La funzione delle azioni revocatorie: dalle teorie indennitaria ed antindennitaria allE Sezioni Unite

07 Novembre 2022

L'Autore svolge un breve excursus, che delinea il punto di partenza dottrinale e giurisprudenziale sulle azioni revocatorie per poi approdare, attraverso un' indagine specifica della più rilevante giurisprudenza e dottrina, al principio di diritto espresso dalle pronuncia delle Sezioni Unite n. 5049/2022.
Premessa

La situazione geopolitica mondiale e la nascita di nuovi agoni commerciali hanno imposto al Legislatore Italiano di uniformarsi a standard Europei di gestione della crisi di impresa più moderni ed improntati all'emersione precoce della patologia (basti ricordare, sul punto, la direttiva n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001 riguardante “il ravvicinamento delle legislazioni degli stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese” e la Direttiva n. 1023/2019 - c.d. direttivaInsolvency). All'interno di questa indispensabile esigenza di modernizzazione e di adeguamento alle attuali necessità del mercato globale si pone il principio di diritto enunciato delle Sezioni Unite con la sentenza n. 5049/2022, antesignana di una nuova, più attuale e lungimirante teorizzazione.

Il caso

La Corte d'Appello di Messina aveva parzialmente accolto l'impugnazione formulata dalla curatela avverso la sentenza di rigetto di un'azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto le rimesse solutorie effettuate nell'anno antecedente alla dichiarazione di fallimento, nonché l'incasso di un certificato di deposito oggetto di pegno consolidato.

La Corte del merito ha ritenuto esistente la prova della scientia decoctionis in grazia di una serie di evidenze dalle quali sarebbe stato deducibile, da parte della banca convenuta, un notevole grado di conoscenza dell'andamento della situazione generale della società (il riferimento veniva fatto alla levata di protesti anteriori alla dichiarazione di fallimento).

La Banca, parzialmente soccombente in secondo grado, ha proposto ricorso in Cassazione prospettando tre motivi: il primo relativo al presunto difetto di prova in tema di scientia decoctionis (la Corte d'Appello avrebbe ingiustamente ritenuto esistenti alcuni canali privilegiai per la conoscenza dei protesti elevati); il secondo sull'omessa valutazione dei mezzi di prova in relazione al profilo della natura ripristinatoria delle rimesse bancarie ed il terzo con il quale si segnalava che il pegno rotativo, sulla base del quale era avvenuto il pagamento, era stato costituito nel 1991, ben oltre il termine di 5 anni prima della dichiarazione di fallimento, ed aveva ad oggetto un certificato di deposito al portatore. In tesi, la revoca del pagamento avrebbe prodotto l'effetto indiretto della revoca della garanzia, da tempo consolidatasi, e la degradazione in chirografo del credito con ciò costituendo una evidente violazione della par condicio creditorum.

Già nell'ordinanza interlocutoria n. 8923/2021 si è evidenziato che il terzo motivo si inseriva all'interno di un vivace dibattito dottrinale circa l'essenza ed i fini tipici dell'azione revocatoria fallimentare e, nello specifico, sull'assoggettabilità a revocatoria ex art. 67 l.fall. della rimessa su un conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene (il certificato di deposito al portatore, nel nostro caso) oggetto di un pegno ormai consolidatosi e, quindi, opponibile alle ragioni del fallimento.

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, ritenuto che il riesame della collocazione in chirografo del credito originariamente garantito assuma un ruolo dirimente in relazione al rispetto del principio della par condicio creditorum (la Procura generale esponeva una tesi in linea con gli arresti giurisprudenziali consentanei alla revocabilità assoluta).

La funzione dell'azione revocatoria: dalla contrapposizione tra la tesi monistica e dualistica alla nascita delle tesi indennitaria ed antiindennitaria o distributiva

Una prima aporia è in realtà già riscontrabile nel tenore letterale delle due norme di riferimento, posto che l'art. 2901 c.c., a differenza dell'art. 67 l.fall., reca un esplicito riferimento al pregiudizio delle ragioni creditorie con ciò delineando, quanto meno, la differenza dei presupposti delle azioni e la conseguente non sussumibilità all'interno della medesima specie. Da questa riflessione trae origine la teoria dualistica, che considera differenti le due azioni ed identifica il fine ultimo della revocatoria fallimentare nel ripristino della par condicio creditorum violata dal debitore per mezzo dell'atto dispositivo compiuto prima del fallimento (G. Rossi, La revocatoria fallimentare delle ipoteche, in Riv. Dir. Civ., 1963, I, 510; Maffei Alberti, il danno nella revocatoria, Padova, 1970).

