoltre, in modo del tutto irragionevole, la disciplina sanzionava il reclutatore, ma mandava esente da pena l'utilizzatore, ossia colui che traeva lucro dallo sfruttamento dei lavoratori.

Le suddette critiche all'apparato normativo sono state recepite dal legislatore, che da ultimo ha modificato con legge 199/2016, l'art. 603-bis c.p.

Ben presto, pertanto, ebbe a palesarsi necessario un nuovo intervento del legislatore, volto a riformulare la fattispecie di cui all'art. 603-bis c.p.., prevedendo un alleggerimento sostanziale della tipicità, così da ampliare la sua sfera di operatività e favorire una più agevole praticabilità processuale, grazie anche a un più limitato onere probatorio.

L'intervento c'è stato con la L. 29 ottobre 2016, n. 199, in vigore dal 4 novembre 2016, che ha modificato l'art. 603-bis cod. pen. distinguendo l'ipotesi di intermediazione illecita, il cd. "caporalato", configurandolo come delitto di pericolo a dolo specifico, da quella di sfruttamento del lavoro, condotta propria del datore di lavoro, delitto di pericolo a dolo generico (Cass., Sez. IV, 18 gennaio-1 febbraio 2022, n. 3554), equiparandole sul piano sanzionatorio.

Concorrono a realizzare le condotta tipiche di reclutamento e di utilizzo, rilevanti penalmente, solo lo sfruttamento e l'approfittamento dello stato di bisogno, indici già presenti nella disposizione previgente, mentre la violenza e la minaccia, che prima entravano nella tipicità del reato, oggi ne costituiscono circostanze aggravanti.

L'articolo 603-bis c.p. vigente recita testualmente: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1. 000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimana/e, a/l'aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l'aumento della pena da un terzo alla metà: 1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro».

Bisogna aggiungere che la Legge n. 199/2016 non si è limitata ad una modifica della fattispecie penale, ma, attraverso un approccio integrato fra sistema penale ed extrapenale, ha articolato una strategia razionale di lotta al fenomeno del caporalato e, più in generale, allo sfruttamento lavorativo. A tal fine, il legislatore del 2016 ha ampliato la responsabilità da reato dell'ente giuridico, con l'inserimento dell'art. 603-bis nell'elenco dei reati di cui l'ente risponde ex art. 25-quinquies D.lgs. n. 231/2001 e ha reso possibile il ricorso a strumenti repressivi di tipo patrimoniale, come i diversi tipi di confisca e il sequestro giudiziario, a riprova di una raggiunta maggiore consapevolezza di trovarsi di fronte, a tutti gli effetti, a forme di criminalità economica.

Del tutto conseguente al rinnovato ambito applicativo della norma è la variegata casistica di applicazione della fattispecie, non più limitata al solo grave sfruttamento agricolo, ma si registrano ipotesi nel settore manifatturiero (Cass. Pen., Sez. IV, 8 ottobre 2021, n. 36554), nell'ambito di un autolavaggio (Cass. Pen., Sez. IV, 689/2021), rispetto ai ciclofattorini (cfr. Gup, Tribunale di Milano, sent. 15 ottobre 2021, n. 2805 con nota di P. Brambilla in www.sistemapenale.it.)

La questione e la soluzione giuridica

Venendo alla questione oggetto della sentenza in commento, attiene al requisito richiesto per l'integrazione della fattispecie di cui all'art. 603-bis c.p. dell'approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore.

È pacifico nella giurisprudenza penale di legittimità che ai fini dello stato di bisogno, l'approfittare costituisce una condotta aggiuntiva rispetto a quella di sottoporre i lavoratori a condizioni di sfruttamento (in forma diretta o indiretta, tramite mera intermediazione): condotta aggiuntiva necessaria ai fini della configurabilità del reato in esame e conseguentemente ai fini dell'individuazione del confine tra la tutela meramente civilistica, realizzata mediante il diritto del lavoro, e quella penale, tendenzialmente residuale.

Inoltre, nell'art. 603-bis c.p., il legislatore ha scelto di utilizzare la locuzione "stato di bisogno", già usata nel nostro ordinamento con riferimento ad istituti civilistici ed altri reati (quali, ad esempio, l'usura nell'originaria configurazione), e non quella "posizione di vulnerabilità", di matrice sovranazionale (cfr. art. 3 del Protocollo trafficking e la nota dei lavori preparatori; art. 2 direttiva 2011/36/EU), che, nell'art. 1 della decisione del Consiglio Cee 19 luglio 2002, n. 629, sulla lotta alla tratta degli esseri umani, viene definita come quella situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima. Al contrario, nella formulazione dell'art. 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù), si è fatto espressamente riferimento alla "posizione di vulnerabilità" della vittima.

