Lavoro a tempo parziale: rapporto contributivo e principio di retribuzione "virtuale"
03 Novembre 2022
I fatti di causa
Per quel che maggiormente rileva, una società ricorreva in giudizio opponendosi alle pretese co contributive avanzate da INPS, mediante c.d. “avviso di addebito” (art. 30, D.L. 31 maggio 2010, n. 78) e fondate, a parere dell'Istituto, su omissioni conseguenti un'errata «considerazione delle qualifiche e livelli dei lavoratori interessati e dell'orario a tempo parziale, quale indicato nei contratti individuali».
Nella fase di appello, caduta la contesa inerente all'inquadramento contrattuale, i giudici del reclamo erano sollecitati a esprimersi sull'adeguatezza dell'orario di lavoro, utilizzato a “fattore” per determinare la retribuzione imponibile ai fini previdenziali.
L'aspetto caratterizzante la vicenda (non si constano precedenti simili giunti al vaglio della nomofilachia) è disvelato dalle deduzioni difensive aziendali, secondo cui le “riduzioni” orarie - nonché, di riflesso, retributive e contributive - operate, avrebbero trovato legittimazione nell'esercizio datoriale delle c.d. “clausole elastiche”, formalmente convenute, a livello “individuale”, nella fase costitutiva dei rapporti.
Tuttavia, anche nel secondo grado di giudizio, veniva confermata l'impossibilità di ammettere «la validità di clausole elastiche volte a legittimare lo svolgimento della prestazione per orari inferiori rispetto a quelli pattuiti nei contratti individuali, sicché la pretesa datoriale di calcolare la contribuzione su ore di lavoro asseritamente prestate in meno rispetto a quelle pattuite non poteva avere corso». Prima di procedere verso le conclusioni contenute in ordinanza, è opportuno un breve richiamo al contesto giuridico che retroagisce alla vicenda, la quale si ascrive, pur con già menzionati “tratti” propri, al ricchissimo contenzioso vertente sulle obbligazioni previdenziali e assistenziali scaturenti dal contratto subordinato part-time ossia, secondo definizione normativa, identificato da una modalità esecutiva inferiore all'orario normale di lavoro di cui all'art. 3, D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66.
Funditus, la genesi delle controversie è da rintracciare nella complessità delle “conseguenze” correlate alla fattispecie ex art. 2094 c.c., necessitando di evidenziare che, per verità, come osservato anche in dottrina, al sorgere della relazione subordinata, segue, ope legis, la coeva e parallela costituzione di altri due “rapporti”: quello “previdenziale”, far lavoratore e INPS e quello “contributivo”, fra datore di lavoro e il medesimo Istituto.
Questo, nel tempo, ha condotto la giurisprudenza ad affermare, rispetto al vincolo retributivo, il principio di autonomia del rapporto contributivo, in virtù del quale il versamento dovuto all'Ente nazionale di previdenza, ben può essere parametrato ad un importo superiore rispetto agli emolumenti effettivamente corrisposti, dall'azienda al prestatore (così, di recente, Cass. 10 agosto 2020, n. 16859, richiamata anche dalla pronuncia in commento, ma anche le “gemelle” Cass. 10 agosto 2020, n. 16860 e n. 16861).
Come noto, l'addentellato normativo è da rinvenirsi nell'art. 1, D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, il quale, disponendo che la “base di calcolo” non può risultare inferiore «all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale», positivizza il concetto di c.d. “retribuzione virtuale” ai fini del calcolo dei contributi (Cfr. Cass. 3 giugno 2019, n. 15120).