Alla predetta tesi si contrappone quella che considera, invece, le due azioni revocatorie come appartenenti alla stessa categoria giuridica (teoria monistica), in un rapporto di species ad genus che implica, tra le altre conseguenze, la possibilità di estensione analogica delle disposizioni contenute nel codice civile anche alla normativa fallimentare, così dipingendo una sostanziale affinità tra le due sebbene l'applicazione delle stesse parta da presupposti differenti (F. Ferrara, Il fallimento, Milano, 1995, 422 e ss.)

L'apice della disputa si raggiunge allorquando si esamina l'elemento oggettivo delle due azioni, e, più precisamente, quando si pone la questione se nella revocatoria fallimentare (superando il tenore letterale della norma), si possa ritenere che il pregiudizio costituisca un presupposto essenziale dell'azione (per una compiuta disamina: Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria cit.).

I sostenitori della teoria monistica hanno aderito alla teoria indennitaria in base alla quale il danno costituisce sempre un presupposto dell'azione revocatoria fallimentare ed ordinaria. Viceversa, i sostenitori della teoria dualistica ritengono che la norma non consenta di ritenere il danno quale presupposto essenziale dell'azione. Il riferimento è al tenore letterale degli artt. 2901 c.c. e 67 l.fall. laddove, come già riferito, il primo, a differenza del secondo, reca un esplicito riferimento al pregiudizio.

L'atto, dunque, sarebbe revocabile, in base a tale ipotesi ricostruttiva, anche se la controparte fosse in grado di provare l'inesistenza del danno o della frode, posto che l'elemento fondante dell'azione è rinvenibile nella pura e semplice lesione della par condicio creditorum (G. Rossi, La revocatoria fallimentare delle ipoteche cit.). L'esigenza a cui intende rispondere l'istituto sarebbe quella della collettivizzazione della perdita derivante dall'insolvenza allargando la platea dei soggetti attinti, aggiungendo ai creditori esistenti al momento della dichiarazione di fallimento anche i soggetti che hanno avuto rapporti con il fallito prima del fallimento stesso.

L'evoluzione della giurisprudenza di legittimità

La giurisprudenza di legittimità più risalente ha applicato la teoria indennitaria ed una conseguente sostanziale equiparazione tra l'azione revocatoria ordinaria e quella fallimentare: “pur non potendo essere esercitata, in omaggio al principio della par condicio creditorum che informa tutta la procedura concorsuale, dai singoli creditori del fallito, ma dovendo essere esercitata in via esclusiva dal fallimento, essa ha, tuttavia, la medesima natura ed i medesimi effetti della Pauliana”(così sintetizza Maffei Alberti, La funzione della revocatoria fallimentare, in Giur. Comm., 1976, 360 e ss.).

I primi cenni di scostamento possono essere colti nella sentenza della Corte di Cassazione n. 10570/1992, che, citando gli elementi di danno per la massa fallimentare, specifica che “il danno della massa consiste nella pura e semplice lesione del criterio della par condicio creditorum” (nelle motivazioni: “il presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare, e segnatamente della revoca dei pagamenti, deve informarsi non alla nozione di danno quale emerge dagli istituti ordinari dell'ordinamento, ma alla specialità tipica del sistema fallimentare e, come tale, uniformandosi al principio della par condicio creditorum, il danno consiste nel puro e semplice fatto della lesione del detto principio”).

Il vero punto di svolta si è concretizzato, però, con la sentenza n. 7028/2006, ove l'adesione alla teoria distributiva inizia ad essere più marcata: “quel che premeva al legislatore era non tanto il rapporto commutativo del negozio , quanto il recupero , comunque, di ciò che uscendo dal patrimonio del debitore nell'attualità di una situazione di insolvenza , sottragga il beneficiario alla posizione di creditore concorrente (perché in tal modo già soddisfatto), con automatico vulnus del principio della par condicio creditorum”, alla cui attuazione è ispirato il sistema fallimentare.

Nello stesso senso si sono collocate successive pronunce le quali hanno ribadito che: “l'eventus damni è in re ipsa e consiste nel fatto stesso della lesione della par condicio creditorum, ricollegabile per presunzione legale assoluta all'atto di disposizione patrimoniale posto in essere dal fallito”.

L'insinuazione al passivo del credito revocato

La cesura rispetto alla precedente sentenza della Cassazione n. 16565/2018 è, dunque, netta, posto che la predetta ha ritenuto revocabile la rimessa bancaria ed ha posto il creditore revocato in posizione chirografaria nel quadro del passivo fallimentare, dal momento che il credito insinuato al passivo non è quello originario assistito da garanzia reale, bensì quello nuovo generato dall'effettiva restituzione e trova la sua fonte direttamente nella legge (Cass. Civ. 24627/2018 la quale precisa che tale orientamento deve affermarsi in ossequio alla natura distributiva dell'azione revocatoria).