Si tratta di una scelta lessicale che non è priva di conseguenze, in quanto nella fattispecie in esame, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, non occorre indagare sulla sussistenza di una posizione di vulnerabilità, da intendersi, secondo le indicazioni sovranazionali, come assenza di un'altra effettiva ed accettabile scelta, diversa dall'accettazione dell'abuso - indagine che, peraltro, anche nella fattispecie di cui all'art. 600 c.p. è alternativa rispetto alla verifica di altre e diverse situazioni di debolezza della vittima, specificamente indicate dal legislatore.

Difatti, secondo l'interpretazione oramai consolidata della giurisprudenza di legittimità, formatasi relativamente ad altri istituti, lo stato di bisogno va identificato non con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (v., tra le tante, Cass. pen., Sez. II, n. 10795 del 15 marzo 2016, CED Cass. 266162).

Quindi, se la giurisprudenza di legittimità converge quanto alla nozione di approfittamento dello stato di bisogno, vi sono maggiori distinguo quanto agli standard probatori necessari per integrare tale requisito.

Ad esempio una parte della giurisprudenza di legittimità ha inteso rinvenire la prova dello stato di bisogno nella condizione delle vittime non più giovani e/o non particolarmente specializzate e, quindi, prive della possibilità di reperire facilmente un'occupazione lavorativa (Cass. pen., Sez. IV, 16 marzo 2021- 22 giugno 2021, n. 24441; Cass, Sez. IV, 10 marzo-24 giugno 2022, n. 24388). Nello stesso senso quella giurisprudenza di legittimità, che ha ritenuto che l'approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori possa ricavarsi dalla condizione di clandestinità degli stessi, che li rende disposti a lavorare in condizioni disagevoli (Cass Pen., Sez. V, 12 gennaio-20 aprile 2018, n. 17939).

Al contrario altro orientamento sviluppatosi sempre nella Sezione IV della suprema Corte di Cassazione Penale ha affermato che ai fini della prova dello sfruttamento del lavoratore, non è sufficiente la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, pure accompagnata da una condizione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa non può di per sè costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bis c.p. (Cass, Pen., Sez. IV, 12 maggio-1 luglio 2021, n. 25083; Cass. Pen., Sez. IV, 16 settembre-6 ottobre 2020, n. 27582; Cass. Pen. Sez. IV, 9 ottobre-9 dicembre 2019, n. 49781).

Nel solco di questa giurisprudenza, che richiede una prova rigorosa dello stato di bisogno, si colloca anche la pronuncia in commento. Come si è detto, la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso di un indagato per il reato di cui all'art. 603-bis c.p., che era accusato di aver assunto o comunque utilizzato manodopera, costituita da decine di lavoratori di provenienza straniera, allo scopo di destinarla alla coltivazione di terreni agricoli nella sua disponibilità, sottoponendo i medesimi lavoratori a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno, desumibile dalla circostanza che le vittime erano braccianti agricoli che vivevano in condizioni igienico-sanitarie pessime, presso l'area dell'ex pista di Borgo Mezzanone, in Provincia di Foggia (si tratta di un'area nella quale sorgeva un centro di accoglienza per richiedenti asilo e dove era sorta una baraccopoli abitata da migliaia di stranieri).

Ebbene, la Cassazione afferma che «non può negarsi che soggiornare in un Centro di accoglienza costituisca una condizione di disagio, trattandosi di alloggiamenti che implicano condizioni di promiscuità dei servizi e l'assenza degli ordinari agi di un'abitazione, cionondimeno ciò non integra di per sé lo stato di bisogno». In tal senso la sentenza richiama Cass. Pen., Sez. IV, 11 novembre 2021, n. 3941 relatore Nardin, che aveva affermato il medesimo principio in una fattispecie concreta analoga.

Osservazioni

Orbene, la sentenza in commento non appare scevra da critiche. Infatti, richiedere uno standard probatorio troppo elevato ai fini della integrazione del requisito dello stato di bisogno della vittima, una volta che sia stata accertata la sussistenza degli indici di sfruttamento, rischia di porsi in contrasto con la stessa nozione di stato di bisogno contenuta nell'art. 603-bis c.p.

Chi scrive non ignora l'orientamento giurisprudenziale sviluppatosi rispetto alla diversa ipotesi di riduzione in schiavitù e nel che condizioni lavorative defatiganti e situazioni abitative precarie sono solo sintomatiche di una eventuale soggezione continuativa, elemento tipico della riduzione in servitù, ma non costituiscono la prova di «una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona, necessaria per la configurazione di quello stato di soggezione rilevante ai fini della sussistenza del reato in questione, anche indipendentemente da una totale privazione della libertà personale» (Così Cass., sez. V, 24 settembre 2013, n. 44385; Cass., sez. V, 17 giugno 2016, n. 31647).