Di guisa che, relativamente ai lavoratori a tempo parziale, il rinvio legislativo all'autonomia contrattuale collettiva, dotata di maggior rappresentatività, pur concretizzando un “parametro esterno” di adeguatezza e non una vera e propria fonte di obbligazione “diretta” (Cass. 10 agosto 2020 cit.), ha determinato la giustificatezza delle posizioni di maggior credito sostenute da INPS e fondate, in particolare, su violazioni dei termini contenuti nei CCNL: dalla stipula di contratti per un monte orario inferiore rispetto ai limiti individuati dalle parti sociali, allo sforamento delle quote numeriche di contingentamento dalle medesime previste. Addentrandosi nell'iter motivazionale a premessa del dispositivo, la Corte di Cassazione, rigettando i due motivi del gravame (promossi ex art. 360 c.p.c. «3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro»), si concentra sulle peculiarità del caso, evidenziando che, in specie, «non è […] in discussione il rispetto o meno di un monte ore stabilito dalla contrattazione collettiva, ma soltanto quanto previsto dai contratti individuali» (p. 10 ordinanza) e, segnatamente, dalle “clausole elastiche” ivi contenute.
Sicché, smentita l'esegesi contrattuale (art. 1362 c.c. e ss.) favorevole ad ammettere possibili riduzioni dell'orario di lavoro inizialmente pattuito, il Supremo Collegio si spende nel precisare che, in ogni caso, le disposizioni normative ratione temporis vigenti - per vero, il periodo oggetto di accertamento interessa due differenti discipline: l'art. 3, comma 7, D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 e l'art. 6, comma 4, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 - avrebbero, comunque, condotto, ex artt. 1418 e 1419 c.c., alla nullità degli atti di regolazione così come inter partes definiti.
Questo perché, conclude la Corte, in termini di “principio”, «l'orario stabilito dai contratti individuali, rispetto al calcolo della contribuzione, non è mai eccedente rispetto al dovuto, ma semmai potrebbe essere deficitario, ove essi stabilissero un monte ore inferiore a quello della contrattazione collettiva, ma come si è detto non è questa la questione agitata in causa» (p. 12 ordinanza). Favorendo qualche riflessione sulla pronuncia in commento, preme osservare come, posta l'incontrovertibile littera legis, la quale, in entrambe le versioni, “concede” alle parti, esclusivamente, variazioni della collocazione ovvero aumenti temporali della prestazione, i giudici di legittimità, ritenendo applicabile il “meccanismo” di sostituzione delle “clausole elastiche” per nullità parziale (sul principio di “conservazione” del contratto subordinato, tutela del lavoratore, Cass. 30 maggio 2019, n. 14797), suffragano la natura “imperativa” della disciplina del lavoro a tempo parziale, stabilendo, de facto, l'indisponibilità della materia all'autonomia contrattuale “individuale”.
Dal punto di vista della “razionalità” della decisione, si deve poi dar conto di un notevole grado di coerenza giuridica della stessa, non solo sotto il profilo, nella disamina meno rilevante, endo-contrattuale, laddove, come noto, la “rigidità” normativa del part-time, trova causa nel carattere essenziale, per il lavoratore, della programmabilità del tempo libero, che ne giustifica, dunque, la tendenziale immodificabilità dell'orario di lavoro (di recente, Cass. 31 marzo 2021, n. 8958).
Ma anche, dal punto di vista sistematico, se considerate le evidenti finalità pubblicistiche della contribuzione previdenziale, «posto che - come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza 20 luglio 1992, n. 342 – “una retribuzione (...) imponibile non inferiore a quella minima (è) necessaria per l'assolvimento degli oneri contributivi e per la realizzazione delle finalità assicurative e previdenziali, (in quanto), se si dovesse prendere in considerazione una retribuzione imponibile inferiore, i contributi determinati in base ad essa risulterebbero tali da non poter in alcun modo soddisfare le suddette esigenze"» (così, Cass 6 ottobre 2020, n. 21479).
Con l'ineludibile conseguenza che - pur dovendo rilevare anche l'esistenza di orientamenti parzialmente difformi (sull'inesistenza dell'obbligo contributivo in caso di inadempimento del lavoratore o accordo fra le parti, Cass. 29 luglio 2020, n. 16227) - la soddisfazione della pretesa contributiva persista e sia del tutto legittima «anche in caso di assenze o di sospensione concordata della prestazione che non trovino giustificazione nella legge o nel contratto collettivo, bensì in un accordo tra le parti che derivi da una libera scelta del datore di lavoro» (Cass 6 ottobre 2020 cit.). |