La rimeditazione delle Sezioni Unite principia da due motivi: il primo riguarda la questione a lei sottoposta relativa all'assoggettabilità a revocatoria ex art. 67 l.fall. della rimessa in conto corrente effettuata dalla banca con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno, ormai consolidatosi.

Il secondo, strettamente connesso al primo, parte dall'assioma, ormai consolidato, della natura distributiva dell'azione revocatoria ed affronta la questione relativa al trattamento in sede fallimentare del credito originariamente garantito ai sensi dell'art. 70, comma 2, l.fall.: “posto che la sentenza oggetto di impugnativa genera delle conclusioni che vanno in netto contrasto proprio con il principio che intendono tutelare: a fronte di una garanzia consolidata, pienamente efficace nei confronti della massa, ricostituito l'attivo attraverso la revoca del pagamento realizzato mediante il controvalore del bene sul quale la garanzia era stata costituita ed in difetto di un'azione di revoca della garanzia, la revoca e l'ammissione in chirografo del pagamento sopra indicato appaiono determinare una lesione del principio della par condicio creditorum venendo a mancare proprio quella corretta graduazione dei crediti che devono trovare soddisfazione nella sede concorsuale cui è destinata l'azione revocatoria fallimentare. L'ammissione in chirografo assume una funzione sostanzialmente sanzionatoria che le è estranea” (la Corte precisa, inoltre, che la revocabilità dei pagamenti eseguiti nel periodo sospetto da parte di creditori muniti di garanzia reale non è stata più posta in discussione a partire dalla pronuncia delle SS. UU. n. 7028/2006).

L'approdo consiste in una convinta adesione alla teoria distributiva ed alle conseguenze ad essa legate, quali la revocabilità di tutti i pagamenti effettuati nel periodo sospetto purché uniti alla consapevolezza del creditore dello stato di insolvenza del debitore prossimo al fallimento, associata ad una sostanziale rimeditazione in ordine all'applicazione dell'art. 70 l.fall. e , quindi, alla collocazione in chirografo del credito insinuato al passivo dopo l'azione revocatoria.

L'orientamento giurisprudenziale sinora espresso (Cass. civ. 24627/2018 secondo la quale il credito che si insinua al passivo ex art. 70 l.fall. non è quello originario, ma un credito nuovo che trova la sua fonte nella legge. In pratica l'obbligo restitutorio non fa rivivere la garanzia) è stato saggiato al cospetto del principio della par condicio creditorum partendo dal presupposto che la degradazione si fonda sul rilievo che il pagamento effettuato dal fallito in adempimento dell'obbligazione pecuniaria garantita è disancorato dalla natura del credito in funzione del quale è stato eseguito , perché deriva la propria ragione causale dall'ingiustificato arricchimento conseguito dal fallimento per l'esito vittorioso della revocatoria.

L'inefficacia del pagamento, però, non deve incidere sulla corretta collocazione processuale del credito e, di conseguenza, la causa di prelazione che assisteva il credito originario sarà qualificante anche di quello nuovo derivante dal pagamento revocato. Con questa soluzione si ottiene la tutela dei creditori concorsuali, perché il credito è stato revocato, e contestualmente, si tutelano le ragioni del creditore prelatizio che non vede sfumare la propria garanzia. In effetti, aggiunge la Corte, la funzione distributiva della revocatoria del pagamento del creditore privilegiato non si ottiene degradando il suo diritto, ma consentendo che lo stesso sia soddisfatto mediante una corretta allocazione dopo la soddisfazione dei crediti prededucibili e quelli di grado poziore (il diritto di prelazione non si realizzerà direttamente sul bene oggetto di garanzia ma attraverso una collocazione non diversa rispetto a quella che si sarebbe avuta ove si fosse proceduto a ripartizione in favore del creditore pignoratizio ammesso al passivo).

Il principio di diritto: osservazioni conclusive

Il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite è il seguente: “ la revoca ex art. 67 l.fall. del pagamento eseguito in favore del creditore pignoratizio con il ricavato della vendita del bene oggetto del pegno determina il diritto del creditore che ha subito la revocatoria ad insinuarsi al passivo del fallimento con il medesimo privilegio , nel rispetto delle regole distributive di cui agli artt. 111, 111-bis, 111-ter e 111-quater legge fallimentare”.

In questa ottica, preservare il privilegio del creditore revocato e mantenerlo anche in sede fallimentare, concretizza una operazione non di semplice di maquillage, ma di rilievo sostanziale, che, pur nel rispetto della normativa sulle prededuzioni, consente di non sminuire un tipo di operazione commerciale ancora molto importante e diffusa e, quindi, produttiva di reddito.

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