Tuttavia, occorre evidenziare che con riferimento alla diversa fattispecie di riduzione in schiavitù si è manifestata una evoluzione interpretativa. In particolare tra le più recenti pronunce della corte Edu, la sentenza del 30 marzo 2017 sul caso Chowdury c. Grecia, riguardante un caso di sfruttamento lavorativo di immigrati senza permesso di soggiorno, in cui la Corte ha evidenziato come possa ravvisarsi una violazione dell'art. 4 CEDU, sub specie di divieto di lavoro forzato o obbligatorio, anche laddove vi sia una situazione di sfruttamento lavorativo che non abbia carattere di permanenza; ma, soprattutto, la Corte ha evidenziato come il requisito della volontarietà della prestazione lavorativa debba considerarsi mancante in re ipsa in tutte le situazioni in cui un datore di lavoro abusa del suo potere o trae profitto da una condizione di vulnerabilità dei lavoratori, indipendentemente da un eventuale iniziale consenso da parte della vittima.

La Corte EDU ha considerato che la situazione di irregolarità in cui i lavoratori si trovavano, oltre ad essere privi di risorse e sottoposti al costante rischio di essere arrestati e rinviati nel paese di origine, poneva gli stessi in una situazione di oggettiva vulnerabilità di cui i datori di lavoro avevano approfittato. Cass. pen., Sez. V, 16 marzo 2022-2 maggio 2022, n. 17095 ha dato voce ai menzionati principi sovrannazionali ritenendo che ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 600 c.p, ai fini della sussistenza dello stato di soggezione della vittima, non è necessaria la totale privazione della sua libertà personale, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione.

Ebbene, se rispetto alla diversa e maggiormente afflittiva ipotesi di reato di cui all'art. 600 c.p. si giunge a ritenere la situazione di irregolarità dei lavoratori stranieri indizio di oggettiva vulnerabilità, ancora più agevole deve essere la prova dello “stato di bisogno” di cui all'art.603-bis c.p.

Infatti, se il legislatore ha scelto di utilizzare la locuzione "stato di bisogno" e non quella "posizione di vulnerabilità", di matrice sovranazionale, quest'ultima nel senso di un annichilimento della volontà della vittima, ciò significa che la grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, debba e possa essere provata con minor aggravio rispetto alla “posizione di vulnerabilità” e quindi anche sulla base di elementi indiziari, che attingono al notorio.

Ad esempio appare ragionevole ritenere che il lavoratore straniero irregolare sia una posizione di estrema debolezza contrattuale rispetto alla possibilità di rinvenire un'occupazione lavorativa e per tale ragione sia indotto ad accettare offerte di lavoro che implicano condizioni di sfruttamento. Infatti, dalla posizione di irregolarità quanto al soggiorno deriva da una parte l'integrazione di un reato da parte dello straniero con possibilità di immediata espulsione nel Paese di origine (art. 10-bis D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) e ove venga occupato, ciò determina un'ipotesi di reato in capo al datore di lavoro (art. 22 co. 12 D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). Allora, non vi è chi non veda allora come dalla posizione di irregolarità derivi una intrinseca posizione di debolezza del lavoratore straniero irregolare, al quale per legge è precluso l'accesso al mercato del lavoro.

Allo stesso modo ritenere non sufficiente la prova dello stato di bisogno per il lavoratore che vive in una baraccopoli o in un centro di accoglienza, ciò significa richiedere una prova diabolica, impossibile da assolvere. Si aggiunga, inoltre, che laddove il cittadino straniero richiedente asilo alloggi in un centro di accoglienza, ciò presuppone per legge l'insussistenza di mezzi economici sufficienti, in presenza dei quali si determinerebbe la revoca delle condizioni di accoglienza (art. 23 D.lgs. 18 agosto 2015, n. 142).

Del resto la giurisprudenza di legittimità, già in passato, con riferimento ad ipotesi delittuose nelle quali la vittima si trovava in una posizione di particolare debolezza ai fini della integrazione dello stato di bisogno ha sempre richiesto standard probatori non eccessivamente rigorosi, che avrebbero in caso contrario posto nel nulla l'ambito applicativo della disciplina.

Così ai fini dell'integrazione dello stato di bisogno della persona offesa del delitto di usura – aggravante speciale e specifica dell'usura di cui all'art. 644, co. 5, n. 3, c.p.-, si è asserito che può essere provato anche in base alla sola misura degli interessi, qualora siano di entità tale da far ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto in stato di bisogno possa contrarre il prestito a condizioni talmente inique e onerose (Cass. Pen., Sez. II, 18 maggio 2009, n. 20868).

In conclusione, la sentenza in commento nel ritenere che il soggiornare in un Centro di accoglienza costituisca una condizione di disagio non idonea ad integrare di per sé lo stato di bisogno, si pone nell'alveo di quell'orientamento giurisprudenziale che richiede uno standard probatorio molto elevato al fine dell'integrazione dell'approfittamento dello stato di bisogno del reato di cui all'art. 603-bis c.p., determinando un contrasto interpretativo all'interno della Cassazione Penale. Si tratta di oscillazioni giurisprudenziali forse evitabili usando criterio della ragionevolezza ed in base alle più recenti pronunce sovrannazionali.

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